“Giacobbe partì da Beer Sheva e se ne andò verso Charan” (Genesi 28:10).
Giacobbe, dopo la questione della benedizione carpita con l’inganno, ma sia benedetto lo stesso, segue l’ordine dei genitori e parte per andare dal fratello della madre, sia per salvarsi dall’ira del fratello Esaù, sia per trovare una moglie idonea per lui per perpetuare la stirpe di Abramo. Giacobbe esce quindi dalla dimensione della certezza, la sua casa, la sua famiglia, il suo ambito culturale, il suo paese e si dirige verso l’ignoto che lo attende nella città di Charan. È per questo che il Signore, per rafforzarne lo spirito, rassicura Giacobbe con la promessa di un futuro sicuro: “La tua discendenza sarà come la polvere della terra, e ti diffonderai…” (Genesi 28:14).
La polvere della terra, come le stelle del cielo e la sabbia del mare, sono le classiche espressioni che il Signore usa per descrivere ai patriarchi il “futuro” popolo ebraico.
Ma se analizziamo attentamente queste espressioni da un punto di vista puramente numerico, sembrano assolutamente delle esagerazioni. In effetti, è noto che numericamente il popolo ebraico, oggi dopo seimila anni, non sia così numeroso (e non lo è mai stato). Inoltre, anche se volessimo considerare questo punto di vista numerico, cosa vuol dire “e ti diffonderai”? Quando un popolo è così numeroso non ha bisogno di diffondersi, è già ben diffuso.
Allora, per capire il messaggio della promessa divina, dobbiamo cambiare piano di ragionamento.
La terra è da sempre considerata la base della vita fisica di tutti gli esseri viventi. Tutto germoglia da essa, come sostentamento per la vita, e tutto si ricerca in essa per conoscere l’evoluzione della vita e anche la storia dell’umanità.
I discendenti di Giacobbe saranno allora come “la polvere della terra”, non dal punto di vista numerico e fisico, ma da quello spirituale e del pensiero. E nonostante sia difficile e problematico per gli altri popoli riconoscerlo, il popolo ebraico è stato l’humus da cui sono germogliate le culture occidentali. Ma, prima ancora di pretendere dagli altri questo riconoscimento, bisognerebbe che noi stessi dimostrassimo seriamente di conoscere il nostro humus, non quelli fatto dai ceci che accompagna i nostri pranzi, ma quello culturale, per proteggerci dal perenne pericolo dell’assimilazione.
Un pericolo dal quale proprio Giacobbe, nel brano di questa settimana, ci insegna a riconoscerne i segnali.
“E vide Giacobbe il volto di Labano che non appariva a lui più come una volta. E allora l’Eterno disse a Giacobbe: torna subito alla terra dei tuoi padri e alla tua patria e Io sarò con te” (Genesi 31, 2-3).
Quando Giacobbe uscì da Beer Sheva pernottò a Bet El e fece il sogno di una scala piantata in terra con l’estremità che raggiungeva il cielo; il Signore era in cima alla scala e gli angeli salivano e scendevano da essa. Un sogno meraviglioso che accompagnò e sostenne Giacobbe nel suo esilio, insieme alla promessa divina prima ricordata.
Dopo anni di permanenza presso lo zio Labano, Giacobbe fece un secondo sogno: alzò gli occhi e vide caproni da monta striati, punteggiati e maculati. Un angelo gli apparve in questo nuovo sogno e gli disse di essere lo stesso di Bet El – luogo del sogno della scala – e che ha visto cosa gli ha fatto Labano. In realtà, direttamente, Labano non gli aveva fatto nulla, non aveva fatto altro che essere sé stesso. Idolatra, ingannatore, arrivista, manipolatore, insomma una persona lontana anni luce dalla cultura e dall’educazione di Abramo e Isacco con cui Giacobbe aveva nutrito a sua anima.
La perdita dell’identità ebraica, preoccupazione sempre presente nella nostra storia, può essere forzata, volontaria o riflessa, e ciò che è accaduto a Charan al nostro patriarca, che vide trasformati addirittura i suoi sogni, è l’esempio di un’assimilazione “asintomatica”.
E proprio nella condizione di assenza di sintomi dell’assimilazione, è la stessa Torà che ci viene in aiuto e ci insegna, attraverso l’esperienza di Giacobbe, un parametro importante per configurare il nostro livello di attenzione: a volte, quando non si vede più la “stranezza” altrui, non vuol dire che a cambiare siano stati gli altri, forse siamo noi ad esserlo.
Ma anche sull’orlo del baratro, il Signore è li a darci il Suo sostegno e il Suo segnale per ridestarci da quel torpore: “torna subito alla terra dei tuoi padri e Io sarò con te”.
In questo senso le parole di Giacobbe che sembrano essere un auspicio fiducioso, in realtà sono una vera e propria profezia: “Giacobbe fece un voto: se il Signore sarà come, mi proteggerà, mi darà pane da mangiare e abiti da vestire. E allora tornerò “beshalom – in pienezza” alla casa di mio padre e l’Eterno sarà per me il Signore” (Genesi 28:20-21).
RaSH”Y (1040-1105) spiega così l’espressione “Beshalom”: (lontano) dal peccato; che (in quel luogo) non imparerò dal comportamento di Labano.
Baruch Ha-Levi Epstein (1860-1941), spiega come il nostro patriarca, attraverso il suo voto, intenda affermare che la protezione fisica e la concessione delle sue necessità materiali (cibo e vestiti) dipendono dall’azione e responsabilità divina, mentre il rimanere integro dal peccato e, di conseguenza, il ritorno alla casa paterna, sono determinati dalla responsabilità e dal comportamento dell’individuo. Perché, come insegnano i saggi nel Talmud (Niddà 16b): “tutto dipende dal cielo tranne che il timore del cielo”,
Shabbat Shalom!