«Una possibilità di componimento, su cui si sta lavorando, è quella di affermare che tutto rimanga nell’ambito della speranza escatologica e che occorre riportare l’espressione della preghiera a qualcosa di più vicino al senso che può avere nel famoso passo della Lettera ai Romani in cui san Paolo si esprime sulla salvezza di Israele. Dove la “pienezza della redenzione” è rimandata alla fine dei tempi, cioè viene affidata al piano misterioso dei disegni imperscrutabili di Dio. E davvero di nessun altro». Intervista con Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma
Intervista con Riccardo Di Segni di Giovanni Cubeddu
Quando riprenderà il dialogo interrotto unilateralmente a motivo della nuova preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei?
RICCARDO DI SEGNI: Interruzione… Stiamo facendo una pausa di riflessione, cioè stiamo riflettendo insieme. Il che è diverso.
Sicuramente lei vorrà chiarire le ragioni del dissenso.
DI SEGNI: L’elemento più inquietante di questa vicenda non è tanto la preghiera in quanto tale, quanto la sua riproposizione misurata sul percorso storico compiuto e ancora in atto. Il percorso cioè del rapporto del mondo cristiano con gli ebrei, segnato nei secoli passati da varie forme di ostilità, e da una incomprensione di fondo. Quella per cui fin dalle origini il cristianesimo che nasce dall’ebraismo si chiede come mai gli ebrei, dal cui seno nasce Gesù, non l’abbiano accettato come Dio e Salvatore. Questa è l’incomprensione che si trascina da allora e che ha segnato sempre, in qualche modo, i nostri rapporti. E, non solo qualche volta, drammaticamente.
Un cammino è stato compiuto, però.
DI SEGNI: Nel momento in cui ebrei e cristiani si aprono a parlarsi, la prima richiesta degli ebrei è che non si discuta di questi problemi: non potete cioè chiederci di sciogliere questo nodo.
Permane invece la richiesta di una vostra conversione.
DI SEGNI: Nel momento in cui riconoscessimo Gesù Cristo non saremmo più ebrei. Questo voi lo considerate diversamente, perché, per voi, così facendo, noi ebrei coroneremmo, completeremmo, idealizzeremmo il nostro percorso ebraico. Questa è la vostra visione, la nostra è completamente differente. Su tali argomenti non c’è spazio per la discussione, perché inevitabilmente si finirebbe… innanzitutto nell’inutilità sostanziale, almeno secondo noi. E si alzerebbero barriere, invece di parlare. Dobbiamo dialogare, sì, ma per cento altro motivi. Il discorso sottostante alla preghiera del Venerdì Santo non è un tema qualsiasi, ma è una sorta di ombra, di storica angoscia che noi ebrei ci portiamo dietro.
Non si può certo negare che la Chiesa cattolica abbia mostrato una nuova sensibilità in questi ultimi decenni…
DI SEGNI: … al punto che l’elemento simbolico dell’ostilità su questi aspetti, appunto la preghiera del Venerdì Santo, è stato progressivamente variato, smantellato, e oggi in tutte le chiese, nelle lingue locali, si chiede che gli ebrei, da un lato, mantengano fedeltà alla propria Alleanza, dall’altro abbiano la «pienezza della redenzione». Cioè riconoscano Gesù. In termini ebraici, però, rimane con tale formula la possibilità di un equivoco, dato che anche per noi, sebbene con un significato diverso, esiste la preghiera «pienezza di redenzione», Geullà Shlemà… La questione perlomeno è rimasta nell’equivoco. Non soddisfacente, ma almeno diplomaticamente accettabile.
Il testo latino proposto per emendare il Messale Romano preconciliare è inaccettabile?
DI SEGNI: Ciò che in questi giorni ci ha turbato è che deviando da una strada percorsa assieme, che manifestava una presa di coscienza della sensibilità ebraica e la necessità di togliere dall’agenda delle nostre discussioni ciò che è di intralcio, si sia tornati a temi discutibili. E di fronte a questo ci chiediamo: «Ma allora… quale è il senso del nostro confronto?». Non stiamo abbassando la saracinesca del dialogo, stiamo dicendo: «Noi ebrei che ci stiamo a fare?». È possibile che ogni volta che un cristiano e un ebreo si incontrano, con tutte le cose che dovrebbero fare insieme, si ponga questo – cioè la nostra conversione –, come primo argomento? È possibile che l’unica volta all’anno in cui la Chiesa prega per gli ebrei debba porsi questo problema? Che ci stiamo a fare noi ebrei in questo confronto? Penso che sia una domanda legittima. L’incidente odierno, che spero possa essere presto risolto, potrebbe essere benefico, se è servito a far riflettere tutti.
E a questo punto si potrà ripartire.
DI SEGNI: Noi che abbiamo in comune la visione biblica, rispetto al resto del mondo, che non ce l’ha, dobbiamo – cito qui il grande rabbino Joseph Soloveitchik – essere pronti a dialogare su temi come «la pace e la guerra, i valori morali dell’uomo, la minaccia del secolarismo» – io non direi minaccia, ma piuttosto confronto con la visione laica –, «tecnologia e valori umani, diritti civili, eccetera». Ne abbiamo a sufficienza, mi pare. Se pensiamo soltanto al dibattito politico in Italia, una visione religiosa fondata su valori biblici avrebbe tanto da dire.
Dunque, se il confronto ebraico-cristiano si esprime sul piano pratico è facile, molto meno se lo si pone sul piano dalla fede o della speranza escatologica.
DI SEGNI: Guardi, se il nostro parlare avvenisse, davvero, sul terreno della speranza escatologica, cioè della fine dei tempi, ci potremmo ancora stare. Voi sperate ciò che desiderate e noi ebrei pure. Il problema nasce quando qualcuno vuol portare quaggiù questa fine dei tempi, hic et nunc. Magari fosse in gioco soltanto una speranza escatologica…
Tali anticipazioni dei tempi si accompagnano al rischio della strumentalizzazione del fatto religioso.
DI SEGNI: Questo è il rischio insito nelle dinamiche delle nostre fedi. Che sono messianiche. Cristianesimo ed ebraismo sono due fedi messianiche, e il cristianesimo, per il nome stesso che porta, lo è di più.
Nel dialogo ebraico-cristiano odierno è corretta la percezione che ognuno ha dell’identità dell’interlocutore? O vince piuttosto un’immagine distorta?
DI SEGNI: La distorsione è bilaterale. Nell’ebraismo c’è una certa mancanza di consapevolezza che il cristianesimo ha compiuto un suo percorso di rinnovamento. Vedo comunque da parte dei cristiani grande interesse per l’ebraismo moderno. Un esempio per tutti: il rito della cena ebraica pasquale. Ho visto che in varie parrocchie romane circolano i formulari sulla nostra Pesach, che viene assunta e celebrata nella vostra liturgia pasquale. E ho udito anche che su questa pratica circolano da parte cattolica avvertenze allarmate… Più in generale, molti gruppi cristiani, cattolici ed evangelici, si caratterizzano proprio per l’assunzione di temi fondamentalmente ebraici, ma tutto si realizza riportando il segno all’immagine ttosto, nella ricerca della propria identità è quasi naturale per un cristiano sentire il fascino dell’ebraismo. Ricevo numerose lettere da parte di cristiani e di sacerdoti: c’è chi si dichiara estasiato dall’ebraismo, e chi continua a non capire per quale motivo l’ebraismo non debba fondersi col cristianesimo, visto che sono la stessa cosa… È un fascino del tutto particolare.
Un episodio?
DI SEGNI: Un giorno una suora con alcune sue discepole e amiche è venuta da me chiedendomi di assistere al rito in sinagoga. Ho detto certamente di sì, così un sabato mattina si sono presentate al tempio. Il servizio del sabato mattina inizia alle 8 e 30. La sinagoga si popola piano piano, la gente arriva un po’ per volta. Quella volta poi c’erano tanti bambini delle scuole, per cui tutto è stato molto chiassoso e molto allegro. Il servizio è terminato alle 11 e subito dopo il gruppo mi è venuto a salutare dicendo: «Questa mattina ci è sembrato di stare alle falde del monte Sinai». Tutto ciò un tempo non sarebbe stato possibile…
Di Segni prende un’antica stampa che tiene appesa al muro del suo ufficio rabbinico. È la copia di un editto del 1625 – firmato dal vicario di Roma, Giovanni Garzia Millini, creato cardinale nel 1606, l’undici settembre – con cui si puniva, con una «ammenda di scudi venti», il giudeo che lasciasse entrare nelle sinagoghe i cristiani.
DI SEGNI: Se i cristiani volevano entrare in sinagoga la colpa era data agli ebrei, che venivano multati di venti scudi. È un documento spettacolare. Gliene faccio una fotocopia… [ride, ndr]. Almeno per quanto riguarda la curiosità non c’è niente di nuovo.
Proclamare la sospensione del dialogo con la Chiesa cattolica implica il coraggio e la disponibilità di sottoporsi alle critiche, no?
DI SEGNI: Non abbiamo fatto un gesto estremo. Abbiamo chiesto una pausa di riflessione. Per chiederci che senso abbia questo dialogo.
Come lei ha indicato poco fa, il primo campo del confronto ebraico-cristiano è “la pace e la guerra”. In proposito, lei non crede che più che dalle vicende teologiche gli ebrei vengono giudicati in base alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi?
DI SEGNI: Per le scelte politiche di Israele noi ebrei italiani ci sentiamo giudicati perennemente. E l’ufficio rabbinico di Roma è un osservatorio eccezionale. Arrivano non solo lettere di rimprovero… Alcuni ci consigliano pure di pensare a quello che stiamo facendo «con i Protocolli dei savi di Sion, perché sono veri» e alle nostre colpe per il massacro dei palestinesi. Tutto si lega insieme, un’unica linea logica perversa.
In quale modo proporrebbe di riassorbire l’incomprensione con la Santa Sede circa la preghiera pro iudaeis?
DI SEGNI: Una possibilità di componimento, su cui si sta lavorando, è quella di affermare che tutto rimanga nell’ambito della speranza escatologica e che occorre riportare l’espressione della preghiera a qualcosa di più vicino al senso che può avere nel famoso passo della Lettera ai Romani in cui san Paolo si esprime sulla salvezza di Israele. Dove la «pienezza della redenzione» è rimandata alla fine dei tempi, cioè viene affidata al piano misterioso dei disegni imperscrutabili di Dio. E davvero di nessun altro. Per noi il dialogo non è finalizzato alla conversione dell’interlocutore.
Ritorniamo così al punto cruciale…
DI SEGNI: … che è un tema fondamentale della Dominus Iesus.
Vede, se intende “missione” come “testimonianza” alla verità alla quale si aderisce in coscienza, adesione alla quale nessuno dei due interlocutori si può, per onestà e per coerenza con la propria rispettiva fede, sottrarre, al limite si potrebbe anche digerire l’espressione che il dialogo è “missione”… Ma bisognerebbe spiegarne bene il senso. E comunque rimarrebbe il grosso rischio che la gente non capisca e fraintenda. Se la prima missione, nel rispetto delle nostre identità, è una testimonianza personale che ci permetta di parlare tra noi liberamente, per quello che siamo, cercando innanzitutto di avvicinarci di più a Dio, cioè convertire prima noi stessi, forse potrebbe anche essere accettabile. Ma la conversione va intesa nel senso ebraico letterale di teshuvà, che significa “risposta e ritorno”, non “passaggio altrove”. Se si leggessero le fonti attribuendo questo significato alla conversione-teshuvà sarebbe tutto molto diverso.
Secondo lei la Chiesa, a livello popolare, la pensa in modo differente?
DI SEGNI: A giudicare dalle lettere inviatemi in proposito c’è la convinzione che «noi cristiani dobbiamo presentarvi Cristo e farlo riconoscere anche a voi ebrei». Non so dire se un’altra idea di “missione” o di “testimonianza” sia comprensibile a livello popolare. Come dicevo, andrebbe molto meglio spiegata.
Pur tenendo in considerazione tali lettere, ciò non basta ad affermare che oggi la Chiesa si concentri sulla conversione degli ebrei. Le difficoltà sono altre…
DI SEGNI: Infatti, anche questo è un discorso che vorrei affrontare. Probabilmente non era necessario introdurre questa modifica alla preghiera del Venerdì Santo poiché la realtà dei fatti ci fa vedere che la Chiesa di oggi, quella che la gente conosce, non ti viene più a bussare alla porta… Una tale modifica risveglia solo realtà marginali.
E che si preghi o no pro iudaeis, il perdere di vista Gesù è più un rischio per la Chiesa che per l’ebraismo.
DI SEGNI: Sì, e noi vorremo restare fuori dalle questioni proprie della Chiesa cattolica di oggi.
Se però l’occasione di questa nostra discussione serve a far capire che, mentre si avverte il bisogno di ritrovare le proprie radici, si riconosce di vivere in un momento di confusione, allora questa crisi è positiva.
(Si ringrazia Gianmario Pagano)