Tempio di via Eupili – Milano
Le Parashiot di Tazria e Metzora discutono a lungo degli effetti della tzara’at. La Torà delinea nei minimi dettagli questa misteriosa malattia e i passi da compiere per la sua diagnosi e cura. Cos’è esattamente la tzara’at? Questa afflizione è una malattia naturale, fisica o un fenomeno soprannaturale? Perché la Torà dedica così tanto spazio alla descrizione di questa malattia?
Questa malattia dà luogo a un’ampia serie di osservazioni tra i Chachamim. Da una parte si trovano coloro che vedono la tzara’at come una malattia fisica contagiosa con un alto potenziale di diffusione. L’Abravanel spiega la preoccupazione della Torà per l’abbigliamento colpito in termini naturali. A differenza di materiali resistenti come il metallo, i vestiti assorbono quanto prodotto dal nostro corpo. La Torà è, quindi, preoccupata che la tzara’at si diffonda da un metzora alle sue vesti e, per prevenire un ulteriore contagio, tutte le macchie sospette devono essere esaminate. Il Meshech Chochma afferma che la stessa cura della malattia è prova della sua natura trasmissibile. Il metzora deve isolarsi e avvisare attivamente della sua condizione. Qualsiasi interazione fisica è estremamente pericolosa. All’estremità opposta ci sono Chachamim come Rav Hirsch che sottolineano alcune incoerenze con le malattie trasmissibili: Il Kohen diagnostica la tzara’at basandosi solo sull’esame di quelle parti del corpo che può facilmente vedere. Quando si sospetta la tzara’at in un’abitazione, il Kohen deve rimuovere tutto dalla casa prima di esaminarla. Se la tzara’at fosse una malattia trasmissibile, una tale procedura esporrebbe a materiale potenzialmente infetto. Se queste afflizioni non sono malattie naturali, cosa sono? Quale messaggio sta inviando D-o attraverso questa malattia?
Il Talmud elenca, a nome di Rabbi Yonatan, sette peccati che causano la tzara’at: parola malvagia o dannosa, omicidio, spergiuro, immoralità sessuale, arroganza, rapina e avarizia. I Chachamim collegano la tzara’at alla calunnia o alla parola malvagia. Entrambe queste azioni sono considerate gravi trasgressioni. I Chachamim trovano supporto per questo legame in una serie di indizi: Il metzora può essere scomposto nelle parole motzi shem ra (calunnia). Moshe viene temporaneamente colpito con la tzara’at quando dubita della volontà degli ebrei di rispondere alla chiamata di D-o. Miriam viene punita con la tzara’at quando diffama suo fratello Moshe. La risposta pratica alla tzara’at si traduce in una punizione adeguata al crimine. Il metzora deve isolarsi dalla società perché le sue parole creano distanza. Le offerte di volatili portate alla fine del periodo di isolamento rispecchiano la natura del peccato. Il metzora ha ferito il prossimo attraverso le “chiacchiere” e la sua purificazione avviene per mezzo di uccelli “che cinguettano”. Onkelos, commentando la frase riguardante la creazione dell’uomo, “Ed Egli soffiò nelle sue narici [dell’uomo] un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente”, traduce, “…e l’uomo divenne uno spirito parlante”. Rav Arama commenta: Mentre l’intelletto dell’uomo lo distingue dalla bestia, questo stesso intelletto è completamente rivelato e attualizzato solo attraverso la comunicazione verbale. La parola è lo strumento dato da D-o attraverso il quale il cuore e la mente di un individuo si riflettono nel mondo esterno. Siccome la parola riflette così tanto il carattere unico dell’uomo, gli obblighi associati alla comunicazione verbale hanno un grande significato. Da questa prospettiva, capiamo la gravità di questi peccati e perché D-o punisce questi peccati con la piaga della tzara’at.
La possibile connessione tra i peccati di parola e la piaga della tzara’at solleva seri problemi riguardanti l’applicazione della giustizia divina alle nostre vite. Dobbiamo considerare quello che ci può capitare come una punizione mandata dal cielo per i nostri peccati? D-o ci punisce attraverso le calamità? La risposta che emerge dalle fonti della nostra tradizione appare complessa, se non contraddittoria. Da un lato, la Torà parla ripetutamente delle calamità destinate a colpirci se trasgrediamo, come ad esempio nello Shema dove i doni naturali della terra sono subordinati al comportamento corretto. D’altra parte, la questione della giustizia divina, è al centro delle questioni ebraiche, dai tempi di Avraham, passando attraverso Moshe e fino ai giorni nostri. Quale dovrebbe essere, allora, il nostro approccio quando viviamo momenti difficili? Una risposta emerge da come Avraham risponde a due sfide critiche in modi sorprendentemente diversi. Di fronte alla distruzione delle città di Sodoma e Gomorra, patteggia apertamente con D-o mentre di fronte alla richiesta di sacrificio di suo figlio Yitzchak, Avraham emerge silenzioso e totalmente arrendevole. La chiave del comportamento di Avraham potrebbe risiedere nella grande differenza tra i due eventi. Il caso delle città ricade nel novero della giustizia divina, di una causa che ha portato ad un effetto, mentre il caso del sacrificio di Yitzchak nel novero della prova personale.
In questo secondo caso, a differenza del primo, non è fornito un motivo per quello che Avraham deve affrontare. Quello che è richiesto è lo sforzo di superare la prova. Per noi, al contrario di Avraham, è difficile distinguere se si tratta di una prova o, per così dire, di una punizione. I momenti difficili possono capitare. Quello che è in nostro potere è di affrontare la prova a cui siamo sottoposti perchè abbiamo i mezzi per farlo e perché possiamo riporre la nostra fiducia in D-o che accetterà la nostra teshuva in caso avessimo peccato e che premierà i nostri sforzi nel superare eventuali sfide che ci pone davanti