Liliana Picciotto
Alle 18,30 dell’8 settembre 1943, il generale Eisenhower, superando i tentennamenti italiani che temevano violente reazioni tedesche, annunciò da Radio Algeri la strabiliante notizia che l’Italia aveva cambiato di campo e aveva firmato con gli ex nemici, già da 5 giorni, un armistizio. Il re Vittorio Emanuele II, preso alla sprovvista, dovette recarsi negli studi dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, antesignano della RAI) e alle ore 19,42 ripetere, in forma ambigua e incomprensibile ai più, che l’Italia cambiava posizione nel teatro bellico. Nei giorni successivi, si verificò il tragico disfacimento dell’esercito italiano, privo di disposizioni sul comportamento da tenere verso le truppe tedesche che, fino a qualche giorno prima, erano stati alleate e che ora erano diventate nemiche.
A Roma a Porta San Paolo si sviluppò una disperata difesa della città da parte di reparti militari italiani, coadiuvati da civili malamente armati. Le Divisioni italiane (8 con 124 carri armati a altri armamenti pesanti) schierate intorno alla città erano per uomini e per mezzi sufficienti a difendere la Capitale, se soltanto ci fosse stato un piano organico e una conduzione coordinata per procedere contro i tedeschi, inferiori in numero e in mezzi. Invece, il generale Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’esercito, sul punto di unirsi al convoglio reale dei fuggitivi verso Sud, non dette nessun ordine di dare battaglia, inducendo, inspiegabilmente, l’esercito a non difendere Roma. In queste condizioni, l’unica cosa che rimaneva da fare ai militari, ufficiali e truppa, era di prendere iniziative private per contendere l’avanzata tedesca verso la Capitale, oppure dismettere la divisa, diventata una pericolosa prova di appartenenza ad un esercito ormai nemico, e darsi alla macchia.
Soldati italiani, frastornati e mortificati, venivano raccolti senza fatica da quelli tedeschi e fatti prigionieri. Cominciava per loro un triste destino di prigionieri di guerra, deportati in appositi campi in Germania, dove i maltrattamenti e la fame erano all’ordine del giorno.
L’eroica e spontanea resistenza si sviluppò soprattutto in due punti della città: alla Cecchignola (tra la stazione ferroviaria della Magliana e la Cecchignola, a cavallo della via Ostiense) e, appunto, a Porta San Paolo. La impari lotta durò fino alle ore 16 del 10 settembre, quando fu firmata la resa della città all’occupante tedesco il quale passò rapidamente al suo controllo totale.
A Porta San Paolo, a difendere la città c’erano sugli spalti anche alcuni cittadini ebrei che vogliamo qui ricordare: Giorgio Formiggini giunto da Napoli, uno dei primi arruolatisi nei GAP (Gruppi di Azione Patriottica), dediti alla guerriglia urbana dentro la città; Mario Graziano Terracina, poi sceso a Napoli e uno dei protagonisti delle “4 giornate di Napoli”, la sollevazione popolare antitedesca accesasi tra il 27 settembre e il 1 ottobre, alla vigilia della ritirata germanica verso Nord. A difendere Porta San Paolo c’era anche Mario Attilio Levi di Milano, ex fascista, ordinario di diritto romano, licenziato a causa delle leggi antiebraiche, che entrerà poi da partigiano nel Gruppo di Combattimento Friuli, guadagnando la medaglia d’argento al valor militare. C’erano anche (come raccontano Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi nel loro libro “Duello nel ghetto”, Rizzoli, 2017) Pacifico Di Consiglio detto Moretto, che iniziò, con una pistola in mano, proprio da Porta San Paolo la sua carriera di resistente, ed Elena Di Porto che il 9 settembre era stata colta a forzare la saracinesca di un’armeria in piazza Cairoli dopo aver svaligiato, assieme ad altri, un negozio di riparazioni di armi in via Monterone. Cinque persone rappresentano, proporzionalmente, una cospicua presenza ebraica in uno degli snodi cruciali della Resistenza italiana, presenza che si farà sentire, massiccia, in tutte le regioni e lungo tutto l’arco del biennio 1943-1945.
Storica della Fondazione CDEC
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