“ Vaidabber Elohim el Moshè va jomer elav anì A’ – e parlò D-o a Mosè dicendogli io sono il Signore”
E’ un modo molto lontano dall’usualità quello di iniziare un brano di Torà in questo modo!
Nella parashà di Shemot, che abbiamo letto la settimana scorsa, il Signore ha rivelato a Mosè il Suo nome.
Un nome diverso da quello con cui si era abituati a conoscerLo ai tempi dei Patriarchi; un nome che basa la sua radice nell’essenza del verbo essere, alla forma infinita.
E’ un nome con cui il Signore viene conosciuto soltanto dal popolo di Israele e che la Sua pronuncia precisa era conosciuta soltanto dalla dinastia dei Cohanim ed invocata esclusivamente dal Cohen gadòl – il Sommo Sacerdote, nella parte più interna del Tempio dove solo lui aveva accesso, nel giorno del Kippur.
E’ una forma di avvicinamento al Signore, quella suggeritaci dal primo verso della parashà che leggeremo questo shabbat, che parte dal generico ed entra nella particolarità.
Ossia: D-o appartiene a tutti gli esseri del Creato, ma ognuno di essi lo identifica con una nome diverso, che è più o meno vicino alla Sua perfezione.
Nella tradizione esegetica della Torà, capita molte volte di passare dal kelal – la genericità alla particolarità – il perat.
Il nome Elo-him tradotto comunemente D-o è il nome della Divinità nelle Sue potenze molteplici – il D-o della Creazione, conosciuto da tutti gli esseri del Creato. Il termine Elo-him deriverebbe da una radice araba hillahà che significa “potenza”; la“potenza creatrice”.
Il nome Tetragrammato, quello che noi pronunciamo “Ad – onai” che letteralmente significa “mio Signore” è dato da conoscere soltanto al popolo di Israele che è una parte ristretta del Creato. Ma la vera pronuncia di quel Nome, era conosciuta soltanto da una parte ristretta del popolo che erano i Cohanim, ma poteva essere pronunciato solo dal Sommo Sacerdote che era l’unico esponente della casta sacerdotale, il quale lo invocava in un luogo ristretto, appartato, che era il Kodesh ha kodashim, la parte più interna del Tempio di Gerusalemme, dove solo lui poteva avere acceso in unico giorno all’anno – kippur.
Il nome Elo-him, secondo l’interpretazione cabalistica, indica, come già menzionato sopra, la potenza divina ed è per questo che i Maestri della cabalà hanno dato a quel nome l’appellativo di “middat ha din – attributo di giustizia”, mentre al Tetragramma è stato dato l’appellativo di “middat ha rachamim – attributo di misericordia”.
Detto questo, possiamo finalmente spiegare questa inconsueta apertura della parashà:
il popolo di Israele si trova in una condizione di pesante schiavitù, oppresso dal faraone.
Il Signore, prima di liberarlo definitivamente deve fare giustizia di tutto il male fattogli fino a quel momento. Per questo motivo, non può che usare l’attributo di “più forte”per eccellenza – la middat ha din.
Mentre per gli ebrei sottomessi e oppressi dovrà sicuramente usare la middat ha rachamim –l’attributo di misericordia.
La somma numerica delle lettere che compongono la frase “anì A’ – Io sono il Signore” è pari a 87, mentre la somma delle lettere che compongono il nome Elo him è 86.
Da ciò si deduce che la misericordia divina è superiore, anche se solo di un numero alla Sua giustizia; il numero uno viene indicato in ebraico dalla lettera “alef”.
Nella spiegazione data la scorsa settimana, abbiamo fatto notare quanta poca differenza vi è dalla parola“golà – diaspora” alla parola “gheulà – redenzione”.
La differenza sta proprio nella alef; cioè quando il popolo è unico e simboleggia l’unicità divina, nemmeno il faraone, riuscirà a trattenere in diaspora il popolo ebraico, provocando l’ira divina verso chi perseguita, mentre verso chi è perseguitato la Sua misericordia.
Shabbat shalom