“Farai anche una lamina d’oro puro, e su di essa inciderai, come si incide sopra un sigillo: Santo all’Eterno” (Esodo 28:36). Uno dei paramenti più particolari indossati dal Sommo Sacerdote era lo Tzitz, una placca d’oro puro posta sulla fronte, sulla quale era incisa la frase “Kodesh l’Hashem/Santo all’Eterno”. (Questa scritta si può ritrovare sulla parte superiore di molte Aronot haqodesh, le arche che nelle Sinagoghe custodiscono i rotoli della Torà).
Nel Talmud (Shabbat 63b) si racconta che queste parole dovevano essere scritte su due righe, sulla superiore il nome “Eterno” e in quella inferiore “Santo a”. Rabbì Eliezer, invece, testimoniò di aver visto lo Tzitz a Roma – tra gli arredi del Tempio saccheggiati – e l’incisione era fatta su una linea singola.
Perché la frase “Santo all’Eterno” dovrebbe essere divisa in due righe? E, se l’iscrizione doveva essere così, perché lo Tzitz visto da Rabbì Eliezer portava la scritta su una sola riga?
Per rispondere a queste domande, bisogna fare una premessa. La tradizione ebraica, ci invita a considerare il mondo come se fosse diviso in due ambiti: Kodesh/sacro e Chol/profano. La Torà ci rende profondamente consapevoli di questa dicotomia e dell’attrito tra questi ambiti, a tutti i livelli dell’esistenza: nelle azioni come nei sentimenti, nei pensieri e nelle aree di studio e competenza. Il conflitto tra sacro e profano esiste sia nella sfera privata sia in quella pubblica.
Esiste, tuttavia, un terzo regno, persino superiore al Kodesh/sacro: il livello del Kodesh Hakodashim/Santo dei Santi. Questa è la vera fonte della Santità e si eleva sia su Kodesh/sacro sia su Chol/profano che, anche se ci appaiono contraddittori e in contrasto, in realtà ognuno completa e sostiene l’altro. Il sacro dà senso al profano che, senza il sacro sarebbe perduto, senza direzione o scopo. Il profano dà forza e sostanza al santo che, senza di esso, non avrebbe nulla da raffinare ed elevare.
Il Kodesh Hakodashim/Santo dei Santi, non si raggiunge solo attraverso le interazioni complementari dei due livelli inferiori di sacro e profano, ma ne rivela la fonte comune di elevata santità che risiede in essi. In effetti, il Kodesh Hakodashim/Santo dei Santi è così tanto più alto degli altri due regni che, se visto da tali altezze, le differenze tra il sacro e il profano non sono più percepibili.
La tradizione orale, che afferma che il nome di Dio era inciso su una riga superiore sopra le parole “Santo a”, vuole indicare che il nome di Dio appartiene al mondo superiore del Kodesh Hakodashim/Santo dei Santi. Il mondo superiore rappresentato dal Nome di Dio, riflette una visione ben oltre le apparenti contraddizioni tra sacro e profano, e per questo non può essere scritto sulla stessa riga di “Kodesh le/Sacro a”.
Questa prospettiva elevata è, tuttavia, solo teorica. Nel nostro mondo, è fondamentale saper distinguere tra Kodesh/sacro e Chol/profano. Lo sviluppo morale dell’umanità dipende dalla “havdalah”, una chiara consapevolezza e capacità di discernimento tra ciò che è sacro e ciò che non lo è. Non solo, se non manteniamo separate queste due aree e assicuriamo che ognuna mantenga la propria indipendenza, entrambe ne soffriranno. La mancanza di chiari confini tra loro, ostacola notevolmente il progresso umano. Ad esempio, la fredda analisi accademica e la dissezione razionale dei soggetti della Torà possono lasciarli senza vita e smembrati. L’invasione religiosa in aree di studio secolari, d’altra parte, può ostacolare il progresso scientifico.
Ecco perché Rabbì Eliezer testimoniò che la scritta del nome di Dio era stata abbassata, per condividere lo stesso livello di “Kodesh le/Santo a”. Lo scopo del cambiamento, forse, era creare una allegoria che evidenziasse la necessità, ora vitale, di saper distinguere e tenere separato il sacro dal profano.
La placca sulla fronte del Sommo Sacerdote, simboleggia dunque la capacità di elevare i pensieri per discernere tra sacro e profano e, grazie a questo processo, accedere alla realtà unificata del Kodesh Hakodashim/Santo dei Santi.
Shabbat Shalom!