Nell’ora di Ne’ilà 5769, 9 ottobre 2008
Questo momento è decisamente speciale. Le nostre Sinagoghe sono già piene, al termine di una lunga giornata di preghiera, e ancora di più si riempiranno nei prossimi minuti. La preghiera di Ne’ilà va iniziata poco prima del tramonto, quando il sole all’orizzonte sfiora la cima degli alberi. Corrisponde al momento in cui venivano chiuse le porte del Beth haMiqdash, in concomitanza simbolica con il momento in cui in cielo si chiudono le porte. Aldilà di queste porte, in questi momenti, viene firmato il decreto che ci riguarda. Per questo motivo, in tutta la preghiera diremo chotmènu, “fìrmaci”, a differenza di come abbiamo fatto finora, con l’espressione kotvènu, “iscrivici” nel libro della vita. Come spiegava R. Moshe Soloveitchik, “il tramonto di questa sera non è un tramonto qualsiasi, è un tramonto che porta la cancellazione di tutte colpe”. Ma in che senso?
Questo è il momento raro dell’anno in cui i rabbini in tutto il mondo hanno l’occasione di parlare dentro alle Sinagoghe a un pubblico quanto mai numeroso, che forse incontreranno in altri momenti e in altri luoghi, ma non nel Bet haKeneset. La tentazione di trasformare questa occasione in uno sfogo dai toni apocalittici o peggio in un’invettiva contro chi si affaccia solo ora è certamente alta. La letteratura in proposito è ricca di abbondanti esempi. Ma bisognerebbe cercare di uscire da questo gioco rituale in cui ognuno fa la sua parte, il rabbino si lamenta e tuona, il pubblico l’ascolta più o meno pazientemente e d’accordo, e domani tutto ricomincia come prima.
Da almeno 150 anni, tempo della libertà e dell’emancipazione, il tema ricorrente e ripetitivo per questi momenti è l’abbandono delle tradizioni, del cedimento ai modelli culturali esterni, insomma l’assimilazione. Invece di preparare nuovi discorsi per l’occasione, basterebbe prendere quelli di decenni fa o anche di un secolo e più fa, alcuni anche molto belli. Non so però quanto efficaci. Perchè il desiderio di fuga dalle proprie radici, la riduzione dell’impegno ebraico sociale, prima ancora che religioso, l’idea che le regole dell’ebraismo siano un accessorio non essenziale, roba da “fissati”, “integralisti”, peggio ancora “talebani” e che si possa tranquillamente rinunciare a buona parte di queste regole, o le si possa trasformare a proprio piacimento, insomma tutto questo non è per niente una novità e la capacità dei maestri di Israele o dei tanti osservanti di contrastare con argomenti convincenti la diffusione di questi pensieri e di queste scelte è piuttosto limitata. Per cui si va avanti da decenni se non da secoli in questa dinamica. Con quali risultati? Ce ne è sicuramente uno, evidente nelle comunità della Diaspora, ed è quello della contrazione numerica fino alla scomparsa di interi nuclei. Roma ebraica per ora resiste abbastanza a questo fenomeno, malgrado l’abbondante diffusione di ideologie e comportamenti disgreganti, contrastata da grandi fenomeni di riavvicinamento.
Nel calendario civile oggi è il 9 ottobre, una data che ricorda qualcosa di terribile nella storia della nostra Comunità, quando nel non lontano 1982 un commando terroristico fece fuoco su chi usciva alla fine della preghiera, uccidendo un bambino e facendo decine di feriti. Da allora la nostra Comunità è cambiata in molte cose, con un processo di presa di coscienza ebraica che ha investito molti, anche se ha lasciato molti altri impassibili e indifferenti. Non possiamo nasconderci l’esistenza di coloro che sono chiamati da taluni gli ebrei “invisibili”, ma che sono, più precisamente, gli ebrei assenti a qualsiasi manifestazione, religiosa politica o sociale. Anche questa sera, se si potessero sommare tutte le presenze nelle Sinagoghe, potremo pensare che ancora qualche migliaio di ebrei romani, per quanto iscritti alla Comunità, manca all’appello. Se mancano o compaiono poco i motivi sono profondi e le invettive non servono a niente. Piuttosto bisogna riflettere sui modi in cui affrontare il problema. Nel mondo religioso ebraico, molto schematicamente ci sono ora due opposte concezioni. Ce n’è una che qualcuno ha definito il darwinismo ebraico. L’idea che solo i forti sopravvivono. E i forti sono coloro che sono totalmente impegnati nell’ebraismo. Solo loro studiano, osservano, si sposano e fanno tanti figli e la possibilità che i loro figli, educati in scuole ed ambienti chiusi, scappino dall’ebraismo, si sposino all’esterno insomma si allontanino e scompaiano per sempre è estremamente bassa. Su tutti gli altri, secondo questo pensiero, è inutile investire risorse. Se noi guardiamo a quello che succede in alcune comunità italiane e in molte altre dell’Europa e degli USA saremmo tentati di dare ragione a questa triste analisi. Ma per fortuna questa non è la sola opinione. Pensare ad un ebraismo chiuso e di pura elìte è veramente rischioso. Chissà chi è colui che ha i requisiti necessari per entrare nel club riservato. Già ce ne sono molti di questi piccoli club, e non si risparmiamo tra loro ostilità e antagonismo distruttivo.
Ma prima dell’analisi sociologica, valgono gli insegnamenti dei Maestri e la riflessione su quello che abbiamo letto e fatto in questa giornata e quello che attendiamo per quest’ultima ora. Kippur è il giorno in cui sono state date per la seconda volta le tavole della legge. Dopo la prima promulgazione, quella di Shavuot, ci fu il dramma del vitello d’oro e la messa alla prova di Mosè, a cui D. propose di distruggere il popolo ebraico esistente, facendone nascere uno nuovo dalla sua famiglia. Mosè rispose no, devi perdonare tutti, altrimenti comincia a cancellare me. Da qui nasce il Kippur. La risposta ai gravi problemi della nostra continuità non può essere elitaria, selettiva, dei cosiddetti forti. Deve essere collettiva. Questo è sempre stato l’orientamento del rabbinato italiano e questo è stato il senso della forma organizzativa delle nostre comunità, una casa comune per tutti. Questa sera dobbiamo pregare tutti per tutti, ciascuno per sé e per gli altri. I Maestri ci hanno insegnato che la nostra capacità di giudicare gli altri è limitata e fallace. Non spetta a noi il giudizio su chi è il buono. Ma tutto questo non ci esonera dalla responsabilità e dal dovere di chiederci cosa stiamo facendo per il nostro futuro. Perchè se la fuga dall’ebraismo non è una novità, l’emergenza della continuità, il rischio della sopravvivenza è una realtà di cui dobbiamo essere coscienti.Tenendo presente un dato tanto chiaro quanto non facile da accettare. Se questa è e deve essere, come si è detto, la casa di tutti, è attraverso l’obbligo dell’educazione e la scoperta delle nostre regole che si assicura continuità. Le regole sono quelle della solidarietà sociale, ma anche quelle che ci santificano, come il Sabato, e che stabiliscono come si è ebrei. I problemi non si risolvono cambiando le regole, ma rispettandole. Per spiegare meglio questo concetto vorrei usare le parole di rav Jonathan Sachs, rabbino capo del Regno Unito:
Essere ebreo significa essere membro del popolo del patto, essere erede di una delle fedi più antiche, durature e ispiratrici di rispetto. Significa ereditare un modo di vita che ha guadagnato l’ammirazione del modo per il suo amore della famiglia, la devozione all’educazione, la sua filantropia, la sua giustizia sociale e la sua dedizione infinitamente leale ad un unico destino. Significa sapere che questo modo di vita, trasmesso dai genitori ai figli fin dai tempi di Avraham e Sara, può essere sostenuto solo attraverso la famiglia; consapevoli di questo significa scegliere di continuare creando una casa ebraica e avere figli ebrei
Sempre rav Sachs ci propone quest’ultima considerazione: quando il patriarca Avram ricevette grandi promesse per il suo futuro, la sua risposta fu una domanda: “Signore D., cosa mi potrai dare se rimango senza eredi?” (Bereshit 15:2). Malgrado tutte le turbolenze economiche all’orizzonte, siamo, almeno politicamente, in un raro periodo di tranquillità, in cui dopo terribili eventi il popolo ebraico vive in relativa pace e prosperità; proprio ora la stessa domanda di Abramo si ripropone con forza e deve far pensare: cosa potremo avere se non avremo discendenti?
Riflettiamo su questi temi nel momento unico in cui si chiudono le porte del cielo, seguendo con attenzione la tefillà, ricevendo la benedizione e ascoltando il suono dello shofàr.
Che sia un anno pieno di benedizioni per tutti; chatimà tovà.
Riccardo Di Segni