Prima che il contenuto del Decalogo venga svelato c’è un versetto, che potremmo considerare forse un’introduzione: E l’Onnipotente pronunciò tutte queste cose, dicendo… (Shemot 20:1). C’è, in questo versetto, una parola in particolare che cattura la nostra attenzione. L’ultima parola nel versetto, leemor (“dicendo”), sembra una ripetizione inutile e quindi incomprensibile. Perché è necessario “dire” qui, quando D‐o stesso sta parlando direttamente a tutto il popolo?
I Chachamim offrono diverse interpretazioni: lo Sfat Emet, ad esempio, indica l’uso di questa parola come un’indicazione della coesistenza della Torà orale con la Torà scritta che sta per essere trasmessa. In questa visione, vengono evidenziati i due aspetti distinti della Torà orale, poiché siamo obbligati ad insegnare la Torà orale per due motivi: Questa svolge un ruolo funzionale molto critico, consentendoci di applicare i principi della Torà scritta nelle generazioni successive. Inoltre, l’apprendimento continuo della Torà orale è visto come una sorta di rivelazione continua. Man mano che la Torà viene appresa e applicata a nuove situazioni, la Parola di D‐o viene continuamente portata nell’esperienza umana. Questo conferma l’idea che sul Monte Sinai fu rivelata la totalità della Torà, incluso ciò che sarebbe stato rivelato alle generazioni future.
Il Maor vaShemesh collega la parola leemor al versetto successivo, quello che contiene la prima parola del Decalogo, “Anochì” ‐ “Io sono il Signore
D‐o…” Secondo questo approccio, il Comandamento più importante è il primo: “Anochi”, la conoscenza o il riconoscimento di D‐o, che trascende tutti gli altri Comandamenti ed è la ragion d’essere di tutti i Comandamenti. Se manca la fede in D‐o, gli altri Comandamenti perdono, per così dire, di senso. In effetti, la parola stessa “comandamento” diventa un ossimoro senza D‐o. Quindi tutta la Torà è incapsulata in Anochì, perché se una persona accetta questo primo precetto, allora necessariamente rispetterà la Torà nel suo insieme; una profonda fede porterà a una profonda osservanza. È però vero anche il contrario: Attraverso l’esecuzione delle mitzvot arriveremo a conoscere D‐o. “La parola leemor è quindi collegata ad Anochi e il versetto va letto come “Leemor (dicendo) Anochi’. Visto che questo porterà all’esecuzione di tutti gli altri Comandamenti, quando adempirai i Comandamenti, scoprirai Anochi ‐ D‐o”. Il nostro versetto, quindi, dovrebbe essere reso così: ‘D‐o pronunciò tutte queste cose per portare gli ebrei a dire (o comprendere) “Anochì”.
Lo Shem Mishmuel spiega la parola apparentemente superflua, “leemor” nel nostro versetto da una diversa angolazione. Altrove nel suo commento, Rashi cita una tradizione secondo cui tutti i Dieci Comandamenti furono trasmessi simultaneamente ‐ “in un’unica espressione”. Con la loro limitata capacità sensoriale umana, gli ebrei erano però incapaci di afferrare questo tipo di discorso. Affinché comprendessero il contenuto della comunicazione di D‐o, dice lo Shem Mishmuel, era necessario che Moshe parlasse, per trasmettere la Parola di D‐o in una forma più umana. Nonostante questa tradizione, Rashi stesso offre una spiegazione diversa attraverso un commento un po’ enigmatico secondo cui gli ebrei, in risposta ai Comandamenti positivi, risposero “sì”, in risposta ai comandamenti negativi (un divieto) risposero “no” (Rashi, Shemot 20:1). Tuttavia, questo approccio presenta dei problemi. Analizzando la fonte di Rashi, troviamo una differenza di opinione nella Mechilta; Rashi cita la visione attribuita a Rabbì Yishmael. Gli ebrei rispondevano “Sì” ai Comandamenti positivi e “No” a quelli negativi.
Rabbì Akiva (non è d’accordo e) dice che ai Comandamenti positivi gli ebrei rispondevano “Sì” e ai Comandamenti negativi rispondevano “Sì”. Queste due opinioni e l’opinione riportata da Rashi ci pongono di fronte a due questioni distinte. Innanzitutto, qual è esattamente il disaccordo tra le due autorità talmudiche? In secondo luogo, perché Rashi cita l’opinione di Rabbì Yishmael, dato il principio talmudico secondo cui quella di Rabbì Akiva è l’opinione decisiva e accettata in tutti i casi di disaccordo con i suoi contemporanei?
Il Maharal e, in seguito, Rav Soloveitchik spiegano entrambi l’argomento: Rabbì Akiva e Rabbì Yishmael concordano sul fatto che per quanto riguarda i comandamenti positivi il popolo ebraico rispose “sì, lo faremo” ‐ ad esempio, quando D‐o comanda “Ricordatevi del giorno di sabato per santificarlo”, il popolo rispose “sì, lo faremo”. La differenza di opinione riguarda i comandamenti negativi. Rabbì Yishmael insegna che al comandamento “non uccidere” fu risposto con “no (non uccideremo)”, mentre Rabbi Akiva insegna che la risposta fu “sì, (non uccideremo). C’è una profonda questione filosofica al centro di questa apparente banale differenza di opinioni, riassunta da Rav Soloveitchik come segue: l’adempimento ad una mitzvà dovrebbe derivare da una norma estranea imposta all’uomo finito dall’infinita, imperscrutabile volontà di D‐ o, o questo adempimento dovrebbe derivare da un impulso interiore la cui realizzazione migliora la vita ed esalta la personalità? Questa dicotomia [è spesso espressa come la questione centrale] del concetto di “metzuvè veosè”, cioè se la ricompensa è maggiore per chi adempie una mitzvà come risultato di un imperativo o per chi la cui osservanza deriva dall’iniziativa personale. L’opinione di Rabbi Akiva esprime un approccio molto distinto a questa questione. Sostenere che la risposta era sì ad ogni comandamento, compresi quelli negativi, equivale a dire che l’intento era: “ci arrendiamo alla Tua volontà, accettiamo la norma, ci conformeremo ad essa”. Anche se i precetti negativi sono accettabili e sanzionati da qualsiasi società civile, richiedono comunque impegno e sottomissione a D‐o. Rabbì Akiba sostiene che la moralità non deve basarsi esclusivamente sulle capacità cognitive dell’uomo, poiché certi domini sono inaccessibili all’esplorazione e all’illuminazione morale umana. Tuttavia l’intera struttura della moralità crollerebbe se la società ne consentisse effettivamente la violazione. La visione di Rabbi Yishmael è diversa. Quando il popolo risponde “no” ai divieti, come “No, non uccideremo”, riconoscono che l’omicidio è sbagliato. In effetti, secondo Rabbi Yishmael, le persone già credono che l’omicidio sia sbagliato.
La Parola di D‐o conferma ciò che già sanno. Esiste, secondo questa opinione, una “legge morale naturale”, e anche questa fa parte della Rivelazione. L’interpretazione di Rabbi Akiva dell’accettazione della Torà è molto più ardua ed esigente: l’uomo va contro la sua natura, perchè non è necessariamente d’accordo con la dichiarazione di valore o il giudizio, eppure accetta la Parola di D‐o, la Sua autorità. La risposta del Popolo, “Sì” sia ai Comandamenti positivi che a quelli negativi, rimuove l’osservanza dalla sfera della moralità umana e la colloca esclusivamente nel regno dell’obbedienza, dell’acquiescenza al comando di D‐o. Quando spiega la ripetizione nel nostro versetto, Rashi tiene conto della realtà di quel particolare momento sul Monte Sinai. Lì, il Popolo ebraico “sperimenta” D‐o in prima persona. Nel contesto di un’esperienza così travolgente, la visione di Rabbi Yishmael è, per Rashi, quella più adatta: quando D‐o parla direttamente agli ebrei, come individui e come società, l’applicazione della logica e della moralità di ogni singolo Comandamento, positivo e negativo, è inevitabile. Tutto è illuminato, cristallino. In quel particolare, unico momento della storia, accettazione e obbedienza, pratica e teoria sono indivisibili, rispondere “no” o “sì” ai divieti non faceva differenza. D’altro canto, la spiegazione di Rabbi Akiva è più adatta alle generazioni successive, per le quali l’accettazone della Parola di D‐o e il rifiuto del relativismo morale sono il nucleo stesso della vera osservanza. Quando le parole non sono accompagnate da tuoni e fulmini, accettiamo la Legge anche quando la sua logica ci sfugge.
Il dono dei Dieci Comandamenti rappresenta un’esperienza unica ed un novità nel mondo antico che è così moderna da essere sempre attuale, tanto che il Decalogo è ancora oggi studiato, applicato e alla base di molte delle società che definiamo moderne. Quello che cambia nei secoli, è quello che è considerato accettabile dalla società. Il tipo di risposta che diamo alle mitzvot è fondante per la nostra vita., perché se applichiamo solamente la morale accettabile in un dato periodo storico non arriveremo mai ad aderire e a conoscere Anochì, D‐o stesso, e a comprendere l’importanza delle mitzvot, dei comportamenti corretti da assumere e del vero chesed che ci permettono di diventare persone migliori.