Nella parashà è scritto che Yitrò venne a sapere di “tutto quello che Dio aveva fatto a Moshè e a Israele, perché il Signore aveva fatto uscire Israele dall’Egitto” (Shemòt, 18:1). Yitrò venne a raggiungere Moshè nell’accampamento degli israeliti nel deserto. “Yitrò gioì per tutto il bene che il Signore aveva fatto ad Israele salvandolo dalla mano degli egiziani. E Yitrò disse: Benedetto sia il Signore che vi ha salvato dalle mani degli egiziani e del faraone, che ha sottratto il popolo dal dominio dell’Egitto” (ibid., 9-10).
Riguardo a quello che disse Yitrò, nel trattato Sanhedrin (94a) è detto: “Fu insegnato a nome di rabbi Pappeyas: È una vergogna per Moshè e per i seicentomila uomini adulti dei figli d’Israele che egli condusse fuori dall’Egitto, che non dissero: Benedetto, finché non venne Yitrò e disse: Benedetto il Signore”.
R. Eli Mansour, uno dei noti rabbini della comunità ebraica siriana di Brooklyn, nel numero di febbraio della rivista Community, chiede quale sia il motivo di questa critica. Questa critica appare infondata alla luce del fatto che i figli d’Israele intonarono la bellissima Cantica del Mare. Qual è il motivo della critica per non aver benedetto il Signore per essere stati salvati?
La risposta, afferma r. Mansour, la si può trarre da un scritto di r. Yitzchak Zeev Soloveitchik (Belarus, 1886-1959, Gerusalemme), che fu rav della città di Brisk (Brest Litovsk), sulla birkàt ha-gomèl, la benedizione che si recita quando si è liberati dalla prigionia, si torna salvi da un viaggio in mare o attraverso il deserto o si guarisce da una malattia. R. Soloveitchik afferma che Yitrò quando disse: “Benedetto il Signore che vi ha salvato” soddisfò l’obbligo di dire la birkàt ha-gomèl.
Infatti r. Yosef Caro (Toledo, 1488-1575, Safed) nello Shulchàn ‘Arùkh (O.C., 219:4) scrive che una persona che deve dire la birkàt ha-gomèl può soddisfare il suo obbligo quando un’altra persona dice per lui “Benedetto tu Signore, Dio nostro, Re del mondo che benefica (in ebraico “hagomèl”) coloro che Gli sono debitori (in ebraico “chayavìm”), che ti ha recato ogni beneficio” e lui risponde “Amen”.
I maestri nel Talmud criticano i figli d’Israele per non aver recitato questa benedizione, dicendo “che ci ha recato ogni beneficio”, prima di Yitrò.
R. Mansour aggiunge che r. David Segal (Ludmir in Volhynia, 1586-1667, Lemberg ora Lviv) autore del commento Turè Zahàv allo Shulchàn ‘Arùkh, fa notare che al fine di poter recitare la birkat ha-gomel per un altro, chi la recita deve provare il senso di gioia e sollievo dell’altra persona. E questo era il senso di gioia che sentì Yitrò quando nela Torà è scritto “Vayichàd Yitrò”, e Yitrò gioì. Egli gioì sentitamente come se fosse stato lui a ricevere tutto questo bene. Incidentalmente, nel siddùr tefillà della comunità di Milano, la birkàt hagomèl viene tradotta così: “Benedetto tu o Signore […] che benefichi anche quelli che sono colpevoli, e che a me pure recasti grandi benefici”. Le parole “sono colpevoli” contraddicono il significato dell’antico uso (minhàg) italiano. Infatti R. Yeshayahu Bassan (Verona, 1673-1739, Reggio Emilia) in un suo responso (n.5) pubblicato nell’opera Lachmè Todà, scrive che la parola “chayavìm” ha un doppio significato, e in questa benedizione, la birkàt hagomèl, va tradotta con “sono debitori” e non con “sono colpevoli”. E anche un minore che non ha raggiunto l’età delle mitzvòt (dodici anni per le ragazzi e tredici per i ragazzi), la può recitare perché dicendo “chayavìm” non intende nessuna colpevolezza nei confronti dei genitori (perché fino all’età delle mitzvòt non si viene puniti per le proprie trasgressioni e sono i genitori che sono responsabili per i figli minori), ma solo che siamo tutti debitori all’Eterno per quello che ci dà.