La decisione dei Re cattolici di espellere tutti gli ebrei dalla Spagna provocò un’emigrazione di massa verso l’Italia, il nord Africa e il Levante, dove fiorirono nuove comunità sefardite
Paloma Díaz-Mas
Nel marzo del 1492 i Re cattolici, Isabella I di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, decretarono l’espulsione degli ebrei dai loro territori. La misura era sorprendente, perché metteva fine alla presenza secolare degli ebrei nei regni della penisola iberica. In altri Paesi dell’Europa occidentale, come Francia e Inghilterra, gli ebrei erano già stati espulsi tra il XIII e il XIV secolo.
Inoltre, vari membri dell’élite ebraica svolgevano importanti compiti a corte: erano, per esempio, medici, amministratori, o esattori delle tasse. Contrariamente a quanto si crede, i Re cattolici non imposero agli ebrei di scegliere tra la conversione al cristianesimo e l’esilio. Decretarono direttamente l’espulsione, pena la morte e la confisca dei beni, per gli ebrei di ogni età e condizione sia per i nati nei loro regni che per gli stranieri residenti.
L’editto non offriva nemmeno la possibilità di convertirsi come alternativa all’esodo: si affermava la necessità di cancellare completamente la presenza ebraica. I motivi addotti erano di carattere religioso: si trattava di evitare la relazione tra ebrei e cristiani convertiti, affinché questi ultimi rompessero definitivamente ogni legame con l’ebraismo. In seguito a una serie di rivolte popolari che nel 1391 erano sfociate in atti violenti contro i quartieri ebraici di tutta la penisola e delle isole Baleari, da circa un secolo si verificavano conversioni di massa degli ebrei. Molti di questi conversi rimanevano fedeli alla loro precedente religione e conservavano usi e costumi ebraici.
A quei tempi vivere sospesi tra due fedi, come facevano molti ebrei convertiti, era considerato un’eresia. Fu per evitare situazioni di questo tipo che i Re cattolici obbligarono gli ebrei a vivere in quartieri chiusi, i ghetti, e nel 1480 fondarono il tribunale della Santa Inquisizione con la missione di perseguitare i conversi giudaizzanti. L’ultima misura fu appunto l’espulsione degli ebrei, per evitare «la partecipazione, conversazione, comunicazione» tra ebrei e conversi. Ma il decreto di espulsione produsse un effetto contrario a quello sperato.
La strada dell’esilio
Molti ebrei scelsero di convertirsi al cristianesimo per non dover abbandonare la loro terra. Battezzandosi smettevano ufficialmente di essere ebrei e quindi il decreto non li riguardava più. In questo modo il numero di conversi giudaizzanti aumentò invece di diminuire. Altri, invece, obbedirono all’editto e scelsero la via dell’esilio. Avevano tre mesi di tempo per liquidare le rispettive proprietà e andarsene con le famiglie. Potevano portare con sé solo quello che riuscivano a caricare sui carri. Sotto la canicola estiva (il termine per l’esilio scadeva in agosto) raggiunsero le città portuali da cui abbandonarono la penisola iberica.
Si calcola che gli esiliati furono circa 100mila. È famosa la descrizione di questo esodo fatta dal cronista Andrés Bernáldez, il “sacerdote dei palazzi”, nel suo Historia de los Reyes Católicos (Storia dei Re cattolici): «Lasciarono le terre dov’erano nati, adulti, vecchi e bambini, a piedi, in sella ad asini e altre bestie o sui carri, e proseguirono il viaggio, ciascuno verso il porto cui era diretto; e procedevano per le strade e i campi trasportando con fatica le proprie fortune: c’era chi cadeva, chi si rialzava, chi moriva, chi nasceva, chi si ammalava. Non c’era cristiano che non provasse pena per loro, e ovunque li invitavano a battezzarsi, e alcuni con dolore si convertivano e potevano restare, ma pochi, e i rabbini li incoraggiavano, facevano cantare le donne e i giovani, e suonare i tamburelli per rallegrare la gente,e così lasciarono la Castiglia e raggiunsero i porti».
Destinazioni opposte
Il dilemma tra esilio e conversione è esemplificato chiaramente dal caso di due importanti famiglie ebree di Castiglia, i Seneor e gli Abravanel. Abraham Seneor, o Senior, (Segovia, 1412 ca. – 1493 ca.) era stata un’importante figura di corte e aveva partecipato ai negoziati per il matrimonio tra Isabella e Ferdinando.
Isaac Abravanel (Lisbona, 1437 – Venezia, 1508) proveniva invece da una famiglia ebraica di Siviglia rifugiatasi in Portogallo dopo i pogrom del 1391. Isaac era stato tesoriere del sovrano portoghese Alfonso V, ma aveva poi dovuto trasferirsi in Castiglia per motivi politici. I due dignitari erano amici e, in qualità di tesorieri dei Re cattolici, avevano finanziato la conquista di Granada e la spedizione di Cristoforo Colombo.
Nel 1492 Abraham Seneor, che aveva 80 anni, decise di convertirsi al cristianesimo insieme a vari membri della sua famiglia. Nella solenne cerimonia del battesimo, celebrata nel monastero di Guadalupe, ebbe come padrini gli stessi Re cattolici e adottò il nome di Fernando Pérez Coronel (o Núñez Coronel). Morì qualche mese dopo. Nel XVI e XVII secolo i Coronel divennero un’importante famiglia della nobiltà e della vita intellettuale castigliana (due dei suoi membri occuparono cattedre all’università di Alcalá e alla Sorbona, a Parigi).
Dal canto suo, Isaac Abravanel, che nel 1492 aveva 55 anni, andò in esilio con tutta la famiglia, prima a Napoli, poi in Sicilia e a Corfù, e infine si stabilì a Venezia. Uno dei suoi figli fu il poeta e filosofo Jehuda Abravanel, detto Leone Ebreo, autore dei Dialoghi d’amore. Ancora oggi in vari Paesi ci sono sefarditi con il cognome Abravanel.
Come Isaac, molti degli espulsi si recarono in Italia: a Napoli (che allontanò a sua volta gli ebrei nel 1510), Roma, Ferrara o Venezia, dove ancora esistono congregazioni e sinagoghe di rito sefardita. Tuttavia, la maggior parte decise di stabilirsi in Paesi islamici, dov’era consentita la presenza di diverse minoranze religiose ed esistevano già comunità ebraiche.
Nel regno del Marocco c’erano da tempo ebrei di lingua araba e amazigh(berbera), nonché ebrei fuggiti dai regni iberici dopo gli attacchi ai ghetti del 1391. Più che integrarsi nelle comunità preesistenti, gli esiliati del 1492 crearono il proprio quartiere ebraico, organizzandolo secondo il modello spagnolo, regolato dalle tacanot, le ordinanze rabbiniche di Castiglia.
Le principali comunità sefardite si stabilirono nelle città del nord del Marocco, come Fez, Tetouan, Alcazarquivir, Chefchaouen, Tangeri o Arsila. Di solito i sefarditi espulsi (megorashim) rimanevano separati dagli ebrei locali (toshabim o residenti, che significativamente i sefarditi chiamavano forestieri), il che favorì per diversi secoli la conservazione di tratti culturali di origine ispanica, tra i quali la lingua.
La principale destinazione degli esiliati era tuttavia l’impero ottomano: fondato dalla dinastia turca Osmanli, che all’epoca era al suo apogeo, si estendeva lungo le coste del Mediterraneo orientale e dell’Africa del nord, nei territori che oggi appartengono a Grecia, Turchia , Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Romania, Bulgaria, Vicino Oriente, Egitto, Tunisia e Algeria.
Nell’impero ottomano era in vigore il sistema politico del millet, secondo il quale le minoranze religiose (cristiani di distinte confessioni o ebrei) potevano mantenere la propria organizzazione e la propria legislazione per le questioni interne, a patto di rispettare l’autorità del sultano e versare elevati tributi.
Questo permise agli espulsi di costituire nelle località in cui di volta in volta si stabilivano delle comunità ebraiche, generalmente definite sefardite orientali, nelle quali per molti secoli poterono praticare liberamente la propria religione.
I sefarditi in Occidente
Anche nell’impero ottomano i sefarditi evitarono di unirsi alle comunità ebraiche preesistenti (per lo più composte da ebrei romanioti di lingua greca), per fondare nuove congregazioni con le proprie istituzioni comunitarie: sinagoghe, scuole, yeshivot (accademie rabbiniche), tribunali rabbinici eccetera. Le comunità sefardite più importanti dell’impero ottomano erano quelle di Istanbul, Salonicco, Smirne, Gerusalemme, Sarajevo, Sofia e Il Cairo; c’erano anche comunità sefardite in varie località balcaniche appartenenti all’impero ottomano, come Plovdiv, Ruse e Shumen (in Bulgaria), Belgrado (Serbia), Bucarest o Turnu-Severin (Romania).
Alcuni degli ebrei espulsi nel 1492 cercarono invece rifugio in Portogallo, dove però il re Giovanni II ammise solo chi poteva versare ingenti tributi, cioè le famiglie più facoltose. Qualche anno dopo, nel 1496, il suo successore Manuele I sposò Isabella, la figlia primogenita dei Re cattolici. Negli accordi matrimoniali si stabiliva che in Portogallo non avrebbero più potuto vivere infedeli: così il re portoghese decretò l’espulsione degli ebrei, che si radunarono a Lisbona per lasciare il Paese.
Tuttavia, all’ultimo momento il monarca cercò una soluzione alternativa per timore delle conseguenze economiche che avrebbe prodotto l’esodo ebraico. Così ordinò di separare dai genitori i bambini minori di quattordici anni, per affidarli a famiglie cristiane, e allo stesso tempo costrinse tutti gli adulti a farsi battezzare,vietandogli poi di emigrare.
Questi ebrei convertiti erano conosciuti come cristãos novos (“nuovi cristiani”). Molti di loro, anche se ufficialmente cristiani, continuavano a sentirsi ebrei e a praticare l’ebraismo all’interno delle proprie famiglie. Il fatto che all’epoca in Portogallo non esistesse l’Inquisizione rese possibile ai conversi, per almeno due generazioni, conservare la vecchia religione senza essere perseguitati.
La situazione cambiò radicalmente nel 1536, quando questo tribunale ecclesiastico venne introdotto anche in Portogallo. Quattro anni dopo ebbe luogo il primo processo. Sentendosi sempre più minacciati, molti nuovi cristiani cercarono di fuggire dal Paese per salvarsi dalle persecuzioni, anche se ufficialmente permaneva il divieto di emigrazione.
Alcuni mercanti, banchieri e armatori si unirono alle comunità degli esuli portoghesi in città europee come Anversa, Amsterdam, Amburgo, Bordeaux, Bayonne, Rouen, Parigi, oppure in altre piccole località del sud della Francia (Saint Jean de Luz, Peyrehorade ecc.) o in città italiane come Ferrara, Livorno o Ancona.
In questi luoghi, sotto la protezione o, in ogni caso, con la tolleranza delle autorità locali, i nuovi cristiani tornarono ad abbracciare l’ebraismo. Il XVI e il XVII secolo videro il fiorire delle comunità sefardite: la più importante e duratura fu quella di Amsterdam, la cui sinagoga (l’Esnoga, costruita nel 1675) si è conservata fino a oggi.
La diaspora verso le colonie
Da queste comunità sefardite occidentali la diaspora si estese poi, nel corso del XVII secolo, all’Inghilterra e alle colonie portoghesi, olandesi e inglesi del continente americano: Brasile, Suriname, Giamaica, o Nuova Amsterdam (l’odierna New York). Nel XVI e nel XVII secolo in queste comunità sefardite si integrarono anche alcuni conversi giudaizzanti spagnoli in fuga dal tribunale dell’Inquisizione.
In altre parole, la formazione delle comunità della diaspora sefardita fu un processo lungo e complesso, che durò quasi due secoli e si estese dalla zona del Mediterraneo orientale e dal nord Africa fino ai porti commerciali dell’Europa occidentale nonché alle colonie americane.
https://www.storicang.it/a/sefarditi-lesodo-degli-ebrei-spagnoli_14870