Parashà di Vayishlakh
A prima vista il racconto della lotta tra Giacobbe e l’uomo che lo assale di notte sembra non avere nessun rapporto con quanto narrato in precedenza: finiti i preparativi per “accogliere” Esaù con doni, preghiere e guerra, è logico aspettarsi che il racconto continui con le parole: “Giacobbe alzò gli occhi e vide ed ecco Esaù che arrivava, e con lui quattrocento uomini” (Genesi 33,1).
Scrive rav Hanan Porat (Me’at min ha – or, Bereshit pag. 263):
Il racconto della lotta con l’uomo interrompe il normale flusso del discorso e si propone di informarci su cosa stava accadendo dietro le quinte, e cioè che prima dell’incontro con l’Esaù di carne e sangue, era necessario che Giacobbe lottasse e si misurasse con שרו של עשו Sarò shel ‘Esav, l’angelo tutelare di Esaù, un’immagine metaforica per indicare l’essenza dei valori che esso rappresenta (come è spiegato in Daniele 10: 13-20). Da Esaù discenderà poi ‘Amalek (Genesi 36, 12) che rappresenta l’essenza del male che bisogna combattere.
Vediamo il testo e il contesto e facciamo qualche domanda:
E’ scritto (Genesi 32: 22 – 24):
L’offerta passò davanti a lui e lui quella notte dormì nell’accampamento. Si alzò quella notte e prese le sue due mogli e le sue serve e undici suoi figli e attraversò il guado di Yabbok. Li prese e fece passare loro il torrente e trasferì ciò che gli apparteneva. Giacobbe rimase da solo, e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’alba.
Mentre secondo Rashbam tutta questa manovra di Giacobbe, aveva lo scopo di preparare la fuga per non incontrare Esaù, rav Porat nota che in realtà accade proprio il contrario: Giacobbe arrivava da nord (Ghilad) ed Esaù arrivava da sud (Canaan Beer Sheva), quindi con questa manovra i due fratelli si avvicinano. Lo scopo di Giacobbe non sembra dettato dalla decisione di voler fuggire, ma dalla volontà e dalla consapevolezza che deve affrontare Esaù. L’ipotesi dei Maestri che Giacobbe torni indietro per riprendere alcuni oggetti che aveva dimenticato non è convincente, e soprattutto nota Porat che tutto ciò non spiega la sottolineatura del testo e cioè le parole “Giacobbe rimase da solo”. Il fatto di essere rimasto solo è la condizione necessaria per Giacobbe per raccogliere le enormi forze che albergano nella sua anima: solo ora, raccolte tutte le forze, egli può entrare in Terra d’Israele e confrontarsi vis a vis con Esaù e ciò che rappresenta, e ricevere la sua benedizione. E ricordiamo che la benedizione di Abramo consiste proprio nel diritto su Erez Israel.
Uno dei temi che viene affrontato dai commentatori è se l’episodio narrato sia realmente accaduto o se si tratti piuttosto di un sogno o di una visione. Maimonide sostiene si sia trattato di un sogno, mentre Nahmanide ritiene che l’evento avvenne realmente, perché altrimenti non si spiegherebbe il fatto che era zoppicante. Abravanel e Ralbag sostengono che in pratica la zoppia poteva essere una sorta di effetto psicosomatico dovuto al sogno (e anche alle fatiche del giorno precedente per gli attraversamenti ecc). Comunque siano andate le cose, ciò che importa è la conseguenza della lotta (virtuale o reale):
Leggiamo ora Genesi 32, 26 – 32:
(Quando l’uomo) vide che non riusciva a vincerlo, lo toccò nell’estremità del femore: nel combattere con lui, il femore di Giacobbe si lussò. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’alba“, e (Giacobbe) disse: “Non ti lascerò andare se prima tu non mi avrai benedetto!” . Quello disse: Qual è il tuo nome?” Ed egli rispose: “Giacobbe”. Disse (ancora): “Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con Dio e con gli uomini, ed hai vinto”. E Giacobbe gli chiese: “Deh, dimmi il tuo nome”. E quello rispose: “Perché mi chiedi il mio nome?” E lì lo benedisse. E Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, “perché”, disse, “ho veduto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata”. Il sole si levava mentre egli ebbe passato Peniel; e Giacobbe zoppicava con la sua coscia (Genesi 32, 26 – 32).
Rav Porat osserva che tutto il brano è pieno di codici che vanno interpretati: il fatto che l’uomo lo colpì all’anca, cosa che lo rese zoppo, è il segno che Giacobbe dovrà subire diversi colpi e persecuzioni che lasceranno un danno che sarà permanente per il popolo d’Israele. Anche l’angelo non può cantare perché non è ancora arrivata l’ora: infatti, alle parole dell’angelo che chiede di lasciarlo andare perché è sorta l’alba, Giacobbe avrebbe detto all’angelo (TB Hullin 91a): perché hai paura del mattino? sei un rapitore o un giocatore d’azzardo? Gli rispose: Sono un angelo e dal giorno in cui sono stato creato non è arrivato fino ad ora il momento di dire un canto, e quando sorgerà finalmente il mattino della redenzione e l’umanità sarà composta da persone in piena sintonia con Yeshurùn, allora saranno Yesharìm (rette) e potranno cantare insieme un nuovo canto (shir).
Basandosi anche sul midrash, Hanan Porat osserva che in realtà vi sono tre stadi nello sviluppo della personalità di Giacobbe:
il primo è quello rappresentato dal nome Giacobbe, come dice Esaù Vayaakeveni ze pa’amaim, mi ha ingannato per ben due volte: una volta nel modo in cui gli ha carpito la primogenitura e una seconda quando ha ingannato anche il padre e ha defraudato Esaù della benedizione, vestendo i panni del fratello;
il secondo stadio è quello di Israèl, che ha combattuto non una sola volta, ma dato che Isra indica il futuro, che combatterà sempre contro il male, ovunque esso si manifesterà;
il terzo stadio sarà quello di Yeshurùn. E’ scritto: “Non vi è come il Dio di Yeshurùn” (Deuteronomio 33, 26): Rabbi Berechià a nome di Rabbi Simon ha detto: E’ scritto (Deut. 33, 26) “Non c’è come il Dio di Yeshurun”(lett. Nessuno può essere paragonato al Dio di Israèl). Ma chi è come Dio? Yeshurùn, il vecchio (cioè Giacobbe) è come Dio. Così come per il Santo, benedetto sia, è scritto “il Signore sarà elevato da solo in quel giorno (Isaia 2, 11), anche per Giacobbe è scritto: Giacobbe rimase solo.
In che senso Giacobbe è simile a Dio? Il midrash gioca sul significato da dare alla parola Yeshurùn (un vezzeggiativo per Israèl) e la collega al verbo Yashàr – comportarsi con rettitudine: quando il mondo sarà composto solo da persone rette, Giacobbe – Israèl avrà compiuto la sua missione. L’idea di una corrispondenza tra Israèl e Dio è rappresentata dal fatto che entrambi sono unici e svolgono la loro missione in isolamento. Questa solitudine è ben descritta dal profeta non ebreo Bil’am che afferma: Ecco questo è un popolo che dimora da solo (Numeri 23, 9). Questo rapporto di reciprocità è ben rappresentato dalle parole che diciamo nella preghiera del sabato pomeriggio: Tu sei unico e il tuo nome è unico, e chi è come il tuo popolo Israele, una nazione unica nella terra.
A questo episodio, come a ognuno degli episodi narrati nella Torà, possiamo applicare il concetto “Maasè avòt simàn labanìm”, cioè le azioni dei patriarchi sono un simbolo per i figli. Giacobbe sulle rive del Yabbok è alla ricerca della sua identità: al ritorno da Haran deve decidere chi vuole veramente essere: la tentazione di travestirsi da Esaù e assimilarne la cultura (come nel racconto biblico) è molto forte: è quindi necessaria una continua dialettica per non perdere l’identità ereditata da Abramo e se possibile svilupparla, andando anche oltre.
Il grande romanziere Shai Agnon, premio Nobel per la letteratura per il 1966, riferisce in “Attèm reitèm” un insegnamento di una Maestro basato sulla Ghematria (il valore numerico delle parole) dei nomi יעקב Yaakov e ישראל Israel. Il primo vale 182, il secondo 541: la differenza tra i due nomi è 359 che è la Ghematria di שטן, la tentazione, l’istinto. In quell’incontro scontro-notturno con Sarò shel Esav שרו של עשו, l’angelo tutelare di Esaù, Giacobbe conquista il titolo di Israèl, un titolo che può sempre perdere e tornare ad essere Yaakov, se prevarrà la tentazione di essere come Esaù.
In ogni momento per ognuno di noi il pericolo di perdere la propria identità, di tornare a essere Yaakov e Esaù, è molto forte: in questa lotta si tratta di dominare l’istinto e cercare di ritrovare la strada persa. La Torà ci dice che, dopo un lungo e tortuoso cammino, Giacobbe comunque riuscirà a rimanere se stesso e arriverà alla meta shalèm, portando dentro di sé tutte le esperienze che lo hanno reso più completo e meritare il titolo di Yeshurùn.
Scialom Bahbout
Rav Hanan Porat (1943 – 2011).
Educatore, membro del parlamento d’Israele, scrittore. Si trasferì con i genitori da kfar Pines nel Kibbuz Kfar Ezion e nel 1948 scampò alla strage dei membri del Kibbutz perpetrata dalla Legione Giordana, in quanto i bambini erano stati fatti evacuare per tempo. Ha studiato nelle Yeshivot di Kfar Haroè, Kerem Be-Yavne e Merkaz harav dove ha ricevuto la semikhà da rav Shapira (rabbino capo di Israele). Dopo la Guerra dei Sei giorni è tornato a Kfar Ezion per ricostruirla. Ferito nella Guerra di Yom Kippur a Suez. Molto attivo nel dialogo tra religiosi e laici attraverso il progetto Ghesher (ponte). Ha fondato le Yeshivòt di Har Etzion e Beth Orot (assieme a rav Beni Elon). Ha partecipato alla vita politica come parlamentare. Tra i suoi scritti i volumi “Me’at min ha-or” (un po’ di luce), sulle parashoth, dove al commento associa anche testi della poesia ebraica collegati al testo della Torà, I miei fratelli io cerco (sul rapporto tra laici e religiosi) e commenti a varie parti della Bibbia e alla Haggadà di Pèsach.