Siamo rimasti tutti costernati dinanzi al caso di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, i due giovani veneti protagonisti di un recente, terribile fatto di cronaca nera. Lui è accusato di aver ucciso a coltellate l’ex fidanzata nel giorno in cui lei avrebbe dovuto laurearsi; forse geloso dei suoi progressi negli studi l’avrebbe gettata ancora agonizzante in un dirupo. Dalle cronache sappiamo anche che questo non è affatto un caso isolato in Italia: per questo reato gravissimo è stato coniato negli ultimi anni il neologismo “femminicidio”. Di più. Altri termini vengono mutuati dall’inglese per situazioni meno estreme, ancorché non riferite necessariamente a un rapporto di coppia, come stalking (lett. “appostarsi”): si riferisce a chi mette in atto comportamenti persecutori che provocano nella vittima condizioni di forte ansia e stress psicologico come conseguenza del senso di dipendenza che l’aggressore vuole indurre. Stride il fatto che questi crimini appaiono moltiplicarsi nell’epoca dell’emancipazione femminile: forse accadevano anche in precedenza, ma nessuna trovava il coraggio di denunciarli? Sono una conseguenza, come per lo più si afferma, del regime patriarcale della società?
Esiste nelle nostre fonti una ferma condanna di questi gesti. Vediamo le cose con ordine. I casi più eclatanti di violenza contro donne nella Bibbia ebraica sono quello di Dinah (Bereshit 34) che portò allo sterminio degli abitanti di Shekhem da parte dei fratelli, stigmatizzato dal padre Ya’aqov; ma soprattutto quello della “concubina di Ghiv’ah”, raccontato nei capitoli 19-21 di Shofetim (Giudici). Per proteggere un suo ospite un abitante di Ghiv’ah nel territorio della tribù di Binyamin offrì alla folla di approfittarsi della concubina di lui, che venne violentata a morte. Il suo corpo fu fatto a pezzi e distribuito alle varie tribù affinché si rendessero conto dell’accaduto: per ritorsione esse mossero guerra a Binyamin che fu quasi completamente annientata, mentre era stato deciso che nessuno avrebbe dato la propria figlia in sposa a membri della tribù colpevole. Una conseguenza, commenta il testo, del fatto che al tempo “non c’era un re in Israel” a esercitare un’autorità.
La Mishnah (Bavà Qammà 1, 3) stabilisce che non c’è differenza di genere per quanto concerne il risarcimento di danni, che la donna sia colpevole o vittima. Ma è soprattutto con riferimento al matrimonio, l’unica forma di convivenza fra un uomo e una donna contemplata dalla Halakhah, che le fonti parlano chiaro: “L’uomo deve amare sua moglie come se stesso e onorarla più di se stesso” (Yevamot 62b). “Quest’ultima affermazione – commenta il rabbino inglese Louis Jacobs – e numerosi insegnamenti rabbinici simili certamente supportano la richiesta dei movimenti di emancipazione femminile che gli uomini trattino le donne come persone e non come oggetti sessuali”. Non solo. E’ qui stabilito il principio che nella coppia il rispetto è più importante dell’amore. Ciò non esclude affatto il romanticismo, ma lo inquadra affinché il sentimento, talvolta purtroppo frainteso, non degeneri in gesti pericolosi e mantenga invece nel tempo l’autenticità che tutti auspichiamo.
Nello specifico della violenza sulle donne, la letteratura rabbinica non lesina fonti, nello spirito più generale del divieto della violenza in genere e oltre. Fin dal Medioevo i Maestri d’Israel insistono sul fatto che certi abusi non trovano spazio nel mondo ebraico: per sottolineare la differenza effettiva rispetto agli altri popoli o non piuttosto per lasciarci capire che neppure gli Ebrei ne sono immuni? In un suo Responso (n. 81) il Maharam da Rothenburg scrive che “ogni figlio del Patto è tenuto a onorare sua moglie più di se stesso. Ritengo che si debba essere più rigorosi verso chi percuote sua moglie rispetto a chi percuote un’altra persona, perché rispetto a un estraneo non c’è obbligo di onore, ma verso la propria moglie sì. Picchiare la moglie è un comportamento non ebraico. Guai se lo facesse un figlio del Patto. Chi così si comporta deve essere scomunicato, allontanato, fustigato e multato con ogni forma di costrizione…”
In Francia – narra Louis Finkelstein nel suo “Jewish Self-Government in the Middle Ages”, New York, 1964, p. 70 – “R. Peretz cercò di stabilire una Taqqanah (disposizione rabbinica)… sulle percosse alle donne. Questo crimine quasi mai ha coinvolto gli Ebrei nel Medio Evo. Casi di maltrattamenti furono sottoposti a R. Simchah b. Shemuel e R. Meir b. Barukh… R. Peretz intese introdurre il principio della separazione senza divorzio: lei si libera dal vincolo matrimoniale, ma lui deve continuare a mantenerla”. R. Moshe Isserles nelle sue glosse allo Shulchan ‘Arukh (Even ha-’Ezer 154, 3) riporta come Halakhah tutta questa letteratura precedente e aggiunge che “è proibito percuotere anche una moglie cattiva… si deve presumere invece che tutte le donne siano buone”.
In ebraico moderno violenza si dice alimut, derivato dall’aggettivo alim che in aramaico significa semplicemente “forte”. Ma questa radice ha un senso originale più profondo: illem è il muto, colui che non sa, non può o non riesce a parlare. E alummah è il covone di grano: uno spago che stringe le spighe impedendo loro, per così dire, di esprimersi. Qualsiasi vita di relazione comporta prima o poi divergenze di vedute e persino contrasti. Il confronto verbale pacifico deve sempre rimanere la via di soluzione. Violenza significa negare l’opzione di parlarsi: l’esercizio della facoltà che in ultima analisi differenza l’uomo dall’animale (Targum Onqelos a Bereshit 2, 7).