L’impegno educativo ha permesso al popolo ebraico di non perdere mai il contatto con Dio, anche nei momenti più difficili del suo cammino nel tempo e nel mondo
Il brano forse più famoso della Haggadà di Pesach è quello dei Quattro figli, brano iper-commentato e proprio per questa ragione non lo commenterò. Vorrei però soffermarmi su alcune righe che precedono questo brano. In queste righe è scritto: Benedetto Dio (chiamato Hammakòm – il Luogo) Colui che ha dato la Torà ai Figli d’Israel.
Rav Soloveitchik si chiede perché la Haggadà usi un nome inconsueto per indicare Dio e collega l’uso di questo nome a un midràsh che riguarda due profeti, il profeta Yesha’yahu – Isaia e il profeta Yechezkèl – Ezechiele. Il midràsh dice che entrambi i profeti hanno avuto una visione della divinità ma Isaia è paragonabile a cittadino e Yechezkèl all’abitante di un villaggio. Il cittadino è abituato a vedere il re e quella visione non lo sconvolge particolarmente. L’uomo del villaggio invece non lo vede mai e per una volta che lo vede rimane sconvolto. Rav Soloveitcik si chiede che senso abbia questo confronto tra i due profeti. Certamente il midràsh non ha intenzione di sminuire Yechezkèl ma si tratta di un confronto tra due epoche storiche. L’epoca di Isaia è quella del Bet Hamikdàsh, del popolo ebraico che viveva sulla sua terra, della presenza continua di profeti, sacerdoti e sommi sacerdoti. Yechezkèl invece è il profeta del galùt – Diaspora, vive in Babilonia dopo la distruzione del Tempio, vive il periodo dell’allontanamento forzato del popolo dalla sua terra ma anche della perdita del centro spirituale del Bet Hamikdàsh. Queste diverse esperienze si riflettono in due espressioni che usano questi profeti. Nella profezia di Isaia è scritto: Kadòsh kadòsh kadòsh… – Santo, santo santo… tutta la terra è piena della Sua gloria. Dio è dappertutto. Il popolo ebraico sente la Sua presenza in ogni momento e in ogni luogo. Si vive l’esperienza straordinaria di essere sempre lifnè Hashèm, davanti a Dio, l’esperienza della Shekhinà che accompagna la vita del popolo ebraico.
Yechezkèl invece usa l’espressione Barùkh kevòd Hashèm mimmekomò – Benedetta la gloria di Dio dal suo posto. Dio non è più dappertutto ma in un luogo particolare, non c’è il Bet Hamikdàsh, non c’è il Sommo sacerdote, non si vive l’esperienza quotidiana della presenza della Shekhinà. Si vive il galùt che non è solo allontanamento dalla propria terra ma anche la sensazione di allontanamento della Shekhinà. Yechezkèl vive l’hestèr panìm, Dio che nasconde il Suo volto.
Questa doppia esperienza di vicinanza e lontananza è stata vissuta dal popolo ebraico in molti momenti della sua storia. L’hestèr panim rappresenta simbolicamente i momenti più bui della storia ebraica. Queste due esperienze sono sintetizzate nella Kedushà che si dice nella ripetizione della Amidà che include sia il verso di Yesha’yahu sia quello di Yechezkèl. La Haggadà indica Dio con l’attributo Hammakòm prendendo questa espressione dal verso di Yechezkèl. Come mai? La Haggadà è un racconto di liberazione, di redenzione, l’uscita dall’Egitto è un momento in cui il popolo ebraico ha sentito in maniera potente la presenza di Dio, ha vissuto la liberazione dalla schiavitù e dall’oppressione egiziana, ha visto l’intervento diretto di Hashem che ha sconvolto le leggi della natura e ha piegato la più grande potenza dell’epoca. Nella Shiràt Hayàm il popolo ebraico dice: Ze Elì – questo è il mio Dio e il midràsh dice che è come se lo indicasse con un dito, ne sente la presenza in modo concreto, è accompagnato costantemente dalla presenza di Dio nell’uscita dall’Egitto, nell’apertura del mare, nel viaggio nel deserto.
Che senso ha nel contesto della liberazione dall’Egitto usare un termine che indica la lontananza, il volto nascosto e un luogo nascosto? La risposta è che la Haggadà si rivolge agli ebrei di tutte le epoche, si rivolge agli ebrei che escono dall’Egitto, che costruiscono il Bet Hamikdàsh, che ritornano in Eretz Israel dopo l’esilio babilonese ma anche agli ebrei che vivono l’esilio, la Diaspora, le persecuzioni e la sensazione di lontananza e di volto nascosto. Il messaggio fondamentale della Haggadà è che quando il volto sembra nascosto in realtà Dio è presente nella storia del popolo ebraico, mantiene le sue promesse, ci protegge e ci libera. L’espressione Hammakòm è seguita immediatamente dal ricordo del fatto che Dio dà la Torà ai Figli d’Israele e dal brano dei Quattro figli. Quello che ci sta dicendo è che la nostra capacità di sentire la presenza divina è direttamente proporzionale a quello che è l’impegno fondamentale della tradizione ebraica, l’educazione dei figli. L’impegno educativo ha permesso al popolo ebraico di non perdere mai il contatto con Dio anche nei momenti più difficili della sua storia.
Oggi viviamo uno di quei momenti, l’ultimo anno e mezzo ha cambiato la nostra vita, ha messo in discussione molte cose che davamo per scontate, ma credo che in quest’anno abbiamo rafforzato il nostro legame con il popolo ebraico, la Terra d’Israele, il Dio d’Israele e abbiamo sentito in maniera molto forte la verità di ciò che viene detto in un passo talmudico secondo cui en lànu al mi lehisha’èn èlla al avìnu shebashamàyim – possiamo appoggiarci solo sul nostro padre che è in cielo.
Rabbino Capo di Milano