In questa particolare stagione, la stagione del passaggio da un anno all’altro, gli ebrei sono chiamati a lasciarsi coinvolgere in un profondo processo di revisione di quanto avvenuto nei mesi precedenti. Comincia un percorso di pentimenti e di correzione delle colpe, (la Teshuvà), che tutti noi commettiamo nella nostra vita quotidiana che se inteso correttamente rappresenta una grande ricchezza dell’identità ebraica. I nostri Saggi hanno insegnato a questo riguardo alcune verità che considero non solo importanti, ma anche rivoluzionarie.
Come è noto il processo di Teshuvà deve articolarsi per gradi e attraverso passaggi tutti necessari e irrinunciabili. Consideriamo, per esempio, il significato di uno di questi passaggi posto all’inizio del percorso: quello del riconoscimento della colpa. Ovviamente non siamo chiamati ad esprimere un dispiacimento generico per le colpe che possiamo eventualmente aver commesso, ma a mettere in opera un’analisi profonda e sincera, che ci porti a riconoscere, a chiamare per nome i nostri errori e a farlo, pur se di fronte a noi stessi e alla nostra coscienza, usando le parole.
Questa impresa, che potrebbe apparire relativamente semplice, in realtà si rivela forse l’aspetto più impegnativo di tutto il processo di Teshuvà. E la difficoltà nell’affrontarlo dipende dai molti modi che la natura umana ci offre di ingannare noi stessi. Il rav Joseph Soloveitchik si è domandato come mai sia necessario confessare i peccati, quando potrebbe sembrare sufficiente concentrarsi mentalmente sulla loro natura. Ci sono in effetti pensieri che siamo capaci di formulare che ci fanno soffrire e che non saremmo mai capaci di esprimere apertamente con parole e frasi. Perché? Noi possediamo meccanismi di difesa che ci consentono di mimetizzare le colpe che commettiamo in mezzo a mille altri fatti, considerazioni, circostanze e scusanti. Esplicitare attraverso la parola pronunciata quello che sappiamo benissimo, ma che abbiamo difficoltà ad ammettere, significa far emergere i fatti spogliati di ogni commento e di ogni giustificazione.
Sappiamo che il rituale ebraico prevede due forme di confessione, una generica e collettiva, quando durante le preghiere ci associamo a un’elencazione di possibili colpe che devono essere riconosciute da tutto il popolo ebraico, e una individuale. Proprio attraverso questa confessione individuale possiamo sperare di raggiungere pienamente l’obbiettivo di riconoscere con chiarezza le nostre colpe.
Sempre seguendo l’itinerario illuminato dal pensiero di rav Soloveitchik, vorrei ora mettere in rilievo un passaggio che segue quello dellindividuazione della colpa e che conduce alla sua correzione. Il Rav insegna che la Torà utilizza due definizioni per indicare la possibile risoluzione della colpa, la Kapparà (espiazione) e la Taharà (purificazione). La Kapparà costituisce un passaggio iniziale, che evita la punizione senza raggiungere una vera e propria cancellazione della colpa commessa. Ma la Teshuvà più profonda può fare ben altro, può coinvolgere tutta la persona disposta a mettersi in gioco e far nascere una nuova personalità cancellando radicalmente la colpa commessa. Questa purificazione rappresenta una trasformazione dell’individuo molto profonda e al tempo stesso un progetto molto ambizioso.
La lezione che possiamo imparare da questa classificazione a prima vista solo formale, ma in realtà molto profonda, è che il passato non si può mai dimenticare, non si può nascondere o negare, a pena di vederlo rientrare dalla finestra, ma può invece essere riformato, riscritto, attraverso un processo profondo di purificazione. Il passato non può essere eluso, ma può essere riscritto. Non si può ignorarlo, ma la sua accettazione, il suo riconoscimento, non ci obbliga a subirne le conseguenze, se troviamo la forza di cambiare il suo corso a posteriori. E questo rappresenta una vera e propria rivoluzione che possiamo offrire a noi stessi e al mondo.
Il Talmud insegna infatti che noi abbiamo attraverso la Teshuvà la possibilità di trasformare le colpe in meriti, di ribaltare radicalmente la situazione. Ne consegue che le colpe commesse non rappresentano necessariamente una condanna, ma possono costituire se lo vogliamo addirittura uno straordinario strumento di purificazione. Sempre il Talmud utilizza l’espressione “Proprio perché sono caduto ho la possibilità di rialzarmi”. Questo significa che la caduta rappresenta una straordinaria chance di rilancio verso l’alto, ma anche che questa rinascita parte precisamente dalla coscienza di essere precipitati.
Lidea rivoluzionaria della Teshuvà che tutti noi siamo chiamati in questo periodo a compiere è certamente che noi possiamo incidere sul nostro futuro, ma che per farlo dobbiamo e possiamo ripensare il nostro passato. Ancora il Talmud spiega che dove vivono coloro che hanno affrontato con impegno il processo di Teshuvà, difficilmente possono sopportare di coesistere i Giusti completi, coloro che hanno ben poco da farsi perdonare. Questo perché, secondo alcune interpretazioni di questo difficile passaggio, il valore del lavoro compiuto da chi è caduto e ha trovato il modo di rialzarsi è ineguagliabile e non paragonabile con il valore di chi possiede anche le più straordinarie doti.
Questo ci consente di affrontare le situazioni più difficili con un’arma straordinaria. La consapevolezza che gli elementi negativi che accompagnano la nostra esistenza non sono mai irreparabili, ma anzi possono essere utilizzati come strumenti per costruire cose nuove.
L’augurio che rivolgo a tutta la Comunità e a me stesso in occasione di questo Rosh Hashanà è di conseguenza di trovare la forza e la capacità di raggiungere una Teshuvà profonda e sincera. Di cogliere l’occasione per migliorare noi stessi e con questa azione anche il mondo che ci circonda. Il Capodanno ebraico, infatti, non è un fatto di nostra esclusiva proprietà, ma ripercorre il momento in cui tutta l’umanità è stata creata e in cui tutto il mondo torna di fronte al proprio Creatore per essere giudicato.
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