La nascita di Israele, il sionismo, il kibbutz, la guerra e la pace, nella testimonianza di una protagonista d’eccezione: Ada Sereni, nipote di Enzo e Mimmo Sereni, figlia di Enrico e di Agar. L’intervista e’ tratta dal documentario ”Figlie della terra di Canaan” di Nella Condorelli, produzione SPI CGIL e RAI News24. Con la testimoninanza di Dyala Al Husseini, Jacqueline Sfeir, Amal Hassan, Khadra al-Akwas, Neri Livneh, Manuela Dviri, Sheeva Friedman, Rania Arafat, fara’ parte di un libro di prossima pubblicazione “Muro contro muro. Le donne israeliane e palestinesi di fronte al conflitto mediorientale”.
Israele, alta Galilea, kibbutz Y’ron
Alla foresteria del kibbutz Y’ron si arriva dalla strada statale che da Haifa sale verso il confine con il Libano, deviando verso un viottolo asfaltato che costeggia serre, officine, capannoni agricoli. Siamo in alta Galilea. Oltre il limite delle vigne di Y’ron, a ridosso dell’ultimo filare, inizia la zona controllata dagli hezbollah, le milizie sciite-libanesi. Radar militari sorvegliano il confine.
C’è una grande carta d’Israele, sulla parete della foresteria, e una rassegna dei vini produzione locale nella bacheca sotto la foto dei pionieri: gli uomini e le donne che fondarono il kibbutz mentre combattevano per la nascita dello stato di Israele. Dal gruppo in bianco e nero mi sorridono volti giovani, età media venti anni: i pantaloni larghi e le camicette bianche, le zappe e i fucili in mano.
Ada appartiene a questa generazione. A Y’ron ha piantato vigne e grano, dissodando la terra dura e pietrosa metro per metro; ha costruito case e officine; si è sposata, ha avuto due figli, è diventata nonna; è stata insegnante alla Casa dei Bambini, sarta, cuoca, parlamentare, operaia alla fabbrica di cerniere dove ancora lavora, dalle sei alle undici del mattino.
Nel 1947, quando aveva diciassette anni, si è arruolata nel Palmah, le milizie ebraiche nate per difendere la nascita di Israele dopo la dichiarazione delle Nazioni Unite, due stati per due popoli. Ha combattuto le guerre del ’48 e del ’67. Negli anni Cinquanta, ha avuto il primo passaporto israeliano, lei ebrea figlia di ebrei della diaspora italiana, la comunità più antica d’Europa, i discendenti delle famiglie deportate a Roma dall’imperatore Tito dopo la conquista di Gerusalemme, la distruzione del Tempio e l’annientamento del Regno di Giudea.
Famiglia della borghesia romana, quella di Ada Sereni: gente di studio, ardente in politica: sionismo, antifascismo, comunismo: non è a caso che il mio viaggio nella vita delle donne israeliane e palestinesi inizi in una terra di confine in un kibbutz che ha gli stessi anni di Israele con lei, bella e solida signora ormai bianca di capelli, nata italiana, poi solo israeliana. In fondo, è partito tutto da qui.
Ma questo, l’avrei capito più tardi. Adesso, mentre ancora sto viaggiando alla volta di Y’ron, la domanda che mi faccio è una sola: chi erano, cosa volevano, le donne e gli uomini che scelsero il kibbutz per essere cittadini israeliani? Cosa gli resta oggi, dopo cinquantaquattro anni di odio palestinese, di guerra continua, di lutti atroci?
Il paesaggio si è fatto di colline ondulate, disposte a criniera lungo campi coltivati: filari ordinati di eucalipti, vigneti maturi sfilano oltre il ciglio d’asfalto. Ogni tanto, un viottolo che sprofonda nel bosco, o nel solco di un campo arato, indica l’esistenza di un villaggio più lontano. Ci sono nomi ebraici, e nomi drusi, e nomi arabi sui cartelli stradali. Incrociamo poche auto. L’orizzonte mi sembra venato d’oro e d’ambra, l’estate di Galilea moltiplica l’eco del Mediterraneo nascosto dietro i pianori: il tramonto è uno stordimento di colori che il paesaggio solitario accentua.
Pensare che siamo in un punto storico chiave nella questione arabo-israeliana, e degli interi equilibri mediorientali, mi pare financo troppo poco mentre l’orizzonte si incupisce, e la notte sale dietro prospettive di boschi.
Ada, la incontro che non è ancora notte piena, mi viene incontro alla foresteria a bordo di un triciclo a motore che sguscia perfettamente tra i vialetti tra le case. La mia stanza sara’ la numero 14, nel blocco riservato ai visitatori esterni; e’ spartana e pulita, con il bagno, l’angolo cottura, la televisione. Confortata, mi sistemo in quella che da oggi sarà la mia casa, nei ritmi consueti del kibbutz.
Il secondo giorno, nel giardino di Y’ron, davanti a una scultura di basalto in mezzo ai cespugli di rose nane, Ada comincia a narrare.
“Sono nata a Roma nel 1930: quando ero piccola ero molto contenta perché dicevo che era facile contare i miei anni: nel 2000 ne avrò settanta, calcolavo, e mi sembrava così lontano…invece, eccomi qua! Di mio padre, Enrico, mi ricordo poco: morì che ero ancora bambina; mia madre, Agar, ebrea palestinese, lo aveva conosciuto negli anni Venti: gli anni delle scelte, quando in casa Sereni con i fratelli Enzo e Mimmo già si discuteva di sionismo e di antifascismo, di nazione ebraica e di stato. Avevo diciassette anni, quando decisi di lasciare Roma per la Galilea. Arrivammo in autunno, un gruppetto di ragazzi e ragazze che veniva a prepararsi per la vita del kibbutz. Invece, erano passati solo pochi giorni, arrivò la notizia che le Nazioni Unite a Ginevra avevano deciso: due Stati per due popoli. Per essere onesta, allora non abbiamo pensato agli altri: abbiamo pensato che finalmente avevamo uno stato per Israele. E’ vero che era molto piccolo, è vero che la terra non era granché, ma tutti eravamo contenti lo stesso…avevamo uno Stato. La tragedia per noi fu che gli arabi palestinesi avevano già rinunciato ad avere un loro stato indipendente: per questo il giorno stesso presero le armi, ancora non si era spenta l’eco di Ginevra che già si battagliava dappertutto…Poi, dopo il 15 maggio del ‘48, quando Ben Gurion proclamò la nascita di Israele, arrivarono anche gli stati confinanti, cinque Paesi arabi entrarono in Israele per annientarlo. Così noi, invece di prepararci per il kibbutz, andammo nel Palmah. Non so se sapete cos’era il Palmah: una specie di esercito, le milizie degli ebrei palestinesi prima dello stato di Israele.
Ho partecipato a tutta la guerra per l’indipendenza, dal 30 novembre del ’47 fino a quando ci hanno avvertito che era finita…Y’ron non c’era ancora, questo kibbutz lo abbiamo fondato un anno dopo la Dichiarazione d’Indipendenza e la nascita dello stato, nel ’49, in ricordo dei nostri amici caduti in guerra, sedici compagni. Questa scultura di basalto, che è la pietra della Galilea, si chiama “L’amicizia”: l’ha fatta uno di noi, di quel primo gruppo di pionieri, rappresenta due persone che ne abbracciano una terza, sopra c’è scritta la Storia: “…due giorni prima dello Stato, nell’ottobre 1947, un gruppo di giovani uomini e giovani donne sono venuti come Palmah al kibbutz. Una mano teneva le spighe di grano e l’altra il fucile. Durante la guerra d’indipendenza questo gruppo ha fatto parte delle battaglie della Galilea, della strada per Gerusalemme, e del Negev. Sedici di loro sono caduti, e a guerra finita, nel maggio del 1949, gli altri hanno creato il kibbutz Y’ron in ricordo dei loro amici.”.
Ada, com’eravate, a vent’anni? Parlo della tua generazione: alle spalle vi lasciavate l’Europa e l’Olocausto, ma davanti? Avevate solo certezze, nessun dubbio?
Eravamo molto idealisti, e l’idea era che bisogna fare le cose non per se stessi ma per la comunità. Adesso, quando ci scherziamo sopra, diciamo che avremmo potuto fare altro: eravamo tutti di buona famiglia, potevamo studiare: sapete che ogni madre ebrea pensa sempre che i suoi figli debbano essere dottori o avvocati…Noi decidemmo diversamente, Dottori ce ne saranno sempre abbastanza e avvocati anche…, dicevamo. Ma al confine c’è bisogno di contadini: non so se conosci Boro’v, un famoso socialista ebreo vissuto cento anni fa. Boro’v diceva che nel mondo c’è una piramide di disuguaglianze, con una larga base dove stanno i contadini e una piccola vetta, dove stanno commercianti e professionisti. Diceva anche che gli ebrei devono rovesciare la piramide: lui intrecciava i valori socialisti con la nostra tradizione, parlo dell’identità: se guardi la stella di David, vedi che è fatta di due piramidi rovesciate. Il nostro ideale fu dunque questo: rovesciare la piramide nello stato di Israele, con l’ideale socialista di farlo in comune.
Per questo abbiamo scelto la vita del kibbutz: altri l’avevano già fatto, anche prima di noi, non so se andrai a Degania, il più antico di tutti i kibbutz israeliani: ha quasi cento anni. E’ una pagina di Storia, questa che adesso ti racconterò: non mi puoi capire fino in fondo, capire Israele e perché siamo venuti, se non parlo del sionismo, di che cosa è stato per milioni di ebrei in tutto il mondo, e di che cosa ha rappresentato per la nascita dello Stato.
Zion ha-lo tischali…O Sion, non chiedere della felicità dei tuoi prigionieri, Giuda Levita, XII secolo
Galilea, 1909. Un gruppo di ebrei russi sfuggiti ai pogrom, le persecuzioni che stanno insanguinando i villaggi ebrei nella Russia degli Zar, arriva sulla costa meridionale del lago di Tiberiade – che la Bibbia chiama mare di Kineret, Giosué 12, 3, 13, 27, e il Nuovo Testamento mar di Galilea, Matteo 4,18,15,29, Marco 1,16,7,31 – e quì fonda il kibbutz Degania, chiamato anche Em Hakevutsot ovvero “ madre i tutti i villaggi in cooperativa”. Sono in dieci, otto uomini e due donne, sbarcati cinque anni prima sulle coste settentrionali di Galilela dove da secoli ebrei, arabi e drusi mescolano storie private, politica e spiritualità. Qui sono nati i testi rabbinici, il Talmud e la Cabalà, qui Gesù svolse gran parte della sua predicazione e camminò sulle acque, da qui gli astronomi musulmani guardarono gli astri ragionando sulla volta celeste.
Primo kibbutz socialista di Palestina, Degania non è comunque il primo insediamento interamente ebraico della regione: tra il 1878 e il 1892, immigrati in fuga dai pogrom di Russia, Romania e Yemen hanno già fondato villaggi agricoli, Petah Tikva, Rishon LeZion, Zichron Ya’acov e Rosh Pina, sulla terra dura e pietrosa che una legge imperiale del 1868 permette agli stranieri di comprare. A vendere, sono i funzionari del demanio turco e i rais locali. Vassalli della grandi famiglie arabe, feudatarie di Costantinopoli, che in Palestina posseggono terre e anime.
In questo inizio Novecento, tutta la regione fa ancora parte dell’impero Ottomano, colosso in disfacimento, ormai da decenni vulnerabile palcoscenico delle trame delle grandi potenze europee, interessate a vaste porzioni dei suoi territori e, per questo, giocolieri spregiudicati dei destini dei popoli che vi abitano. Per esempio, col pretesto di proteggere i pellegrini cristiani che si recano nei luoghi santi di Gerusalemme, l’Inghilterra ha aperto già nel 1841 il primo Commissariato europeo di tutta la regione, importando the e crinoline, usi e costumi all’inglese.
Due anni prima, nel tentativo di consolidare il potere ottomano sulle terre dell’Impero, il sultano e suo figlio Abdumacil I hanno varato il Tanzimat, un complesso di riforme amministrative che divide il territorio in moderne province:i vilayet, governati da vali, a sua volta divisi in sanjak, sangiaccati, amministrati da mutasarrif, quindi in kaza, distretti, e infine in nahiye, unione di villaggi adiacenti.
La Palestina fa parte del vilayet di Sham, la grande provincia di Siria, ed è divisa nei tre sangiaccati di Gerusalemme, Acri e Nablus: nel 1887, per via dei Luoghi santi, il sangiaccato di Gerusalemme diviene un mutasarriflik indipendente, e il suo mutasarrif ne risponde direttamente al governo centrale di Costantinopoli. Un anno dopo, quando nel 1888 viene creato il vilayet di Beirut, Acri e Nablus passano a far parte della nuova provincia.
Jund Filastin, distretto di Palestina: il nome che indicava la vecchia provincia dei Pascià dell’Egitto, continua comunque ad essere usato a tutti: risale al tempo dei Romani che Syria Palaestina avevano ribattezzato la provincia di Giudea, dopo lo schiacciamento della rivolta ebraica del 132 d.C. quando Bar Kokhba per tre aveva cercato inutilmente di riconquistare il regno di Giudea. L’ultima rivolta armata. Disperse ai quattro angoli d’Europa e del Nord Africa, della stessa Palestina e dell’intero Medioriente, giù sino agli altipiani dello Yemen, e oltre il Mar Rosso e il Golfo Persico, dall’Etiopia all’ India, le comunità ebraiche vedono sfilare secoli e governi, pregiudizi e persecuzioni. Umili e discrete anche quando stanno al vertice di importanti incarichi pubblici, e sempre tenacemente attaccati alla patria perduta.
C’è tutto questo nella Corrispondenza Khazara: uno scambio di lettere avvenuto dopo il 954 e prima del 961, tra il primo ministro del califfo di Cordova, Hasdai Ibn Shaprut, probabilmente la più rappresentativa figura dell’ “Eta’ d’Oro” degli ebrei spagnoli, e il re dei khazari, Giuseppe, ebreo anch’egli. Scrive Ibn Shaprut “…sento il bisogno di conoscere la verità, se esiste realmente in questa terra un luogo in cui il tormentato Israele puo’ governare se stesso, in cui non è assoggettato a nessuno. Se venissi a sapere che le cose stanno davvero così, non esiterei a rinunciare a tutti gli onori, a dimettermi dal mio elevato incarico, ad abbandonare la mia famiglia, e a viaggiare per monti e pianure, per terra e per mare, finché non giungessi nel luogo dove regna il mio signore, il re [ebreo]. […] Disonorati e umiliati nella nostra dispersione, abbiamo ascoltato in silenzio coloro che dicono: Ogni nazione ha la propria terra; solo voi [ebrei] non possedete nemmeno un’ombra di un paese su questa terra”.
La “prima grande aliyah”, come viene chiamata l’ondata di immigrazione ebraica che nel 1892 inaugura il sionismo, segna una svolta totale non solo nel rapporto tra gli ebrei e gli arabi della Jund Filastin, ma anche, e soprattutto, nel rapporto privato e religioso che tutti gli ebrei mantengono con la Terra di Israele da quando ne vivono lontani.
Nella tradizione religiosa ebraica, aliyah ha una significato complesso: letteralmente significa “ascesa al cielo” e ritualmente considera il ritorno di ogni ebreo alla Terra di Israele come “salita” ad uno stato più alto di vicinanza a Dio. La prima grande aliyah e le altre che seguiranno recano con loro un dato nuovo e originale: l’aspetto politico del ritorno ad Israele. Una vicenda insieme umana, mistica e politica, che parte da molto lontano, incrocia antisemitismi secolari con tragico bagaglio di persecuzioni e massacri, traversa Seicento e secolo dei Lumi, e si colloca nel contesto del nazionalismo liberale che nell’Ottocento diede vita in Europa ai movimenti di liberazione nazionale e alle guerre d‘indipendenza.
E’ il 1839 quando a Londra, sir Moses Montefiore, filantropo ebreo, parla per primo di stato ebraico, il 1844 quando Moises Hess (che una lapide sulla tomba in Germania ricorda come “padre della socialemocrazia tedesca”), esprime il concetto politico del ritorno in Israele, “terra dei padri”, intrecciando la definizione dell’ebraismo come nazionalità e non come religione alle tradizioni e all’identità. “Due periodi diedero forma allo sviluppo della civiltà ebraica”, scrive Hess nel suo Roma e Gerusalemme, “il primo, la liberazione d’Egitto, il secondo, il ritorno da Babilonia. Il terzo verrà con la redenzione dal terzo esilio”. E’ il 1896 quando Teodoro Herzl, giornalista ebreo viennese, nato a Budapest, corrispondente della “ Neue Freie Presse” da Parigi dove segue il processo Dreyfus, pubblica un libro, Lo Stato ebraico, esponendovi una tesi, tanto breve quanto rivoluzionaria: l’unica soluzione per contrastare il crescente antisemitismo, e per garantire al popolo ebreo dignità e sicurezza, è la creazione di un movimento politico, ispirato all’ideale del “ritorno a Sion”, che prepari uno stato ebraico in Palestina. Sono i fondamenti del sionismo politico: Sion, sinonimo di Gerusalemme e Israele, è l’antica patria; aliyah nella tradizione ebraica il ritorno.
Il libro, dapprima ignorato con silenzi tombali da parte di molti stessi ebrei piuttosto favorevoli a discutere di assimilazione contro l’antisemitismo – parola che un collega di Hertlz , il giornalista tedesco Wilhelm Marr ha coniato in Germania nel 1879 – scatena via via un putiferio nelle cento e cento città della diaspora dove vivono le comunità, alimentando da secoli una fortissimo vincolo simbolico con la patria storica: Eretz Israel, Terra di Israele: luogo di riferimento, memoria e storia.
Il primo Congresso Sionistico Mondiale, che Hertlz organizza praticamente da solo a Basilea nel 1897 accoglie duecento delegati (venti sono donne); arrivano da tutte le contrade europee e persino dagli Stati Uniti, tra loro ci sono medici, avvocati, giornalisti. Dalla Russia arrivano in 63, con loro c’è anche lo scrittore Asher Ginzberg, più noto con lo pseudonimo di Ahad Ha’am, che propugna un’altra forma di sionismo: al posto di uno stato “degli ebrei” uno stato “ebraico”, centro culturale in grado di irradiare la rinascita della cultura ebraica nella diaspora.
Poco importa che il Consiglio generale dei rabbini di Germania dichiari la propria contrarietà a tutte le forme del movimento: a Basilea, il sionismo politico di Hertlz esplode, nascono l’Organizzazione Sionistica Mondiale e il Fondo Nazionale Ebraico per l’acquisto di terre in Palestina: uno stato agli ebrei perché non vengano più perseguitati è il denominatore comune di tutte le correnti interne.
Nel 1904 la “seconda grande aliyah” porta in Palestina uomini e donne in fuga dal pogrom di Kishinev in Russia e dai massacri di Ucraina e Bielorussia. Arrivano su navi donate da ricchi filantropi o su carrette che a malapena si reggono sul pelo delle acque; tra artigiani e borghesi, ci sono giovani idealisti, anarchici, socialisti rivoluzionari: fanno riferimento a tutte le correnti del sionismo politico. Sulle rive del lago di Tiberiade nasce Degania.
Socialista e libertario, il sionismo dei kibbutz fonde nella prassi dell’uguaglianza, identità e stato.
Ada, com’era la vita nel kibbutz nei primi anni dello stato di Israele? Che significa Y’ron?
Quando arrivammo qui non c’era niente, era solo maggio: la stagione più bella; il nome, Y’ron, lo prendemmo dalla Bibbia: non vuol dire nulla. Adesso abbiamo tutti il riscaldamento, le case, le strade, ma a quel tempo non c’era niente. Cominciammo zappando la terra, poi costruimmo il deposito per il grano, il serbatoio dell’acqua; le case all’inizio erano baracche con il tetto di legno. Viverci era duro, i primi inverni me li ricordo al limite della resistenza, con la neve alta e poco fuoco in casa. Molti lasciarono, tornarono indietro, del piccolo gruppo di pionieri che decise di rimanere facevo parte anch’io.
Oggi ho settantatre anni, e da Y’ron non mi sono mai mossa. Per questo kibbutz e per lo stato d’Israele ho fatto tutto quello che c’era da fare: ho lavorato in cucina, nelle vigne, con i bambini, in fabbrica, a scuola. Dal ’79 all’83 sono anche stata parlamentare: delegata dei Kibbutzim alla Knesset, un’esperienza di cui non parlo volentieri: la pratica politica è terribile, dico sempre che una buona lezione in classe vale molto di più del tempo che perdi li!, e dunque sono stata molto contenta di finire il mandato e di tornarmene al kibbutz.
Ma dopo, mentre il mondo cambiava intorno a voi, tu sei cambiata? Ti chiedi mai, ne è valsa la pena?
Guarda, penso sempre che questa è la migliore delle vite che avrei potuto fare. Ma sono sicura che dipende da Y’ron, dal fatto che il suo spirito non è mai cambiato e la sua anima è rimasta quella originaria. E non parlo solo dal punto di vista materiale, e cioè che qui tutto è ancora collettivo,e la proprieta’ privata non esiste, parlo del senso di responsabilità. Credo che la vita del kibbutz, alla fine, faccia sentire le persone molto responsabili l’una dell’altra, ed è questo che fa la differenza: magari oggi non l’avverti con la stessa immediatezza di quando abbiamo iniziato, ma lo senti subito quando c’è un guaio o una felicità. Non è che nel kibbutz tutti vogliano bene a tutti: l’idea che si possa amare il mondo intero è un’esagerazione della new age: io qui non amo tutti: ci sono quelli che amo, quelli che non amo, e anche quelli che detesto, ma mi sento responsabile per tutti.
Non c’era niente di tutto questo in Unione Sovietica, mi ha detto qualche giorno fa Marina, una giovane da poco arrivata dalla Russia; per me vivere qui è come un sogno, mi ha confessato, il kibbutz è come una grande famiglia, dove ognuno si occupa dell’altro e tutte le cose sono vissute insieme, anche i momenti tristi. Marina ha un figlio soldato, quando lavoriamo insieme mi parla spesso di lui, del futuro, si tormenta: spero che arrivi presto la pace, mi dice, non ce la faccio a sopportare questa catena di violenze, due popoli che si ammazzano, i giovani che muoiono, senza fine.
Vedi quella pergola, laggiù dopo le nostre vigne? è dedicata a una nostra ragazza: Yael era nata a Y’ron. Aveva ventisette anni, studiava a Tel Aviv, è saltata in aria in via Dizengoff: si era sposata tre mesi prima, il marito ha riconosciuto solo l’anello. Quel piccolo giardino l’ hanno creato i suoi genitori perché Yael amava le piante. Oltre la sua pergola c’e’ il confine, noi ci viviamo accanto da cinquantaquattro anni, il confine è parte dalla nostra vita di tutti i giorni, ma la tragedia di questi ultimi anni è più forte di tutto quello che abbiamo passato sino ad oggi.
Da una parte, sai che questa è una guerra, l’hai sempre saputo, e la guerra non ha molte facce, ne ha una sola…ma quando vedi tutti questi innocenti che si ammazzano, altri innocenti che sono uccisi, madri che soffrono in un modo incredibile, e le palestinesi anche più di noi… Quello che mi tormenta e’ non vedere la fine del tunnel, sembra inutile questa guerra, non si vede la luce…e questo mi fa veramente impressione.
Che significa oggi per te essere sionista? Di fronte a tanti lutti e a tanto dolore, rifaresti quello che hai fatto per dare uno Stato agli ebrei?
Per noi lo stato di Israele era un sogno…Ma il sogno non è venuto fuori come pensavamo. E non parlo solo del fatto che dopo tanti anni, e anni e anni siamo ancora in guerra…Quando ho finito l’esercito speravo che mio figlio non dovesse andare, quando lui ha finito l’ho sperato per i miei nipoti e invece ho paura che ora anche loro dovranno andare..
Non parlo solo di questo: la questione è che nessuno di noi pensava che avremmo vissuto una guerra cosi lunga, piu’ di cinquant’anni! Al contrario: eravamo sicuri che avremmo avuto la pace, due stati per due popoli, diritti e sviluppo per tutti. Ci credevamo. Mi ricordo benissimo del nostro stato d’animo dopo la guerra dei Sei Giorni, dico a proposito delle terre dei palestinesi che furono occupate con quella guerra lampo, dopo che Egitto, Giordania e Siria ci avevano attaccato. Eravamo certi che queste terre sarebbero state restituite, che si sarebbe stato un accordo di pace. Per questo andammo a visitare la Cisgiordania. Ricordo un uomo con l’aratro in una valle vicino a Hebron, “sembra proprio il nostro padre Abramo”, mi sono detta, “quando comprò la terra dai Cananei”, e mi sentii parte della Storia… E’ vero che noi, tutti gli ebrei, siamo tornati in Israele perché c’è la Bibbia e le sue storie, poco importa se sia vera o no, sono le cose con cui cresci, sono la tua identita’…Eppure, ero pronta a restituirla questa terra allora e lo sono ancora oggi, ma voglio dire che non e’ vero che non sia un dolore. E’ un dolore, perché è parte della mia identità spirituale.
E dei kibbutz, quale sara’ il loro futuro? In un reportage pubblicato dal quotidiano Haaret’ si racconta che la stragrande maggioranza ha privatizzato e venduto le terre, i giovani lasciano per andare a vivere in citta’: secondo una statistica oggi nei kibbutz vive solo il 3 per cento degli israeliani.
Certo, in questi anni sono successe cose nei kibbutzim che non avrei mai creduto, andrai in altri kibbutz…vedrai… Quelli rimasti con lo spirito degli inizi come Y’ron, sono poveri, spesso addirittura sotto la soglia della povertà; gli altri stanno privatizzando le terre e le case. Al posto della proprietà collettiva ci sono alberghi e grattacieli. La scorsa settimana la tv ha trasmesso un documentario, “Kibbutz, la fine”. Eravamo tutti molto tristi, molto giù di corda, quella sera. Il fatto è che non so che cosa succederà, i giovani non vengono, altri lasciano, se ne vanno…Certo, hanno il diritto di farlo: quando mio figlio ha lasciato Y’ron per me è stato terribile, ma per mia madre ancora peggio: quasi si ammalava, per lei il kibbutz era parte della sua stessa vita. Ho dovuto farle ricordare un episodio di tanti anni fa: “mamma bella”, le ho detto, “io ti lasciai allora, ero figlia unica eppure ti lasciai, e tu dicevi ai parenti: Ada ha fatto quello che voleva, ha fatto la kibbutznik, la pioniera. Vedi mamma, è così anche per me: i figli hanno la loro vita, fanno le loro scelte, e neanche loro sanno quale sarà il futuro.”.
Ada, hai ancora lo spirito della pioniera?
Ah…che bella domanda! Da una parte, sento che non ho più voglia di cose nuove, ma poi…una pioniera rimane così per sempre: più in testa che nei fatti. Oggi sono contenta di quello che faccio: un giorno a settimana vado a insegnare al Centro per i veterani dei Kibbutzin, che sta poco lontano da qui. Ci ritroviamo in tanti, quelli che possono ancora camminare e quelli che arrivano in carrozzella, che non sono più autosufficienti. Stare tutti insieme è la mia caramella, la mia ultima cioccolata.
All’alba, il cielo di Galilea sembra fatto di quarzo e di acquamarina. La statale che da Y’ron va verso Gerusalemme costeggiando il fiume Giordano, scavalca d’un balzo il lago di Tiberiade e lambisce i Territori Palestinesi occupati. Le luci delle case, come grappoli di fiammelle, bucano l’aria rarefatta del primo mattino. Pochi chilometri, e Y’ron coi suoi quattrocento abitanti bambini compresi, è già scomparso, lontano, inghiottito dal confine.
Accucciata nell’auto con targa israeliana guardo Adel, il mio amico e guida palestinese, armeggiare con la radio alla ricerca di una stazione araba. Adel ha ventotto anni, una madre e cinque fratelli a Gerusalemme est. Dopo Y’ron, andremo da una parte all’altra di Israele e di Palestina, nelle case e nei villaggi, nei campi profughi e sotto le tende beduine, oltre carri armati e fili spinati, dolore e rabbia, diffidenza e odio, lutti e pianto. E mentre lo guardo, le mani attaccate al volante, gli occhi come spilli puntati alla strada e al confine, mi sorprendo a riflettere sui suoi giorni con noi, a Y’ron. C’eri mai stato, Adel, in un kibbutz? No. Parliamone, vuoi? L’alba e’ gia’ alta e chiara quando risponde di sì.
31/03/2006
http://www.articolo21.info/notizia.php?id=3378