Emanuela Dolcini
Università degli Studi di Pavia – Facoltà di Lettere e Filosofia – Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere – Relatore: Elisa Signori – Anno Accademico 1999
Hath not a Jew eyes? Hath not a Jew hands, organs, dimensions, senses, affections, passions? Fed with the same food, hurt with the same weapons, subject to the same deseases, healed by the same means, warmed and cooled by the same winter and summer as a Christian is? If you prick us, do we not bleed?
WILLIAM SHAKESPEARE The Merchant of Venice, III, I.
- Introduzione
- Cap. 1: 1938. Fascismo e antisemitismo italiano visti dalla stampa britannica
- Cap. 2: Il punto di vista degli ebrei britannici
- Cap. 3: Il fascismo in Gran Bretagna: il movimento di Mosley
- Appendice Documentaria – Bibliografia
Introduzione
1. Le leggi razziali: storiografie a confronto.
Buona parte degli studi che, dal dopoguerra agli anni Ottanta, in Italia e all’estero, hanno trattato il tema della discriminazione e persecuzione degli ebrei in Italia, tendono a giudicare quegli eventi sulla base del confronto con la persecuzione antiebraica in Germania, con il rischio, nella maggior parte dei casi, di ridurre le leggi razziali italiane ad una “pallida imitazione” di quelle tedesche.1) Al proposito Guido Fubini ha affermato che “Si ha la tendenza a confondere la legislazione razziale con una legislazione /…/ resa necessaria dallo stato di guerra /…/ e con la persecuzione nazista”.2) Dalla constatazione che i provvedimenti antiebraici italiani, pur limitando pesantemente i diritti della popolazione ebraica, non sconfinarono nell’eliminazione fisica, se non al momento dell’occupazione tedesca tra il 1943 e il 1945, si era portati a concludere che la politica persecutoria in Italia fu tutto sommato “blanda ed imbelle”.3) Gli esiti di una valutazione fatta col senno di poi sono quelli di attribuire un carattere di “eccezionalità” alla legislazione razziale del 1938, di considerare quei provvedimenti come deroghe alle regole preesistenti, di ribadire l’inesistenza di un vero problema ebraico in Italia e, non ultimo, di alimentare il mito degli “italiani brava gente”.4)
Dalla metà degli anni Ottanta, ed in particolare dal 1988, anno della ricorrenza del cinquantenario dell’introduzione delle leggi razziali in Italia, la letteratura storica sul fascismo ha iniziato a riconsiderare le varie fasi della politica antiebraica, nell’intento, da un lato, di mostrare le componenti peculiari e autoctone della scelta antisemita fascista e le particolarità della legislazione razziale in Italia, le sue applicazioni, le sue conseguenze e le reazioni della popolazione, dall’altro, di evidenziare il ruolo cruciale svolto dal periodo 1938-’43 – periodo di discriminazione ed emarginazione degli ebrei – nel preparare gli eventi successivi all’8 settembre.
È preoccupazione di questi studi più recenti chiarire che “Quello delle ‘leggi razziali’ non è un antisemitismo ‘all’italiana’, ma è la versione “politicamente coerente” di una vicenda politico-culturale specifica”.5) La legislazione razziale era nata, infatti, in tempo di pace e si era caratterizzata come una autonoma legislazione italiana: la sua adozione nel 1938, per quanto allora sia potuta apparire improvvisa, in realtà era stata preparata negli anni precedenti e, ad un osservatore attento, non ne sarebbero sfuggite le premesse.
Laddove in passato si tendeva a porre l’accento più sulle cause esterne dello sviluppo della politica razziale e in particolare sulla volontà di Mussolini di imitare e compiacere il Fuhrer, col quale stava ormai per siglare la fatale alleanza, oggi si guarda a quello che viene definito “razzismo italiano”, e all’antisemitismo in particolare, come ad elementi radicati nella cultura e nella società italiane, con origini e basi ideologiche diverse dal razzismo e dall’antisemitismo tedeschi.
Bidussa mette bene a fuoco la distinzione tra la tendenza, da un lato, a vedere le leggi razziali come “una tantum, un tranello della storia”, una scelta sbagliata di Mussolini, che credeva forse di riconquistare così, sull’esempio di Hitler, quel consenso che stava progressivamente venendogli meno, e, dall’altro, invece, la possibilità e la necessità di riconoscere la politica razziale come esito di scelte non casuali, né indotte, bensì coerenti con la cultura e la società italiane di quel periodo.6)
Il contesto internazionale nel quale le leggi razziali si inscrivono va di certo tenuto presente proprio per evitare di considerarle come un “episodio isolato o comunque un fenomeno di diretta derivazione tedesca”7): la guerra di Spagna, l’Anschluss, il viaggio di Hitler a Roma, la conferenza di Monaco, il rilancio della politica coloniale e imperialista dell’Italia tra il 1936 e il 1939, sono tutti eventi che contribuirono a modificare la posizione dell’Italia in Europa e ad accentuare le componenti nazionalista ed antiebraica, che, come vedremo, erano insite nell’ideologia fascista. Una spinta verso la decisione di intraprendere una politica razziale venne, poi, indubbiamente anche dalla constatazione che nel corso degli anni Trenta altri stati europei, oltre alla Germania e all’Austria, avevano adottato provvedimenti antiebraici: è questo il caso della Romania, dell’Ungheria e della Polonia. Ma non bisogna dimenticare che le radici dell’antisemitismo erano già presenti in Italia prima del delinearsi di questo quadro internazionale, anche se non si trattava di radici così profonde come erano invece in Germania, Polonia, Russia, ecc., e questo grazie soprattutto al notevole livello di integrazione raggiunto in Italia dagli ebrei a partire dal Risorgimento.
L’antisemitismo è un ingrediente secolare della storia europea, con momenti di crisi acuta – come, ad esempio, l’affaire Dreyfus in Francia – e lunghe latenze e anche nella società e nella cultura italiane non erano mancati, come si è detto, segni premonitori e presupposti della successiva “svolta antisemita”. Segni e presupposti che vanno ricercati in particolare nell’antigiudaismo cattolico, nella tradizione nazionalista e nella reazione dell’ideologia fascista ai valori della civiltà liberal-democratica, che dall’Illuminismo in poi aveva sostenuto l’emancipazione degli ebrei e delle altre minoranze religiose.8)
1.1 Le radici dell’odio.
L’antigiudaismo cattolico ha origini antichissime, si fonda sull’imputazione di deicidio rivolta dai cristiani agli ebrei9) e per secoli fu alla base della persecuzione e della “ghettizzazione” degli ebrei in Europa. L’ostilità verso gli ebrei non era condivisa da tutti i cristiani indistintamente e nemmeno da tutta la gerarchia ecclesiastica, ciò non toglie, tuttavia, che una parte non trascurabile del mondo cattolico nutrisse antichi rancori nei confronti dei giudei e – come sostiene Miccoli – “è impensabile l’esistenza nel clero e nel movimento cattolico di orientamenti e posizioni pubbliche che non godessero di un qualche consenso o almeno /…/ di un riconoscimento di legittimità, esplicita o implicita, da parte della Santa Sede”.10)
I cristiani non vedevano altra soluzione al problema ebraico se non la conversione dei giudei alla “vera fede” e quindi la rinuncia alle prescrizioni talmudiche che, a detta loro, facevano degli ebrei i “nemici giurati del benessere delle nazioni in cui dimorano”.11) Quello cattolico fu sostanzialmente l’unico antiebraismo che l’Italia conobbe nella seconda metà dell’Ottocento quando ormai gli ebrei avevano ottenuto l’emancipazione e l’equiparazione dei diritti,12) cui la Chiesa si era per altro fermamente opposta. Proprio di questo periodo furono anche le prese di posizione antisionistiche della Chiesa cattolica, che riteneva si dovessero proteggere i Luoghi Santi da presenze non cattoliche. L’ostilità verso l’elemento ebraico era, quindi, uno dei fattori che a lungo avevano caratterizzato la cultura e la società italiana, da sempre fortemente influenzate dal cattolicesimo.
Nelle prime campagne di stampa fasciste contro gli ebrei – e anche nell’antisemitismo nazista – si sarebbero trovati richiami all’antigiudaismo cattolico e molte delle leggi razziali fasciste avrebbero ripreso alcuni dei provvedimenti emanati contro gli ebrei a partire dall’avvento dell’impero cristiano fino al Risorgimento.13)
La Chiesa, dal canto suo, negò qualsiasi rapporto tra il proprio atteggiamento ostile verso gli ebrei e l’antisemitismo di stampo biologico che si diffuse negli anni Venti e Trenta del Novecento, tuttavia, come vedremo, la Santa Sede non condannò mai esplicitamente l’antisemitismo in quanto tale, ma si limitò ad una “protesta riservata”14) contro il razzismo e il nazionalismo.
Nel corso del Novecento, l’antigiudaismo clericale venne via via affiancato anche in Italia, come già era accaduto in altri stati europei, dall’antisemitismo nazionalista.15) Il nazionalismo nacque in Italia dall’accentuazione in senso antagonistico delle idee risorgimentali di patria e nazionalità e in contrapposizione con l’internazionalismo e il cosmopolitismo: di qui l’avversione per tutto ciò che viene dall’esterno e la tendenza a ritenere insidiosa ogni realtà diversa da quella nazionale. È naturale, dunque, che l’ebraismo, cosmopolita ed internazionale, fosse avvertito dai nazionalisti come una minaccia. Se a questo poi si aggiungono gli stereotipi dell’ebreo “tirchio, sporco, affarista”, socialmente distaccato dalla vita collettiva, perché massone o bolscevico, ecc.,16) tipologie che erano ormai entrate nell’immaginario collettivo, non è difficile dedurne che l’antisemitismo trovasse negli ambienti nazionalisti un terreno particolarmente fertile. L’antisemitismo dei nazionalisti italiani, però, contrariamente a quello dei tedeschi, fu per anni un elemento secondario ed accessorio e, fino alla prima guerra mondiale, “rimase /…/ un fenomeno sostanzialmente limitato, d’élite /…/, legato a formulazioni di tipo tradizionale o vagamente spiritualiste”.17) Solo negli anni Venti l’antisemitismo divenne un tratto caratterizzante del nazionalismo italiano: la necessità di trovare una giustificazione al mancato avvento del periodo di benessere, che la fine della guerra aveva lasciato sperare, portò ad individuare nella congiura ebraica la causa del malcontento degli italiani. La politica internazionale – si insinuava – era nelle mani degli ebrei e la vittoria mutilata dell’Italia era stata l’esito della loro opposizione alle sacrosante richieste italiane.18)
Per quanto riguarda la radice antisemita presente nel fascismo stesso, essa si spiega in parte con la considerazione che l’ideologia fascista rappresentava una reazione contro la civiltà liberal-democratica che dal XVIII secolo si era fatta promotrice, tra l’altro, dell’emancipazione ebraica. Non va inoltre dimenticato che, sebbene inizialmente non fosse intenzione del regime creare un problema ebraico e non esistesse una netta presa di posizione antisemita del fascismo e tanto meno di Mussolini, non mancavano tuttavia motivi di frizione tra fascisti ed ebrei, dovuti sia alla diffidenza personale del duce verso l’”internazionalismo ebraico” e il sionismo, sia ad un certo numero di discriminazioni non ufficiali che, fin dai primi anni del regime, tendevano ad escludere gli ebrei dalle cariche di prestigio.19)
1.2 Mussolini, antisemitismo e razzismo prima dei provvedimenti.
Apriamo qui una breve parentesi per considerare la posizione di Mussolini nei confronti degli ebrei che, se ebbe un peso decisivo nella svolta antisemita, non è però di per sé sufficiente a spiegare la decisione di lanciare una campagna antiebraica in Italia,20) come non lo è la volontà di non frapporre attriti ideologici tra sé e l’alleato tedesco.21)
Mussolini, infatti, pur non andando esente dai tradizionali pregiudizi e da una certa diffidenza verso gli ebrei, “non può essere considerato per molti e molti anni un antisemita”.22) Dalle dichiarazioni e dagli scritti di Mussolini emerge, nel complesso, la mancanza di idee precise e di prese di posizioni chiare sugli ebrei e sull’antisemitismo. Nei confronti degli ebrei italiani il duce non nascose la propria stima, riconoscendo la loro lealtà come combattenti e il loro impegno come fascisti, e non poche furono le sue amicizie e le collaborazioni con ebrei. Agli ebrei stranieri Mussolini offrì la propria protezione, consentendo a coloro che fuggivano dalle persecuzioni naziste di rifugiarsi in Italia,23) inoltre, in più occasioni deprecò le persecuzioni naziste e negò l’esistenza dell’antisemitismo in Italia. Allo stesso tempo, però, credeva che a livello internazionale gli ebrei manovrassero le leve del potere attraverso la cosiddetta “alta finanza ebraica”. Questa sua convinzione emerse soprattutto in seguito alla conquista dell’Etiopia, quando la Società delle Nazioni negò il riconoscimento della sovranità italiana su quelle zone: Mussolini avvertì quel rifiuto come un torto e lo ritenne l’esito dell’ostilità dell’”ebraismo internazionale” verso il fascismo. In quell’occasione, inoltre – come poi anche di fronte all’intervento italiano in Spagna – alcune organizzazioni ebraiche, tra cui, ad esempio, il Jewish Board of Deputies, presero posizione contro l’Italia e il fascismo: questo non fece che dare adito al sospetto di Mussolini e di molti fascisti secondo cui gli ebrei sostenevano l’antifascismo e lottavano per condurre al potere il bolscevismo.24)
Anche nei confronti del sionismo la posizione di Mussolini non fu sempre netta ed inequivocabile: ne Il Popolo d’Italia durante il 1920 si alternarono articoli nei quali egli negava l’esistenza dell’antisionismo in Italia ad altri in cui, invece, attaccava esplicitamente il sionismo. Picciotto Fargion riassume così l’atteggiamento di Mussolini verso il sionismo:
Mussolini, /…/, sembrava guardare alla questione con una duplice ottica: da una parte sembrava approvare la nascita di uno stato ebraico in Palestina, con l’obiettivo sia di contrastare l’Inghilterra che aveva il mandato sulla regione, sia di espandere la zona di influenza italiana nel Mediterraneo; dall’altra, considerava con circospezione i sionisti italiani, sospetti di infedeltà al fascismo e alla nazione.25)
Anche nel caso dei sionisti, dunque, Mussolini distingueva tra stranieri ed italiani e, se per i primi poteva accettare l’idea di un ritorno in Palestina, quella stessa idea nei secondi era fonte di sospetto26): il desiderio di vivere in un’altra patria implicava quantomeno una minore dedizione all’Italia, nonché alla causa fascista ed era questa anche l’opinione dei nazionalisti .
Per molti anni, però, Mussolini non mostrò di condividere le tesi dei più accesi antisemiti, come, ad esempio, Giovanni Preziosi, e in lui i tradizionali pregiudizi antiebraici non assunsero per molto tempo né una connotazione politica né un carattere “razzista”.
Per quanto riguarda il razzismo, sin dai primi anni dopo la “marcia su Roma” si ritrovano nei discorsi e negli scritti di Mussolini alcuni riferimenti al “mito della razza”, ma si tratta di un razzismo diverso da quello nazista: non un razzismo di stampo biologico, ma piuttosto un desiderio di migliorare, di potenziare fisicamente e moralmente gli italiani, di qui la politica demografica e sanitaria da un lato, e, dall’altro, il richiamo al mito di Roma e dell’impero.
Solo con la guerra d’Etiopia, però, il duce avvertì la necessità di dare agli italiani una “coscienza razziale” per evitare “il fenomeno del meticciato”27): la mancanza di “dignità razziale” degli italiani che non disdegnavano l’unione con gli indigeni era, secondo Mussolini, la causa delle ribellioni che si verificavano nelle varie zone dell’impero. Era, pertanto, indispensabile che gli indigeni prendessero coscienza della “superiorità degli italiani”.
Dal 1936 in poi, in seguito all’alleanza italo-tedesca, il duce non trascurò certo il ruolo che il razzismo avrebbe potuto svolgere nell’avvicinare, anche dal punto di vista ideologico, i due regimi, ma allo stesso tempo non rinunciò a distinguere il razzismo italiano da quello nazista, per evitare che lo si considerasse una pedissequa imitazione. Di qui la contrapposizione tra “razzismo spirituale” italiano e “razzismo biologico” nazista: le differenze tra le “razze” non dovevano essere individuate in caratteristiche di tipo biologico, bensì “spirituale” e culturale. Mussolini – come scrive De Felice – si convinse che la “razza giudeo-cristiana”, alla quale, secondo il duce, gli ebrei appartenevano – credesse esclusivamente a valori materiali che spingevano l’uomo ad una lotta individuale mirata all’accumulo di ricchezze; al contrario, la “razza greco-romana” – sempre secondo il duce – credeva in valori “spirituali”: “nell’eroismo, nella lotta, nella creatività del dolore, nell’essenzialità dello sviluppo demografico”.28) Questa concezione spiritualista della razza aveva trovato ampio spazio, fin dal 1934, negli scritti Julius Evola,29) la cui posizione, nel 1941,30) fu riconosciuta da Mussolini come la più vicina alla propria e quella che meglio soddisfaceva l’esigenza di differenziare il razzismo italiano da quello nazista. In realtà, come sostiene Maiocchi, se, da un lato, Evola contrastò le teorie razziali tedesche per il loro fondamento biologico, dall’altro, la sua visione culturale e spirituale della razza non risultò certo meno ostile nei confronti degli ebrei31): cambiava la formula, ma restava immutata l’implicazione di fondo che gli ebrei, cioè, fossero “diversi” e che per questa diversità – “spirituale” piuttosto che “biologica” – dovessero essere discriminati e perseguitati. Anche Israel e Nastasi mettono in luce l’ambiguità della posizione di Evola che, pur facendosi propugnatore di un “razzismo dell’anima” non fondato su premesse biologiche, si avvicinò, tuttavia, pericolosamente alle teorie del razzismo tedesco,32) tanto da contribuire in una certa misura alla loro diffusione.
La posizione del duce rispetto alla distinzione tra “razzismo spirituale” e “razzismo biologico” fu, comunque, piuttosto ambigua. Basti ricordare, che, nonostante le sue dichiarazioni in favore di un approccio di tipo “spirituale” alla questione della “razza”, fin dal momento in cui egli decise di impostare “una azione politica volta a produrre un ‘italiano nuovo’, razzialmente puro” Mussolini si interessò agli studi dei “razzisti biologici”, in buona parte da medici, scienziati, e intellettuali.33) Tra questi anche l’antropologo Guido Landra – un rappresentante dell’ala oltranzista e filogermanica del razzismo34) – al quale, dopo aver letto alcuni suoi appunti sulla questione della “razza”, Mussolini chiese, nel giugno del 1938, di collaborare alla redazione del documento poi divenuto noto come Manifesto degli scienziati razzisti.
I punti principali del Manifesto – alla cui stesura il duce prese parte in prima persona 35) – non lasciavano dubbi sulla caratterizzazione “biologica” del razzismo ufficiale. Il punto 3 e 7 enunciavano rispettivamente:
Il concetto della razza è concetto puramente biologico.
La questione della razza in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico.36)
Chiudiamo questa breve parentesi sulla posizione di Mussoliniverso l’antisemitismo e il razzismo, ricordando che gli storici concordano nell’attribuire pienaresponsabilità al duce per l’adozione dell’antisemitismo di Stato.
1.3 Gli italiani e la legislazione razziale.
Una volta chiarito che l’antisemitismo italiano non nacque ex abrupto nel 1938 e che la legislazionerazziale fu il frutto di una “complessa gestazione”,37) possiamo ora passare a considerare l’atteggiamento della popolazione italiana di fronte ai nuovi provvedimenti.
Anche questo aspetto è visto in modi differenti dalla storiografia recente rispetto a quella di qualche decennio fa. La tendenza più comune era quella di porre l’accento sulla solidarietà espressa dagli italiani ai connazionali ebrei, soprattutto nella fase dalla “persecuzione delle vite”, 1943-’45,38) ma storici autorevoli sostennero che gli italiani si opposero unanimemente fin dal primo momento alla svolta antisemita del regime. Tra questi, Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pubblicata per la prima volta nel 1961 e considerata tuttora uno degli studi più approfonditi sull’argomento, osserva che l’avvio della campagna antisemita in Italia segnò un grave momento di rottura in primo luogo tra il fascismo e l’opinione pubblica, ma poi anche all’interno del fascismo stesso: “L’avversione alla politica antisemita non solo era viva, infatti, in determinati ambienti mai completamente assimilati al fascismo, ma era vivissima anche tra coloro che la politica fascista avevano sempre accettato e tra gli stessi fascisti”.39) De Felice, comunque, nota che ai vertici del potere politico c’era la tendenza ad aderire alla campagna antiebraica, se non altro “per viltà o per opportunismo” e che il consenso diminuiva sensibilmente “a mano a mano che si scendeva nella scala sociale e in quella delle responsabilità politiche e amministrative”.40) Sempre secondo De Felice la stampa di regime e il PNF furono costretti, già nel corso del 1938, ad abbandonare gli attacchi contro i cosiddetti “pietisti”, cioè contro “coloro che non approvavano l’antisemitismo di Stato e commiseravano e aiutavano gli ebrei”, per evitare di rendere noti i dissensi alla campagna razziale tra la popolazione e tra i fascisti stessi.
Anche Attilio Milano che solo due anni dopo l’uscita del volume di De Felice pubblicò la sua Storia degli ebrei in Italia, pur dedicando uno spazio limitato alle vicende degli anni Trenta e Quaranta, mette in evidenza il decisorifiuto degli italiani e la resistenza, per lo meno ai livelli più bassi della scala sociale, ai tentativi di “politicanti di mestiere e (di) qualche intellettuale servile” di sollecitare al consenso per la campagna antisemita.41) Milano sottolinea come questo atteggiamento sia rimasto fondamentalmente inalterato durante tutto il periodo della guerra, fino a diventare poi tra il 1943-’45, opposizione esplicita, che si manifestò non solo in espressioni di simpatia verso gli ebrei, ma anche in aiuti concreti e protezione durante la fase dell’occupazione nazista.
Recentemente Fabio Levi ha invitato alla cautela sia nel contrapporre “un vertice chiaramente orientato in senso antiebraico” a “una base meno accanitamente votata alla persecuzione”, sia nel parlare di una solidarietà popolare che avrebbe reso per lo più inefficienti i provvedimenti razziali.42) Levi, infatti, sostiene che la propaganda antiebraica e i numerosi atti persecutori servirono ad “alimentare /…/ i germi di quello che avrebbe potuto trasformarsi /…/ in un vero e proprio antisemitismo diffuso”,43) da cui l’Italia non poteva certo considerarsi immune solo sulla base della constatazione che non era esistita fino ad allora una tradizione antisemita consolidata. Inoltre lo stesso autore rivela che, molto spesso la resistenza opposta all’applicazione delle leggi antiebraiche e la tutela di alcuni ebrei, non fu determinata tanto da una particolare sensibilità verso gli ebrei, quanto piuttosto dalla volontà di difendere interessi personali o addirittura di lucrare sulla protezione concessa agli ebrei. Se atti di solidarietà vera vi furono, non bisogna necessariamente credere che fossero all’ordine del giorno, e vanno bensì considerati, secondo Levi, come eccezioni al clima di indifferenza generale verso la nuova legislazione antiebraica. Anche Roberto Finzi denuncia la tendenza di “un’ormai consolidata tradizione storiografica” a lasciare intendere che “l’italiano subì ma non approvò la legislazione antisemita” 44) e che chi aderì lo fece, nella maggioranza dei casi, per il timore di subire ripercussioni da parte delle autorità fasciste. Finzi ritiene, invece, che non si possa parlare di una reazione uniforme degli italiani verso le leggi razziali: quello che emerge da numerose testimonianze è “una doppiezza diffusa /…/ fra agire privato e agire pubblico, tra ‘virtù private’ e ‘pubblici vizi’.” Lo studio di Finzi offre vari esempi di questo atteggiamento ambivalente di molti italiani, soprattutto negli ambienti universitari: uno di questi esempi è quello che vide protagonista un professore ordinario dell’università di Bologna, Giulio Supino, al quale, nonostante tutti i dipendenti dell’università lo conoscessero, veniva negato l’accesso ai locali “proibiti” se non presentava la lettera di “discriminazione”. Finzi sostiene che simili atteggiamenti non possano trovare giustificazione semplicemente nella paura diffusa per quelle che sarebbero state le sanzioni contro i “pietisti”, egli afferma che molto si sarebbe potuto fare all’interno di istituzioni come quelle universitarie, per “lanciare segnali forti di disapprovazione dell’antisemitismo, senza correre praticamente rischio alcuno”.45) I recenti studi di Maiocchi e di Israel/Nastasi sul rapporto tra la scienza e il razzismo fascista dimostrano, inoltre, chiaramente il ruolo che una parte della comunità scientifica italiana ha avuto nello sviluppo e nel sostegno della politica razziale del fascismo. Questo non esclude che vi furono manifestazioni di dissenso e atti di solidarietà degli italiani verso gli ebrei, ma – come avverte Finzi – non bisogna confondere “le piccole virtù private” del 1938-’43 con “le grandi virtù private” del periodo 8 settembre 1943-25 aprile 1945 46): una simile confusione porterebbe, come è accaduto, a ritenere che il rifiuto dell’antisemitismo in Italia sia stato un fenomeno diffuso e costante sin dagli inizi della campagna antiebraica. In realtà, le espressioni di solidarietà del periodo 1943-’45 ebbero un’origine e uno spessore diversi da quelle del periodo precedente: esse si inscrissero nel quadro più generale di calo di consenso verso il regime e di esplicito rifiuto dell’occupazione nazista. Ma nemmeno le “grandi virtù” del post-1943 possono far dimenticare che “la soluzione finale” in Italia fu il frutto della tacita connivenza e della diretta collaborazione di molti italiani durante la persecuzione (dei diritti prima e poi delle vite) degli ebrei. E soprattutto è innegabile che, sebbene la Shoah non fosse tra gli obiettivi inizialmente perseguiti da Mussolini, la legislazione razziale portò ad una progressiva emarginazione degli ebrei e preparò il terreno per le successive fasi di deportazione e sterminio47):il non aver opposto resistenza alla prima fase, consentì la realizzazione di un contesto operativamente molto favorevole all’avvio della seconda.
Ecco allora che, in questa prospettiva, il periodo 1938-’43 acquista un ruolo cruciale in quanto fase preparatoria dei fatti successivi all’8 settembre e l’introduzione della legislazione razziale si fa evento periodizzante nella storia del fascismo, perdendo quelle caratteristiche di “eccezionalità” e “accidentalità”, che ad essa la storiografia aveva finora attribuito. Inoltre, alla luce delle considerazioni svolte sin qui in merito al ruolo dell’opinione pubblica italiana prima e dopo l’emanazione delle leggi, è possibile concludere che “Il razzismo antiebraico in Italia non matura nel 1938 come ‘carta politica’ ma si basa su componenti presenti nella società e nella cultura italiana”48) e che non è lecito giungere ad una valutazione morale valida per tutti gli italiani, sulla base di atti di solidarietà individuali e per lo più limitati al periodo 1943-’45. È invece necessaria un’analisi dei rapporti tra italiani ed ebrei che consideri un arco di tempo più esteso e che, soprattutto, non sia condizionata dalla volontà di circoscrivere e dimenticare una fase tanto tragica della storia italiana.
2. Obiettivi della ricerca.
La mia trattazione si basa prevalentemente sulla lettura di fonti giornalistiche britanniche del periodo 1938-’43. La scelta di fonti straniere per l’analisi di un argomento di storia italiana è stata dettata dal desiderio di analizzare le reazioni dell’opinione pubblica e del governo britannico di fronte alle scelte del fascismo italiano: in particolare, l’obiettivo era quello di registrare eventuali prese di posizione nei confronti dell’adozione dell’antisemitismo di Stato nel 1938. Il 1938, come vedremo nel primo capitolo, fu un anno cruciale per le relazioni anglo-italiane e, proprio per questo motivo, la stampa britannica riportò in quell’anno vari commenti sull’Italia e sul fascismo: nei mesi che precedettero e seguirono la firma del cosiddetto Patto di Pasqua del 16 aprile, i quotidiani britannici alternarono dichiarazioni del primo ministro inglese, nelle quali egli elogiava l’impegno dell’Italia per la pace e per l’equilibrio delle forze in Europa, a espressioni di scetticismo per il protratto rinvio dell’entrata in vigore dell’accordo dovuto al mancato ritiro dei “volontari” italiani dalla Spagna. La moderata protesta di Mussolini di fronte all’annessione dell’Austria al Terzo Reich e la visita di Hitler in Italia, nel maggio del 1938, non mancarono, inoltre, di suscitare nell’opinione pubblica britannica preoccupazioni e timori in vista di un ulteriore rafforzamento dell’Asse.
L’introduzione della legislazione antiebraica da parte del regime fascista offrì ai pubblicisti britannici una nuova occasione per valutare il ruolo dell’Italia in Europa e i rapporti che la legavano alla Germania, nonché per commentare l’operato del duce. Si noterà che la maggior parte dei giornali qui presi in esame cominciò a dedicare spazio alla questione razziale solo in seguito alla pubblicazione del Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio 1938, tralasciando le premesse che portarono ai “provvedimenti per la difesa della razza” e considerando quella decisione come una “svolta improvvisa”. Si coglie la tendenza – diffusa anche in Italia – a motivare quella “svolta” con l’intensificarsi dei rapporti italo-tedeschi e con la necessità del duce di eliminare ogni possibile attrito con l’alleato.
Speciale attenzione venne riservata dai pubblicisti stranieri all’atteggiamento della Santa Sede, che la stampa britannica ritenne di poter identificare con le prese di posizione di Papa Pio XI, senza soffermarsi sulle diverse correnti di pensiero all’interno del mondo cattolico in materia di antisemitismo. La reiterata condanna al razzismo e al nazionalismo estremo da parte del Pontefice venne generalmente considerata un’esplicita espressione di biasimo nei confronti della discriminazione degli ebrei prevista dalla legislazione razziale fascista e si avvertì il rischio di una rottura delle relazioni tra lo Stato italiano e il Vaticano.
Nel primo capitolo verrà, inoltre, dato ampio spazio all’immagine di Mussolini nella stampa britannica: la figura del duce suscitò ironia, simpatia, ammirazione, ma anche biasimo e diffidenza, a seconda delle sue prese di posizione e delle scelte del regime,49) specialmente in tema di politica estera.
Nel corso delle mie ricerche sono, poi, emersi alcuni aspetti che ho ritenuto opportuno approfondire al fine di offrire una visuale il più possibile completa ed esaustiva dell’approccio britannico al fascismo e all’antisemitismo italiano. Mi riferisco in particolare all’analisi del punto di vista degli ebrei britannici che viene condotta nel secondo capitolo. La lettura di The Jewish Chronicle -il più vecchio periodico ebraico – si è rivelata di notevole interesse sia per valutare l’atteggiamento degli ebrei britannici nei confronti delle discriminazioni e delle persecuzioni che colpirono i loro correligionari in Europa sia per comprendere quali fossero le condizioni della comunità ebraica in Gran Bretagna e le sue relazioni con il resto della popolazione. L’esame di questa fonte mi ha permesso, tra l’altro, di accennare ad alcune questioni che in quegli anni richiamarono l’attenzione internazionale, come, ad esempio il problema dei rifugiati e dello Stato ebraico e la “questione del silenzio” della stampa britannica sull’olocausto.
L’altro aspetto, cui ho rivolto la mia attenzione nell’ultimo capitolo, è la nascita e lo sviluppo del movimento fascista inglese di Sir Oswald Mosley. Se, a prima vista, questo capitolo, dedicato interamente alla ricostruzione delle fortune politiche e delle intenzioni programmatiche della British Union of Fascist (BUF), può sembrare una deviazione dal percorso prefissato, anche in considerazione del fatto che i periodici di propaganda fascista50) non fecero quasi alcun accenno all’introduzione della legislazione razziale in Italia, ritengo, però, che esso mostri come la Gran Bretagna dovesse misurarsi a livello internazionale con problemi – il fascismo e l’antisemitismo – da cui, pur se in forme meno estreme, non poteva certo considerarsi immune. Il movimento di Mosley, infatti, fu tra i principali fautori dell’antisemitismo in Gran Bretagna fin dal 1934, si oppose con forza all’ingresso dei profughi ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste e accusò gli ebrei di mentire riguardo all’effettivo trattamento loro riservato dai nazisti.
La lettura degli organi legati alla BUF, oltre a consentire di tracciare le linee guida della politica del movimento, si è rivelata utile al fine di individuare le affinità tra il fascismo inglese e i fascismi continentali e di definire i rapporti tra il fondatore della BUF e i leader del fascismo e del nazionalsocialismo.
3. Le fonti
Il reperimento di fonti pubblicistiche britanniche della fine degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta si è rivelato piuttosto difficoltoso. Le emeroteche italiane51) presentano per quel periodo collezioni molto lacunose e per lo più limitate al Times.
Di qui, dunque, la necessità di condurre la ricerca all’estero, presso la Biblioteca dell’Università di Cambridge, dove, oltre ai quotidiani britannici più noti e diffusi che elencherò di seguito, ho avuto l’opportunità di consultare anche le riviste fasciste, The Blackshirt e The Fascist Quarterly, e il già citato periodico ebraico, The Jewish Chronicle.
Il Blackshirt52)nacque nel 1933 come settimanale di propaganda politica del movimento fascista inglese di Oswald Mosley. Dal luglio del 1937 diventò mensile. Il pubblico a cui si rivolgeva era principalmente quello dei militanti e simpatizzanti del movimento.
Molto spazio vi trovano le notizie di cronaca atte a mostrare il peso, ritenuto eccessivo, della minoranza ebraica nella società e nella politica britanniche. Numerose le prese di posizione contro il governo nazionale, considerato incapace di far fronte a problemi interni e alla situazione internazionale. Tra i problemi interni, il risalto maggiore è dato alla disoccupazione e alle manifestazioni di protesta dei lavoratori; tra i problemi internazionali: la presa di posizione del governo britannico contro l’intervento italiano in Abissinia, fortemente criticata, l’ostilità britannica verso i regimi fascisti d’Europa, ritenuta immotivata, e la (presunta) tolleranza delle democrazie occidentali verso il bolscevismo, giudicata molto pericolosa.
Un’altra caratteristica rilevante di The Blackshirt è quella di rappresentare il capo della BUF come un uomo forte dal punto di vista fisico e moralmente irreprensibile. La sua parola è presentata come una sorta di “vangelo” da mettere in pratica con cieca fiducia e con entusiasmo.
Sulla prima pagina, la testata, Blackshirt. The Patriotic Worker Paper è affiancata a destra, dal simbolo del fascismo britannico composto da un lampo e un cerchio, che indicano rispettivamente “azione” e “unità”; a sinistra, dal giugno 1937, compaiono la fotografia di Mosley e la scritta “Britain for the British”.
La rivista trimestrale The Fascist Quarterly,53) è una raccolta di saggi ed articoli scritti sia da figure vicine al movimento di Mosley – molti dei quali scrivevano anche per The Blackshirt – sia da esponenti del fascismo continentale, come Mussolini e Goebbels. Gli scritti sono sia critici nei confronti del governo britannico sia programmatici, nel senso che presentano i punti fondamentali della politica del movimento fascista. Non mancano ovviamente le prese di posizione antisemite, nelle quali gli ebrei sono presentati come “i parassiti” della società britannica.
Il compito che la rivista si proponeva – come era scritto nel primo numero del gennaio 1935 – era un “formidable task”54) perché paragonabile a quello del giornale di Mussolini, Gerarchia, nei primi tempi del fascismo in Italia, e di Die Tat, nello sviluppo del movimento nazista in Germania: si trattava di studiare il fascismo e di darne “un’interpretazione inglese”.
Non mi è, purtroppo, stato possibile reperire alcuna copia della testata Action, il primo organo di propaganda fascista, risalente a quando il movimento era denominato New Party, che, dal 1936 in poi, fu la pubblicazione più diffusa della BUF. Mi sembra, comunque, che le informazioni contenute nella Quarterly e nel Blackshirt, oltre che negli scritti di Mosley, reperibili in parte anche in Italia – non, però, in lingua originale – offrano un quadro abbastanza esaustivo delle idee-guida del movimento fascista inglese.
Per quanto riguarda il periodico ebraico The Jewish Chronicle55) si tratta, come si è detto, del più vecchio periodico ebraico pubblicato ininterrottamente a partire dal 1841. Di proprietà di una società indipendente a responsabilità limitata, The Jewish Chronicle era libero da influenze da parte delle istituzioni comunitarie ebraiche e da gruppi o individui di potere.56) Nonostante l’estrazione prevalentemente borghese e londinese della maggior parte dei suoi editori, il settimanale si rivolgeva a tutti gli ebrei, anche a quelli che vivevano nei centri di provincia e nell’East End di Londra.
Particolare attenzione è dedicata alla condizione degli ebrei in Europa, ampio spazio vi trovano soprattutto i tragici eventi che coinvolsero la popolazione ebraica a partire dall’ascesa al potere di Hitler in Germania. Non manca, però, l’attenzione agli altri avvenimenti mondiali, che anzi vi vengono trattati in maniera esaustiva.
Durante gli anni di guerra la direzione del giornale fu costretta a trasferirsi fuori Londra e a limitare le informazioni sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei, perché ritenuti argomenti “sconvenienti” dal governo e dal personale militare britannico, che temevano la reazione nazista.
Del Jewish Chronicle lo storico inglese di origine ebraica Cecil Roth disse:
/…/ it provided a week to week picture of everything that was happening in the Jewish world, at home and overseas, in the fullest detail. For the research worker it is invaluable.57)
Il rilievo dato dal periodico all’adozione dei provvedimenti antiebraici in Italia si è rivelato particolarmente prezioso per la mia ricerca.
La stampa britannica quotidiana si distingue, come è noto, in “qualitativa” e “popolare”. Qui ho preso in considerazione entrambi i punti di vista.
Per la stampa “qualitativa” ho analizzato il Times (1938-’39, 1943-’44), il Daily Telegraph & Morning Post (lug-dic 1938), il Manchester Guardian (lug-dic 1938-’39) e il serale Evening Standard (1938-’39, 1943); per la stampa “popolare” il Daily Mail (lug-dic. 1938)e il Daily Herald (1938-’39; 1943).58) Ho, inoltre, cercato di scegliere, tra quelli disponibili, quotidiani di diverse tendenze politiche in modo da avere un quadro il più completo possibile delle prese di posizione britanniche rispetto agli argomenti che mi proponevo di trattare.
Il Times è il più vecchio quotidiano inglese da quando il Morning Post venne incorporato nel Daily Telegraph nell’ottobre 1937.Pubblicato a Londra, il primo numero uscì il 1° gennaio 1785 con il nome di Daily Universal Register ed era un foglio pubblicitario, come furono anche altri giornali di successo all’inizio della loro storia, soltanto tre anni dopo divenne The Times. Durante il secolo scorso, in particolare a partire dal 1817 con Thomas Barnes alla direzione, il Times assunse il carattere di “istituzione nazionale”, indipendente, personale e responsabile, che tuttora mantiene. E’, dunque, un quotidiano politicamente indipendente, moderatamente conservatore e solitamente coltiva una linea filo-governativa. Da sempre si rivolge ad un pubblico della classe medio-alta, persone di cultura, uomini d’affari e professionisti. La sua tiratura negli anni qui considerati era di quasi duecentomila unità.
Il Daily Telegraph (and Morning Post),nato a Londra come Daily Telegraph and Courier nel 1855, voleva rivolgersi alle masse e in effetti, pur avendo le caratteristiche di un giornale “qualitativo” generalmente più adatto ad un pubblico colto, seppe attirare anche i lettori della classe media. E’ noto per aver sempre cercato di riportare le notizie nel modo più diretto e obiettivo possibile, senza lasciarsi condizionare né dalle autorità né dal pubblico. Negli anni Trenta, ad esempio, non cessò mai di mettere in guardia contro il pericolo rappresentato dalla Germania nazista e manifestò in modo coerente la propria opposizione alla politica di appeasement del governo inglese. Nell’ottobre del 1937 incorporò il Morning Post (fondato nel 1772) e in quell’anno la tiratura passò dalle 220000 alle 637000 copie.
L’Evening Standard, fondato nel 1827 a Londra, è un quotidiano serale, indipendente, moderatamente conservatore. E’ considerato il giornale dei colletti bianchi. Famoso per la rubrica “Londoner’s Daily” e per le sue vignette.59) Negli anni dal ’20-’40 fu di proprietà di Lord Beaverbrook, uno dei magnati della stampa dell’epoca, sostenitore della politica di appeasement.
Il Manchester Guardiannacque a Manchester nel 1821 come settimanale Whig (sinistra) e divenne quotidiano nel 1859. Negli anni che qui ci interessano era un giornale autorevole di orientamento liberale, particolarmente apprezzato dai lettori colti per lo spazio riservato alle questioni internazionali, oltre che alla politica interna. Nel 1959 assunse la testata The Guardian e, pur mantenendo una tiratura modesta, ha tuttora rilievo internazionale.
Il Daily Mail fu fondato da Lord Alfred Harmsworth (1865-1922), il primo numero uscì il 4 maggio 1896 e si presentò come un nuovo tipo di giornale rivolto ai lettori della classe media e operaia, può essere considerato il primo quotidiano “popolare” e fu anche il primo a raggiungere il milione di copie vendute, anche per il basso costo. Nel 1937 la sua tiratura era di 1.580.000 copie. Indipendente conservatore, a tratti sciovinista e decisamente anti-labour.
Daily Herald. nacque nel 1911 come settimanale indipendente socialista, l’anno successivo divenne un quotidiano, per poi tornare ad essere settimanale durante la prima guerra mondiale. Nel 1919 fu rilanciato come quotidiano, ma solo nel 1929 uscì dalla precaria condizione finanziaria. Nel 1922 divenne organo ufficiale del partito laburista e del Trade Union Congress. Fino alla fine della guerra la sua influenza sui dirigenti del partito e sugli iscritti era scarsa e la sua tiratura era bassa. Negli anni Venti raggiunse la tiratura di 320.000 copie e nel 1937 superò i due milioni di copie. Era decisamente schierato dalla parte dei lavoratori ed era “pro-strike, any strike, any time, anywhere”.60)
Nello studio di queste fonti non sono mancate difficoltà interpretative dovute sia alla scarsità di commenti esaurienti e di prese di posizione inequivocabili sul fascismo e sulla legislazione razziale da parte dei pubblicisti britannici, sia al fatto che spesso le osservazioni espresse negli articoli denotavano una certa influenza degli stereotipi tradizionalmente legati all’immagine dell’Italia e degli italiani nonché della propaganda fascista all’estero. Questi influssi contribuirono in misura non trascurabile alla formulazione di giudizi non sempre attenti, anzi, spesso sommari e basati su una conoscenza parziale della realtà politica e sociale dell’Italia.61)
- F. LEVI, Istituzioni e società di fronte alla leggi antiebraiche, in Sulla crisi del regime fascista, 1938-’43. La società italiana dal “consenso” alla Resistenza, a cura di A. Ventura, Venezia, Marsilio, 1996, p. 480.
- G. FUBINI, La legislazione “razziale” nell’Italia fascista, in Dalle leggi razziali alla deportazione. Ebrei tra antisemitismo e solidarietà. Atti della giornata di studi di Torrazzo, 5 maggio 1989, a cura di A. Lovatto, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli”, 1989, p. 1.
- D. BIDUSSA, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 17-18; G. ISRAEL – P. NASTASI, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 16; R. MAIOCCHI, Scienza italiana e razzismo fascista, Torino, La Nuova Italia, 1999, pp. 3-4.
- D. BIDUSSA, Il problema dell’antisemitismo in Italia, ne “I viaggi di Erodoto”, a. IX, n. 26, mag.-set. 1995, p. 15.
- D. BIDUSSA, I caratteri “propri” dell’antisemitismo italiano, in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna, Grafis Ed., 1994, p. 114.
- D. BIDUSSA, “Il mito…“, cit., pp. 19; 57-ss.
- G.P. ROMAGNANI, “Il veleno di una fede feroce”. L’Italia di fronte alle leggi razziali del 1938, in “Dalle leggi razziali…“, cit., pp. 29-ss.; M. TOSCANO, Gli ebrei in Italia dall’emancipazione alle persecuzioni, in “Storia contemporanea”, a. XVII, n. 5, ott. 1986, p. 923.
- G.P. ROMAGNANI, op. cit., pp. 31-ss.
- N. SOLOMON, Ebraismo, Torino, Einaudi, 1999, pp. 20-31.
- G. MICCOLI, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Annali 11. Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1997, vol. II, p. 1372.
- R. DE FELICE, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1993, pp. 35-7. Il fatto la conversione al cristianesimo fosse considerata sufficiente a far cadere i pregiudizi contro gli ebrei mette in luce una differenza fondamentale tra l’antigiudaismo cattolico e l’antisemitismo di stampo biologico, per il quale la discriminazione degli ebrei trovava giustificazione nella loro diversità biologica, una diversità che non poteva certo essere cancellata con una “conversione”.
- Ibid., p. 43.
- G. FUBINI, op. cit., p. 14; G.P. ROMAGNANI, op. cit., p. 30.
- G. MICCOLI, op. cit., p. 1574. Vedi cap. 1, par. 6.
- L. PICCIOTTO FARGION, Per ignota destinazione, Milano, Mondadori, 1994, pp. 43-4.
- DE FELICE, op. cit., p. 22.
- Ibid.,pp. 46-7.
- Ibid.,p. 48.
- M. MICHAELIS, The Current Debate over Fascist Racial Policy, in R.S. WISTRICH & S. DELLA PERGOLA, (eds.) Fascist Antisemitism and the Italian Jews, The VidalSassoon International Center for the Study of Antisemitism, 1995, pp. 93-4.
- Maiocchi – riaffermando tra l’altro il carattere decisamente non improvviso e non accidentale della legislazione “razziale”, sostiene che: “Il razzismo italiano non fu una pianta velenosa sbocciata dalla sera al mattino, per volere del dittatore, in un orticello che in precedenza non aveva conosciuto nulla di simile.” R. MAIOCCHI, op. cit., p. 321.
- L. PICCIOTTO FARGION, op. cit., p. 49.
- R. DE FELICE, op. cit., p. 235.
- K. VOYGT, Il rifugio precario, Scandicci (Fi), La Nuova Italia, 1993.
- “Lo stereotipo del giudeo-bolscevismo /…/ coniato e diffuso dai propagandisti dell’antisemitismo costituì uno slogan di facile effetto” nell’Europa del primo dopoguerra. Cfr. E. COLLOTTI, L’antisemitismo tra le due guerre in Europa, ne “La menzogna della razza”, cit. pp. 101-ss.
- L. PICCIOTTO FARGION, op. cit., p. 47.
- Va, comunque, tenuto presente che non tutti gli ebrei condividevano l’idea di un ritorno in Palestina e, anzi, molti ebrei fascisti dichiararono apertamente il loro antisionismo e ribadirono la loro lealtà all’Italia e al regime. Il sionismo in Italia – come riferisce Bidussa – /…/ sarà soprattutto una scelta antifascista tra gli anni Venti e Trenta.” D. BIDUSSA, “Il problema dell’antisemitismo…” cit., p. 18.
- R. DE FELICE, op. cit., pp. 238-9. Israel e Nastasi, nell’illustrare i passaggi che dall’introduzione di provvedimenti contro le popolazioni africane portarono a quelli contro gli ebrei, sostengono che “l’elemento imperialistico è /…/ importante per capire come si vada modificando l’ideologia fascista e come, in gran parte della propaganda di regime, l’elemento antiebraico si sviluppi assieme al nazionalismo imperialista”. G. ISRAEL – P. NASTASI, op. cit., p. 19.
- R. DE FELICE, op. cit., p. 244.
- De Felice lo descrive “uno strano tipo di intellettuale e di fascista” (ibid., p. 245); Maiocchi lo associa nella definizione a Guido Cogni e di loro scrive: “non furono né antropologi, né etnologi, né paleontologi e neppure antichisti, furono due personaggi che non si saprebbe come definire”.R. MAIOCCHI, op. cit., p. 187.
- Nel 1941 Evola pubblicò Sintesi della dottrina della razza, ma già in altri scritti precedenti si era occupato della concezione spirituale della razza. Ricordiamo qui i titoli di alcuni scritti apparsi tra il 1934 e il 1937: Razza e cultura, Tre aspetti del problema ebraico, Il mito del sangue.
- R. MAIOCCHI, op. cit., pp. 200-2.
- G. ISRAEL – P. NASTASI, op. cit., p. 23.
- Il razzismo biologico, in “La menzogna della razza”, sezione II, Ideologia, pp. 224-ss.
- G. ISRAEL – P. NASTASI, op. cit., p. 11. A Landra fu in seguito affidata la direzione dell’Ufficio Razze del Ministero della Cultura Popolare, incarico che ricoprì fini al febbraio 1939.
- Vedi, ad esempio, M. SARFATTI, Mussolini contro gli ebrei, Torino, Zamorani, 1994, p. 9.
- Vedi anche Appendice.
- F. LEVI, op. cit., p. 482.
- Picciotto Fargion distingue tra una prima fase, che definisce di “persecuzione dei diritti” e che va dal 1938 al 1943, durante la quale l’antisemitismo era inteso a “discriminare umiliare e perseguitare gli ebrei”; e una seconda fase, quella appunto di “persecuzione delle vite”, durante la quale l’antisemitismo era invece inteso a “separare gli ebrei dal resto della nazione e a imprigionarli” per poi destinarli alla deportazione verso i campi di concentramento tedeschi. L. PICCIOTTO FARGION, The Jews During the German Occupation and the Italian Social Republic, in I. Herzer (ed.) The Italian Refuge. Rescue of Jews During the Holocaust, Washington, The Catholic University of America Press, 1989, p. 109. Vedi anche M. SARFATTI, 1938.Le leggi contro gli ebrei e alcune considerazioni sulla normativa persecutoria, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Roma, Ed. Camera dei Deputati, 1989, pp. 47-8; Id. “Mussolini contro …”, 1994, p. 6.
- R. DE FELICE, op. cit., p. 312.
- Ibid., pp. 309-10.
- A. MILANO, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1992, pp. 391-419.
- F. LEVI, op. cit., pp. 484-85.
- Ibidem.
- R. FINZI, L’università italiana e le leggi antiebraiche, Roma, Editori Riuniti, 1997.
- Ibid., pp. 33-4.
- Ibid., pp. 36-8.
- F. LEVI, op. cit., p. 486; L. PICCIOTTO FARGION, “The Jews during the German Occupation…”,cit., pp. 109-ss; id. La persecuzione degli ebrei 1943-’45, in “La menzogna della razza”, cit. pp. 131-38.
- D. BIDUSSA, “Il mito…”, cit., p. 19; R. MAIOCCHI, op. cit., pp. 57-ss; p. 321. G. ISRAEL – P. NASTASI, op. cit., cap. 1-2.
- Si noterà la tendenza della stampa britannica ad identificare Mussolini con il regime, relegando in secondo piano altre figure di spicco del fascismo italiano, come i vari Ciano, Alfieri, Starace, ecc.
- Mi riferisco al settimanale The Blackshirt e alla rivista trimestrale The Fascist Quarterly di cui fornirò in seguito maggiori dettagli.
- Cui ho potuto accedere tramite internet.
- La disponibilità è limitata alle annate 1937-’39 e lo stato di conservazione non consente la riproduzione se non su microfilm e a cura del personale competente.
- Dal 1937 fu pubblicata col titolo di British Union Quarterly. Le annate disponibili vanno dal 1935 al 1940 (marzo) e lo stato di conservazione è ottimo.
- “compito formidabile”, Notes of the Quarter, in The Fascist Quarterly, vol. I, n. 1, January 1935, pp. 5-6.
- Lo stato di conservazione è buono e numerose sono le annate disponibili, anche se i numeri dal 1940 al 1943 hanno un formato molto ridotto: il razionamento della carta negli anni di guerra fu la causa principale di questa riduzione di formato
- Per un approfondimento su The Jewish Chronicle vedi D. CESARANI, Le Jewish Chronicle et la Shoah in “Revue d’Histoire de la Shoah”, n. 163 mai-auot 1998 pp. 183-202; e R. BOLCHOVER, British Jewry and the Holocaust”, Cambridge UP, 1993, nota 2 pp. 157-8.
- ” /…/ forniva di settimana in settimana un quadro dettagliato di tutto ciò che accadeva nel mondo ebraico, in patria e all’estero. Per il ricercatore ha un valore inestimabile.” C. ROTH, The Jewish Chronocle 1841-1941: A Century of Newspaper History, (London, 1949, p. 116), citato in R. BOLCHOVER, op. cit., pp. 157-8.
- Dei quotidiani che ho esaminato solo il Daily Mail e il Daily Telegraph and Morning Post sono stati riportati su microfilm, i restanti giornali sono, comunque, conservati in discrete condizioni. Per quanto riguarda il Times, l’unica fonte che ho potuto consultare in Italia, presso il deposito riviste della Biblioteca Comunale Sormani di Milano, esso presenta per le annate 1938-’43 un pessimo stato di conservazione ed è, inoltre, impossibile la riproduzione degli articoli sia su fotocopia che su microfilm.
- Vedi appendice.
- “Per lo sciopero, qualunque sciopero, sempre e ovunque.” Definizione di H. CUDLIPP, in At Your Peril (1962), citato in F. HUGGET, The Newspaper Second Edition, London, Oxford UP, 1972.
- Per maggiori dettagli vedi in particolare cap. 1, par. 5.