In queste Parashot si racconta della persona colpita dalla Tzara’at, la quale viene esclusa dal campo, posta lontana dagli uomini e, apparentemente, anche da Dio. Chi dichiara questa persona impura non è un medico, bensì il Cohen, una figura prettamente spirituale. Il Midrash e il Talmud ci spiegano che la Tzara’at non è una malattia qualunque. Rappresenta l’unione tra corpo e anima, tra spirito e materia, poiché tra le cause, forse quella principale, da cui essa scaturisce troviamo la Lashon Harà , la parola negativa, corrosiva, che divide e ferisce. Ed è per questo che il “malato di Tzaraat” viene messo in isolamento: perché ha cercato di mettere divisione negli altri, ha evidenziato le loro “piaghe”, e li ha isolati. Questo è ben risaputo, ma qual è la soluzione a questo? In cosa consiste la difficile Terapia? Il compito ora è quello di riscoprire la parola che unisce.
È interessante notare che anche la “diagnosi di Tzaraat” avviene attraverso la parola, la dichiarazione del Cohen: Non si stabilisce la sua condizione di impurità se il Sacerdote non pronuncia la parola “Impuro”. Nelle Parashot si parla, non a caso, di Brit Milà, che non viene letto solo come circoncisione ma come “Patto della Parola”, come a dire, l’argomento inserito in questi contesti non è fortuito. Le questioni relative alla Tzaraat vengono discusse nell’ordine Tahorot, nei trattati di Nega’im (Piaghe, leggi della tzara’at, su persone, vestiti e case) e Ohalot (Tende, leggi dell’impurità derivante dal contatto con i morti, in strutture che “trasmettono” l’impurità), questi, considerati tra i più complessi, difficili e tecnici; come a dire che la causa di queste conseguenze, cioè la Lashon Harà, è una situazione in cui è molto facile cadere, ma altrettanto difficile e complesso uscirne, per purificarsi. Eppure, nel Yalkut Shimoni troviamo un passo straordinario: “Disse (Re) David di fronte Kadosh Baruch Hu: Ribono shel Olam, Signore del mondo, non è forse chiaro davanti a Te che quando Israele recita i Tehillim non lo fa per ricevere premio, né per studiare le leggi di impurità e purezza…ma sia la Tua volontà che Tu li consideri come se studiassero Nega’im e Ohalot.”
La richiesta di David HaMelech ad Hashem è sorprendente: anche quando il popolo non riesce ad arrivare allo studio più tecnico, che le loro parole di preghiera valgano come l’occuparsi della parte più pura e difficile della Torah. I Salmi non sono semplici poesie. Sono Torah in forma di supplica, di lode, di pianto, di speranza, non a caso sono divise in cinque libri come i cinque libri della Torà. Quando una persona ce l’ha con il mondo e viene isolata o meglio si isola lui stesso con i suoi pensieri, come è scritto “Ki yhiè vo naga Berosh” “quando la piaga è nella sua testa, cioè nella sua mente, e non sa come uscirne, esiste una soluzione semplice ma intensa, elevata e complessa come i trattati di Mishnà più difficili: Il canto dei Tehillim. Quando la vita sembra metterci di fronte a situazioni difficili in un mondo alieno, estraneo a noi, e noi siamo parte del problema, si può recitare uno dei Tehillim, e Hashem lo ascolterà e considererà ogni parola come se stesse studiando e vivendo le pratiche dei trattati di Purificazione. Il Cohen a quel punto lo riaccoglie, Dio lo ascolta. I Salmi diventano, quindi, la voce che spezza l’isolamento e ricuce l’anima e le anime.
Quando non riesci a studiare, recita Tehillim, quando ti senti “impuro”, recita Tehillim, se ti senti lontano da molte situazioni, recita Tehillim, perché ogni versetto è una chiave, ogni parola è un Brit, un patto, tra la tua lingua e Kadosh Baruch Hu; i Tehillim purificano l’aria, e se il problema non è interno ma esterno essi aiutano anche a purificare la casa, cioè il mondo in cui viviamo.
Shabbat Shalom Umevorach