“Isacco supplicò l’Eterno per sua moglie, perché ella era sterile. L’Eterno lo esaudì, e Rebecca, sua moglie, concepì” (Genesi 25:21). Tra le questioni della primogenitura/bekhorah e della benedizione/berakhah che coinvolge i due figli gemelli di Isacco, la Torah racconta quello che probabilmente dovremmo considerare come il primo caso di antisemitismo, almeno secondo la narrazione biblica.
Come ai tempi di suo padre Abramo, ci fu un periodo di grave carestia nella terra di Canaan ma, contrariamente a quanto successo ad Abramo che era sceso in Egitto, Dio ordina a Isacco di rimanere nella terra di Canaan e di stabilirsi tra i Pelishtim/Filistei.
I Filistei non furono benevoli nei suoi confronti, anzi lo detestarono e lo cacciarono dai loro territori. Un punto nodale dei contrasti, era il gruppo di pozzi scavati da Isacco. Questi pozzi erano stati effettivamente scavati anni prima da suo padre Abramo, ma dopo la sua morte, i Pelishtim li riempirono di terra così da non poter essere usati. Isacco li scavò di nuovo e i Pelishtim lottarono contro di lui per questi pozzi.
Abramo, aveva portato in Canaan una nuova idea nel mondo, il concetto di monoteismo etico, la fede in un unico Creatore, nella moralità, nella responsabilità verso le altre persone, nella gentilezza e nella compassione. I Pelishtim decisero di “riempire i pozzi” perché, con quel gesto, intendevano trasmettere il messaggio che gli insegnamenti di Abramo erano finiti, asciugati e quindi vani. Ma Isacco, ripercorse le vie tracciate da Abramo e continuò a scavare e non si arrese mai, nemmeno di fronte all’ostilità.
Anche ai nostri giorni ci troviamo di fronte a una spaventosa ondata di antisemitismo e Isacco questa settimana ci vuole ricordare che dobbiamo essere forti e risoluti, come lui, e continuare a “scavare i pozzi” dei nostri padri e portare avanti con orgoglio la nostra eredità e le nostre tradizioni.
Ma c’è anche qualcos’altro che dobbiamo fare.
I versi di apertura del brano della Torah di questa settimana, raccontano che Isacco e Rebecca attesero vent’anni prima di avere dei figli. Durante quegli anni, la Torah scrive che “Isacco pregò intensamente il Signore”, finché non ottenne finalmente la risposta tanto attesa della gravidanza di Rebecca.
I commentatori sottolineano che la Torah, in questo caso, usi una parola insolita, “waietar”, per indicare la preghiera di Isacco. Conosciamo altre parole, come techina/supplica baqashah/richiesta e tefillah/preghiera. Cosa significa dunque il termine “waietar”?
Rashy spiega che la parola indica meglio di tute le altre l’intensità e la continuità della preghiera. Ciò significa che Isacco non si è limitato ad ottemperare ad un dovere. Ha implorato, e continuato ad implorare sempre di più. E poi ancora e ancora. Continuava a chiedere, implorando, piangendo e supplicando.
Il nome di Isacco (Ytzchaq/יצחק) ha come valore numerico 208, quello di Rebecca (Rivka/רבקה) 307 e la loro somma equivale 515. Questo è lo stesso valore della parola waetchanan/ואתחנן/ho supplicato, usata da Mosè per spiegare quanto supplico, e con quale intensità, quando chiese al Signore di poter entrare nella Terra di Israele. Mosè continuò a supplicare e supplicare, senza fermarsi finché Dio stesso gli intimò di fermarsi (“non continuare a parlarMi di questa cosa”; Deuteronomio 3:26).
È così che Isacco e Rebecca hanno pregato per avere la benedizione di un figlio. Hanno implorato, hanno supplicato, hanno pianto e non si sono mai fermati.
Si racconta la storia di un rabbino, che stava passeggiando con i suoi allievi quando si imbatterono in un bambino che piangeva. Il rabbino si inginocchiò per chiedere cosa c’era che non andava. Il bambino spiegò che lui e i suoi amici stavano giocando a nascondino, ed era toccato a lui nascondersi e i suoi amici non lo hanno mai trovato.
“Allora, qual è il problema?” chiese il rabbino. “Non è quello che vuoi che accadesse? È così che si gioca a queto gioco!”.
“Sì, disse il bambino, ma alla fine hanno smesso di cercarmi. Ed è per questo che sono triste”.
Il rabbino si rivolse ai suoi allievi e disse che questo esempio valeva anche per il nostro rapporto con il Signore. A volte Dio si nasconde, per ragioni che non possiamo conoscere, ci porta davanti sfide difficili, situazioni in cui sembra che Lui non sia qui per aiutarci. Ma ciò che Dio vuole in questi momenti, spiegò il rabbino, è che continuiamo a cercarLo, senza arrenderci mai. Dobbiamo continuare a implorare, senza sosta, finché Lui finalmente non risponde, o meglio, finché non riconosciamo la Sua risposta.
Questo è ciò che serve anche adesso. Abbiamo bisogno di waietar – di continuare a chiedere e supplicare. Il Signore vuole che continuiamo a cercare, a supplicare, finché non Lo troviamo, sarà allora che capiremo interpretare il Suo aiuto da usare per “fare” quello che dobbiamo per portare al nostro popolo la pace e la tranquillità che desideriamo da così tanto tempo, Shabbat Shalom!
