Domenica 6 settembre sarà la Giornata europea della cultura ebraica. Fin qui benissimo. Ogni anno la manifestazione ha un titolo, che viene deciso dall’organismo europeo di coordinamento, e che quest’anno è: “Ponti & AttraversaMenti”. Credo che qui ci sia un problema, di simboli, di lingue e di culture. E prima che si sollevi un’ondata di protesta per quanto scriverò qui di seguito, venendo accusato di ottusità e di chiusura, preciso che auguro tutto il successo alla giornata alla quale parteciperò (e spero parli poco di ponti) e che ho rispetto per l’idea dell’attraversamento (ma da dove e verso dove?); ma questa, quella dei ‘ponti’, non è la nostra lingua.
Non è un caso che la parola ebraica per ponte, ghèsher, non compaia mai nella Bibbia. Forse perché in Terra d’Israele non ci sono fiumi importanti se non ai confini. Ma anche perché dai tempi di Abramo l’ebreo, Avrahàm ha‘ivrì, è tale perché sta ‘ever, dall’altra parte [del fiume] o “perché tutto il mondo è da una parte e lui sta dall’altra” (Bereshit Rabbà 42). I ponti non sono mai diventati nell’ebraismo un simbolo positivo, anzi sono qualcosa di rischioso. Così come per la donna il momento di rischio è quello del parto, per gli uomini il momento rischioso è quello dell’attraversamento del ponte (TB Shabbàt 32 a; un paragone, questo tra parto e ponte, che evoca simboli molto suggestivi, ma che comunque si basa sulla percezione di pericolo). I ponti li costruivano i Persiani e i Romani e nei loro confronti, sia tra i Maestri che da parte del popolo, non c’era grande simpatia; i Romani tanto consideravano questa attività che avevano una qualifica speciale e simbolica per chi i ponti li costruiva, i pontefici.
Rabbì Shimòn ben Yochài diceva: “Hanno fatto i ponti [i Romani] solo per farci pagare il pedaggio” (ibid. 32 b; v. anche ‘AZ 2 b). Molti secoli dopo rabbi Nachman di Breslav scriveva la frase che ha avuto e continua ad avere grande impatto: “Sappi che l’uomo deve passare su un ponte molto molto stretto, l’importante è non avere affatto paura” (Liqutè Moharan 2, Torà 48). La retorica del ponte è pericolosa come il ponte stesso. Sappiamo come negli ultimi anni il simbolo del ponte sia stato usato in opposizione a quello del muro nella polemica anti israeliana. Nell’immaginario collettivo i ponti (e chi li fa) sono buoni, i muri cattivi. Sembra quasi che ora dobbiamo dimostrare che anche noi siamo buoni, che facciamo i ponti. La vecchia storia di Yaaqòv che si traveste da Esàv.
Ma non ci sono ponti buoni e muri cattivi, c’è ponte e ponte e muro e muro. Ritornando al patriarca Abramo, non è tanto il ponte che conta, ma il cammino, da dove si viene e dove si vuole andare, e su questo i signori della cultura europea non sono stati chiari. E non c’è solo cammino, ma anche sosta. Ora può succedere che qualche volta, per caso, un ebreo si fermi davanti a un ponte a pregare. Ma quando si ferma davanti a un muro, non è un caso.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma