Quello dell’originalità non è un concetto che compare spesso nella nostra tradizione. In generale possiamo individuare una tendenza per cui ciò che è vero non è nuovo, e ciò che è nuovo non è vero. Rav Sacks ha scritto una riflessione su Rosh ha-shanah, partendo dalle parole del Rambam. Maimonide all’interno della sua grandiosa opera di Halakhah, il Mishneh Torah, introduce infatti un elemento fortemente innovativo, quello di dedicare un intero trattato alle regole della teshuvah.
Altri Maestri nei secoli avrebbero fatto altrettanto, ma come avviene in tanti altri ambiti, Maimonide fa da apripista. In particolare, nelle sue illuminanti parole, una regola ci colpisce (Hilkhot teshuvah 3,4): “anche se la teqiat Shofar del giorno di Rosh ha-shanah va eseguita in quanto essa è un preciso precetto biblico, c’è nel suono dello shofar anche un richiamo ad un serio esame di coscienza per coloro che dormono e sonnecchiano, come a dire loro: Svegliatevi – fate un esame delle vostre azioni, fate teshuvah e ricordatevi del vostro Creatore. Voi che dimenticate la Verità ed andate errando nella caducità delle cose futili e sonnecchiando tra le vanità e le cose prive di contenuto, che non vi porteranno beneficio né vi salveranno, pensate alla vostra anima rivedete le vostre vie e le vostre azioni. Abbandonate il falso sentiero intrapreso e rivedete le vostre cattive intenzioni. Ed è per questo che durante tutto l’anno ognuno di noi deve considerarsi in bilico tra peccati e meriti e considerare che il mondo intero si trovi nella stessa situazione… ”. Quanto Maimonide scrive sembra essere in aperta contraddizione con l’immagine dello Shofar che deriva dal Talmud. Se l’oggetto in sé commemora il sacrificio di Isacco, episodio che leggeremo nella Torah il secondo giorno di Rosh ha-shanah, il suo suono principale, la teru’ah, rimanda, secondo l’interpretazione dei Maestri, al pianto. Lo shofar sotto certi aspetti richiama quindi i nostri meriti davanti al Creatore, secondo un altro punto di vista è il pianto che noi rivolgiamo a D. Maimonide sostiene esattamente l’opposto. Lo Shofar è un grido divino rivolto a noi. Si riferisce a noi così come ha fatto con il primo uomo nel giardino dell’Eden, chiedendo “ayekka – dove sei?” – in che modo ti sei servito di tutti i doni che ti ho fatto, la vita, la libertà e le benedizioni che ti ho riservato?
Non tutte le qualità umane sono uguali. Dedichiamo gran parte della nostra vita ad arricchire il nostro curriculum, attraverso realizzazioni, qualifiche, acquisizione di abilità particolari. Ma dobbiamo sapere che non saremo ricordati per questo. Gentilezza, onestà, fedeltà. Viviamo per questi ideali? Certamente non scriveremmo queste nostre caratteristiche su un curriculum vitae, ma questi sono gli aspetti che fanno la differenza nella nostra qualità della vita e nell’impatto che abbiamo su coloro che ci circondano. La società che ci circonda ci incoraggia a riflettere su come avere una carriera strepitosa, ma non ci dà alcuna indicazione su come coltivare la nostra vita interiore. Sicuramente ci si deve dedicare alla propria crescita professionale, ma dobbiamo essere consapevoli che il lavoro non è tutto. Lo shofar ci richiama ad un’altra dimensione. Uno dei testi fondamentali di Rav Soloveitchik, La solitudine dell’uomo di fede, recentemente tradotto in italiano, rileva che la Torah, nei primi capitoli del libro di Bereshit, contiene due differenti versioni della creazione dell’uomo, una nel primo capitolo, l’altra nel secondo. Il primo capitolo ci parla dell’homo sapiens, la specie umana da un punto di vista biologico. Il secondo capitolo presenta due individui, Adamo ed Eva, capaci di essere soli ma anche di amarsi. Le due differenti narrazioni derivano dalle due specificità profonde dell’uomo. C’è l’uomo maestoso, capace di parlare, di creare strumenti, il più grandioso fra gli esseri creati, in grado di fare incredibili scoperte scientifiche e tecnologiche. Ma c’è un altro uomo, quello in grado di stringere un’alleanza, con gli individui che lo circondano e con D. Il primo uomo avrà un curriculum notevole, ma la Torah punta decisamente sul secondo uomo, chiedendogli di lavorare sull’umiltà, la gratitudine, sulla capacità di vivere per un ideale e sacrificarsi per esso. Chi ha queste caratteristiche è un essere umano ben piantato, che ha una percezione chiara della propria vita. Ha delle radici e sa dove vuole andare. Certo, anche lui incontra delle difficoltà nella propria vita, ma le affronta in modo differente, senza farsi spazzare via dalla tempesta. Questo messaggio maimonideo è valido ancora di più oggi. La nostra società è in sofferenza principalmente per avere investito sul primo modello umano. Il nostro differente approccio non potrà porre fine ai mali del mondo, ma potrà influenzare positivamente quelli che sono accanto a noi. Questa, secondo Maimonide negli Otto capitoli, è l’essenza dell’ebraismo, la coltivazione del carattere per mezzo della pratica delle mitzwot e il sistema di vita rappresentato dalla halakhah. Questa è la sua ricchezza, e questo è il motivo principale per cui la cultura dominante in Occidente non riesce a riemergere.Shanah Tovah a tutti voi e ai vostri cari