Lettera al Corriere della Sera
Caro direttore, la crescente presenza di alunni di religioni non cristiane nelle scuole propone discussioni periodiche che si accendono sotto le feste. Ora il caso nasce dalle decisioni del dirigente dell’istituto di Rozzano, che avrebbe interdetto l’insegnamento di canti natalizi in classe e sospeso un concerto di fine anno, in una scuola dove, peraltro, è esposto un grande albero di Natale. Sulla polemica pesa decisamente il clima teso di questi giorni, dopo gli attentati di matrice religiosa islamica di Parigi.
Ma la questione andrebbe discussa un po’ più a freddo. Perché se le decisioni fossero state prese qualche anno fa avrebbero avuto tutt’altro senso e forse minore risalto. Si sarebbe discusso sul principio della laicità, la separazione tra Stato e confessioni religiose, che è vissuto in modi molto differenti nel mondo. In Francia e negli Stati Uniti nelle scuole non si insegna religione, non compaiono segni religiosi e tanto meno si insegnano canti religiosi. In Italia la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa ha creato modelli differenti.
La presenza cattolica si esprime, nelle forme più evidenti, con il crocifisso nelle aule e con l’ora di religione, e convive con forme di garanzie delle differenze di religione o di pensiero. È un modello consolidato ma non immune da critiche; sentenze contraddittorie ricompaiono periodicamente.
Ma le polemiche di oggi non c’entrano quasi per niente con la laicità, piuttosto riguardano l’identità culturale di questo Paese, in cui la religione è elemento fondante, e assumono talora la forma di una guerra di religione. Oltre all’attacco armato di terroristi fanatici c’è l’incomprensione di alcuni che arrivando in Italia con una fede diversa da quella della maggioranza non ne accettano le consuetudini; a tale incomprensione si risponde o con altrettanta incomprensione o con un cedimento più o meno totale; si preferisce rinunciare alle proprie tradizioni per non dare fastidio e offendere gli altri.
L’esperienza di almeno due millenni di presenza ebraica in questo Paese come minoranza religiosa suggerisce qualche modello di utile di convivenza. Alcuni ebrei hanno abbracciato la causa della laicità assoluta, considerandola una difesa contro l’imposizione dei modelli religiosi prevalenti, ma altri hanno compreso che la separazione totale di Stato e religione, come nel modello francese, si sarebbe ritorta proprio contro la libertà religiosa. Per fare un esempio, uno Stato totalmente laico non riconosce il diritto agli studenti ebrei di rispettare il Sabato. La laicità si trasforma in intolleranza. Allora non ha senso proibire tutto a tutti, la soluzione è nel compromesso.
L’ora di religione ne rappresenta un esempio. Dal punto di vista strettamente laico se ne dovrebbe chiedere l’eliminazione; ma se la stragrande maggioranza dei cittadini la vuole mantenere, che senso ha contrastarla? Quello che va difeso è il diritto di chi la pensa differentemente di non avvalersi di quell’insegnamento, senza essere esposto per questo suo rifiuto a valutazioni negative sia dirette che indirette. Se nella mensa scolastica il cibo offerto è per alcune religioni proibito, ad esempio c’è il maiale, la risposta non è togliere il maiale dalle mense ma organizzare degli spazi dove possano nutrirsi quelli che seguono diete differenti, o al limite consentire a chiunque di portarsi il suo cibo da casa.
E per quanto riguarda il Natale, a un osservatore esterno le soluzioni proposte appaiono un po’ patetiche, pensare a un «Natale laico» sembra una contraddizione in termini, ammettere l’albero e proibire il presepe è una minima operazione di facciata. Se la maggioranza si riconosce in quei simboli non dovrebbe avere complessi a esporli, o limitarsi nell’organizzazione di concerti festivi; ma con la avvertenza fondamentale che si tratta di attività libere e facoltative senza nessuna conseguenza negativa per chi non le segue.
Una madre musulmana intervistata ha spiegato bene il concetto: possono cantare quello che vogliono, ma mio figlio, musulmano, non deve farlo. Avrebbe detto lo stesso una madre ebrea. Non la pensano così altri musulmani, che non protestano contro presepe e canti per il principio della laicità, ma per intolleranza della fede di altri; non la pensano così alcuni cattolici che confondendo la religione con la cultura, o solo perché intolleranti, vorrebbero che i canti e i concerti fossero curriculari e obbligatori; e non hanno colto i termini del problema coloro che sono disposti a rinunciare alle proprie tradizioni, pensando di farlo in nome del rispetto dell’altro, ma non si rendono conto che è l’altro il primo che non ti rispetta. Quindi: non rinunciare a sé stessi, ma non imporlo agli altri. Regole tanto semplici quanto difficili da accettare.
*Rabbino capo di Roma
(Corriere della Sera, 30 novembre 2015)