Ed avvenne, dopo questi fatti, che D-o mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo!” Ed egli rispose: “Eccomi” (Genesi 22:1). Con questo versetto si apre il capitolo del libro della Genesi in cui leggiamo della decima e ultima prova cui fu sottoposto il patriarca Abramo: la richiesta divina di offrire Isacco come sacrificio di olocausto. Sembra esserci un non detto nel testo della Torah, che fa da sfondo a questo episodio biblico. Questa idea sorge per la presenza dell’incipit “Ed avvenne, dopo questi fatti”. Quali erano questi “fatti” e, soprattutto, quale era il loro significato?
Il Midrash Tanchuma insegna che Abramo aveva avuto alcuni pensieri negativi sull’attributo del giudizio divino. Abramo era preoccupato di aver esaurito la sua ricompensa in questo mondo, che non ne avrebbe più avuta alcuna nel mondo a venire per il fatto di essere stato salvato dalla morte. Come la stessa Torah insegna nel libro del Levitico, una persona che avesse peccato nell’ambito del pensiero debba, per riparazione, offrire un sacrificio di ‘Olah, di olocausto Con questo si spiega, almeno, il motivo della forma del sacrificio richiesto dal Signore.
Ma il Signore, potrebbe punire davvero per i peccati del pensiero, senza che ci sia il peccato di azione?
La Mishnah (Nazir 23a) stabilisce che se una donna ha fatto voto di diventare un Nazir (astensione dal bere vino, tagliare i capelli e contatto con i morti) e suo marito ha annullato il voto senza dirglielo, e lei avesse deciso di violare i divieti che si era assunta di osservare, non è passibile di alcuna punizione. Tuttavia, la Ghemarah continua a discutere la questione della necessita di espiazione della colpa, perché la donna aveva comunque pianificato di violare il voto fatto. La conclusione della discussione è che solo per i peccati del pensiero non c’è punizione, anche se, rimane la necessità di una rettifica.
Perché, allora, Abramo fu “punito” per i suoi pensieri e dovette legare suo figlio sull’altare?
La risposta è che un uomo del livello di Abramo, anche per aver avuto dei pensieri che non sono del livello che ci si aspetta da lui, deve pagarne un prezzo.
Secondo la lente focale della Torah, le persone, che hanno grandi responsabilità, devono stare molto attenti anche ai loro pensieri. A conferma di questo, c’è un altro racconto nel libro della Genesi, anch’esso introdotto con le parole “Ed avvenne, dopo questi fatti”.
Come il suo bisnonno, anche Giuseppe fu messo alla prova, non con dieci prove diverse ma con la stessa prova, giorno dopo giorno. La moglie di Potifar desiderava Giuseppe e tentò ripetutamente di sedurlo ma lui si rifiutò tutte le volte (Genesi 39:7-10). Tuttavia, un versetto riguardante uno di quei giorni, sottolinea che la casa era per lo più vuota e che Giuseppe “entrò in casa per fare il suo lavoro” (Genesi39:11). I Maestri, intuiscono che questo linguaggio insolito voglia dire qualcosa e Rabbi Yochanan propone l’idea che quel giorno, Giuseppe pensò di unirsi alla moglie del suo padrone e commettere così una grave colpa.
Alla fine Giuseppe vinse i suoi desideri e non peccò, ma il pensiero era stato comunque fatto.
E per questo pagò un caro prezzo: la moglie di Potifar offesa per l’ennesimo rifiuto, accusò Giuseppe di averla aggredita e per questa menzogna fu condannato e incarcerato per dieci anni.
Questo episodio conferma il principio secondo cui uno Tzaddik, il giusto debba pagare per un’azione che è inferiore rispetto alla sua levatura.
I giusti, o coloro che hanno ruoli di responsabilità a vari livelli, devono stare molto attenti a ciò che pensano e, a maggior ragione, anche a quello che dicono, Shabbat Shalom!