Rosh Chodesh elùl: le novità di quest’anno
Rav Riccardo Di Segni – Shalom.it – 23. 8.2025
“I Valori Ebraici??? Siete senza Vergogna”. Queste testuali parole, maiuscole comprese, sono state inserite con una firma strana in un post della Comunità Ebraica di Roma dove si facevano gli auguri per il compleanno a un rabbino e si era parlato di valori ebraici. Una reazione di questo tipo, da parte di persone che non amano ebrei ed ebraismo, c’è sempre stata. Il problema di oggi è che queste reazioni sono diventate comuni, diffuse, coinvolgenti un pubblico sempre più vasto, espressione di pensieri convinti, condivisi e senza contraddittorio. La guerra in corso dal 7 ottobre 2023 è stata accompagnata da una campagna accusatoria e diffamatoria che non si è limitata al governo dello Stato d’Israele ma si è allargata allo Stato stesso, agli ebrei e finalmente all’ebraismo stesso come cultura e religione. Siamo arrivati a un punto in cui dei sistemi di convivenza stabili sono entrati profondamente in crisi. Chi non l’ha capito finora è bene che lo faccia presto.
Un piccolo esempio dell’aria che tira. Molte volte in passato, durante lezioni e interventi su temi ecologici, ho spiegato che nella lingua ebraica della Bibbia e dei rabbini del Talmud la parola “natura” non esiste, perché il concetto stesso di natura implica un’autonomia creatrice, mentre c’è un vero e solo Creatore; quindi, non c’è una natura indipendente ma solo il creato. Nel medioevo, però, i filosofi ebrei si trovarono nella necessità di dare un nome alla natura e si inventarono la parola tèva’, per indicare qualcosa di coniato, stampato. Un secolo fa, i primi immigrati in Eretz Israel fondarono una casa farmaceutica e le dettero il nome di Teva, natura. L’impresa ha prosperato nei decenni ed è diventata una multinazionale con la maggior parte degli stabilimenti in Europa. Ognuno di noi ha acquistato in questi anni in farmacia un farmaco generico marcato Teva e probabilmente ignorava che ditta fosse e le origini del suo nome. Ora però qualcuno se ne è accorto, ha scoperto il peccato originale ed è partita una campagna di boicottaggio che vede uniti nel coro amministratori sanitari, farmacisti, semplici cittadini e zelanti medici e infermiere che di propria iniziativa buttano al secchio i campioni di prodotti sanitari Teva offerti agli ospedali. Vaglielo a spiegare che storia c’è dietro, e che danneggiano le fabbriche europee, i risparmiatori, la loro stessa salute e i principi bioetici più elementari.
Per anni ci siamo compiaciuti del contributo ebraico alla scienza, dei premi Nobel e di tutte queste belle cose. Possiamo continuare a esserne compiaciuti ma di questi argomenti alla gente non importa più tanto. Possono invece scatenare reazioni di invidia o teorie di potere e di complotto. Per decenni, dopo la Shoà, è stato costruito un sistema di ricordo e di compassione che noi abbiamo alimentato con tutte le nostre energie. Al punto di creare una sorta di identità ebraica al negativo, dolorosa e di ricerca compiaciuta di solidarietà. Ma adesso è finito tutto. Ora, nella narrazione comune, i genocidi siamo noi. Non potremo più fare una qualsiasi commemorazione senza che ci venga detto: “però voi…”, “voi che avete sofferto tanto…” ecc.
Il dialogo faticosamente costruito con la Chiesa cattolica è in crisi. Da una parte rispuntano i vecchi schemi oppositori con l’Antico Testamento fonte di violenza e il fatto che gli ebrei siano una nazione, il popolo “eletto”, un peccato da cancellare; dall’altra prevale una sorta di equidistanza pacifista con suoni di campane e letture pubbliche di lunghe liste di vittime, inviti accorati al risveglio delle coscienze, dove, s’intende, quelle addormentate sarebbero prima di tutte le nostre. “Fermiamo la strage degli innocenti. Siete tutti compagni di Erode”.
Il tema comune che compare sotto tante forme, laiche e religiose, è che l’ebraismo sia moralmente malato, che i suoi valori siano infettati e quel che di buono che c’era se lo è preso qualcun altro.
Il problema è anche nostro, interno. Davanti a una crisi che mette in discussione l’immagine che noi abbiamo dell’ebraismo e il nostro rapporto con la società circostante, le reazioni possibili sono diverse. Sappiamo quante centinaia di migliaia di persone manifestano in Israele contro il governo. Siamo una comunità complessa e divisa in mille rivoli. Dalle nostre parti c’è chi si schiera, senza se e senza ma, con qualsiasi decisione del governo israeliano, chi invece fa dei distinguo, e chi si dissocia pubblicamente, magari firma appelli la cui opportunità suscita ulteriori discussioni. Lo fanno invocando i valori dell’ebraismo, e gli si obietta osservando che molti di loro si ricordano dell’ebraismo solo al momento della firma. Questa obiezione però non vale quando a parlare e firmare sono i rabbini. Hanno cominciato i “progressive”, poi l’ondata ha coinvolto alcuni ortodossi, di tipo “modern”, “lite” (=leggero), alcuni molto politicizzati. Come gli ebrei si dividono in “ebrei buoni” (pieni di valori di amore universale) e “buoni ebrei” (che cercano di vivere il loro ebraismo in modestia e con onestà), a quanto pare, anche i rabbini si potrebbero dividere in rabbini buoni e buoni rabbini; ma la maggioranza degli ebrei e dei rabbini non si si fa inquadrare in questo schema. I problemi morali sollevati da questa guerra sono micidiali e nessuno può nasconderlo, la coerenza con le fonti è oggetto di discussioni laceranti in cui ognuno ha un po’ di ragione, ma non tutta. Chi vive in Israele rischia in prima persona, per noi della diaspora i rischi ci sono, ma di altro tipo, e fare i giudici gli uni per gli altri non è semplice e neppure tanto corretto oltre che dannoso. Il quadro si complica ulteriormente con altri rabbini che invitano a pregare, proprio in questi giorni di rosh chòdesh, contro il decreto della coscrizione obbligatoria degli studenti delle yeshivòt. I solchi sociali, che in una situazione di pericolo dovrebbero ridursi, invece si allargano.
Che siamo un popolo particolare, anche per la divisione e la polarizzazione estrema delle posizioni, lo sappiamo. Non basta saperlo, adesso, in un momento così forte di destabilizzazione. Nel calendario ebraico l’inizio del mese di Elul, l’ultimo mese dell’anno, segna l’avvio del ciclo penitenziale. Si suona lo shofàr, un piccolo anticipo di quello si farà tra un mese, a Rosh haShanà. Tutti i testi sacri per l’occasione raccomandano di cominciare a fare teshuvà, marcia indietro. I rabbini parlano, il pubblico ascolta, qualcuno è scosso, altri dicono “vabbè”. Questo rosh chòdesh però l’invito generico dovrebbe avere un contenuto più specifico. La consapevolezza che niente è più come prima. Addio all’ammirazione per il contributo ebraico al progresso. Addio alla condivisione del ricordo della Shoà. Addio all’ebraismo bello ed esemplare, medaglietta chic da ostentare. Ci vorrà molto tempo, ammesso che ci si riesca, a ricomporre un’immagine corretta di ebraismo all’esterno. Per ora pensiamo all’interno. Ci vogliono convincere della nostra essenza malvagia. Bisogna resistere e opporsi all’attacco devastante, con il recupero del nostro vero ebraismo, la correzione dei comportamenti, delle idee e delle conoscenze. E che ognuno cerchi, per quanto gli è possibile, di colmare i solchi delle spaccature che ci dividono.
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