Non c’è mestiere più affascinante e più coinvolgente ma, allo stesso tempo, anche pericoloso di quello del Maestro
Non credo vi sia un compito più importante e coinvolgente, ma al tempo stesso complicato e pericoloso, di quello del Maestro. Sono un insegnante di Torà e dalla Torà vorrei partire per spiegare ciò che per me è il ruolo di un insegnante. Nella Scrittura il primo ad essere definito con il termine di Mechanekh, che per ora interpreteremo con la comune traduzione di educatore, fu il Patriarca Avraham, il quale portò i Chanikhim, i propri alunni, in guerra per liberare il nipote Lot rapito dai re cananei durante una battaglia (Gn. Cap 14). Credo sia però interessante e necessario definire con più attenzione il vocabolo Mechanèkhcon cui il Testo parla per la prima volta del ruolo del Maestro nella tradizione ebraica.
Com’è noto, la parola Chanukkà, che da Mechanekh deriva, significa inaugurazione. I Greci, la cui sconfitta viene appunto ricordata nella festa di Chanukkà, al contrario dei Babilonesi e dei Romani, non avevano distrutto il Santuario ma si erano limitati a profanarlo, inserendovi un culto straniero. Gli ebrei che rischiarono allora la vita per amore della Torà, non dovettero riedificare un Tempio mai distrutto ma fare qualcosa di assai più complicato, ridare onore ad una struttura ancora esistente ma privata in gran parte del suo reale valore. Credo sinceramente che questo sia il ruolo del Mechanek
All’insegnante, all’educatore, la Torà non chiede di ricostruire una nuova mentalità di un ragazzo o di sostituire il ruolo di un genitore ma di confrontarsi con il vissuto di ogni alunno per aiutarlo a riscoprire il proprio personale e vitale rapporto con la tradizione dalla quale spesso egli si sente molto distante. Non intendo certo dire con ciò che il Morè (il Maestro, ndr.) adempie al proprio ruolo di Mechanekh insegnando qualche regola ebraica di facile attuazione o qualche canto coinvolgente per portare in una classe un’atmosfera di gioia priva d’impegno.
Non è raro sentire genitori ed insegnanti richiedere una maggiore serietà nell’istruzione delle materie secolari e protestare poi per un eccessivo rigore nello studio delle discipline ebraiche a scapito di un ipotetica felicità e amore per l’ebraismo che si può trasmettere solo con qualche bel midrash o racconto, a patto che non lo si debba leggere e imparare dalla sua fonte originale. Per molti questo è il modo di coinvolgere ogni alunno; io non lo penso. Personalmente credo che ognuno si debba impegnare nello studio della Torà assai seriamente e che solo l’osservanza delle Mitzvòt e la conoscenza della lingua ebraica possano realmente assicurare il futuro del popolo ebraico e del singolo ebreo.
Ma il Mechanekh non può mai prescindere dalla personalità, dal carattere, dalle potenzialità e dalle difficoltà, insomma dalla realtà contingente se vuole raggiungere il proprio obiettivo, o come dicevano alcuni Maestri del Chassidismo, se intende riportare nell’animo di ogni ragazzo una santità ebraica sì latente, nascosta e lontana, ma pur sempre esistente.
Avraham fu dunque un educatore in quanto sapeva come, quando e con chi parlare. Eppure proprio sull’opera di Avraham un attento lettore del Testo dovrebbe ben porsi un quesito. Che fine hanno mai fatto tutte le persone avvicinate ai princìpi dell’ebraismo dal Patriarca e dalla moglie Sara? Nella Torà non v’è n’è traccia. Subito dopo il racconto della guerra combattuta per liberare il nipote, Avraham si rivolge a Dio per constatare un’amara realtà: “io proseguo ormai solo” (Gn.15). Il Maestro, l’educatore attento è rimasto isolato, abbandonato dai suoi alunni. Quale errore ha mai commesso? Il mio Insegnante Rav Avigdor Neventzal ritiene che Avraham si sia reso colpevole di una grave mancanza. Vaiarek et chanikhav – si legge nel Testo che parla del momento in cui Avraham conduce i suoi uomini alla lotta. L’espressione ha una doppia possibile traduzione letterale. Armò i suoi alunni, secondo la prima; svuotò i suoi alunni, suona la seconda. Le traduzioni sono vere entrambe: Avraham armò i giovani per combattere una guerra indubbiamente giusta e necessaria ma d’altro canto aveva instillato in loro il dubbio che il Maestro intendesse in realtà combattere una guerra personale: la liberazione di Lot, un membro della sua famiglia. Avraham rimase così solo, gli alunni lo abbandonarono.
Il Mechanekh deve fare molta attenzione nel suo modo d’insegnare, nel suo modo di trasmettere, un errore, un cattivo comportamento, una parola sbagliata e il lavoro di anni viene compromesso ed annullato. Viviamo in un mondo in cui è uso misurare le capacità di un Maestro di Torà in rapporto alla sua idoneità ad “attrarre, entusiasmare e coinvolgere la classe”. Non nego certo che ciò sia importante e faccia parte delle necessarie attitudini di un educatore ma credo anche che la tradizione ebraica valuti le competenze e capacità di un insegnante anche, se non soprattutto, in relazione al suo costante timore di allontanare da se e dalla Torà i propri alunni. In altre parole, il vero Mechanekh è colui che si pone in discussione, che teme l’errore e considera più le proprie mancanze che le proprie qualità
Rabbì Chaiìm da Wolozin, che nel suo libro Nefesh Hachaiìm dedica ampio spazio allo studio e all’insegnamento, narra un episodio della sua vita che credo sia illuminante. Questo grande Maestro vissuto nel XVIII secolo, quando ancora gli ebrei lituani per studiare riempivano piccole aule di sinagoghe spesso prive di libri e di sostentamento, ebbe l’idea di costruire la prima grande Yeshivà in Europa nella quale i giovani e meno giovani avrebbero potuto apprendere, dormire e mangiare senza attendere l’aiuto del benefattore di turno. Il progetto era ambizioso ma per essere attuato aveva bisogno dell’approvazione del Rabbino Eliau da Vilna. Reb Chaiìm si recò dal suo anziano Maestro che gli negò, però, il proprio consenso. “So che hai intenzione di agire per il bene e il futuro del tuo popolo” gli disse, “ma ti vedo troppo entusiasta della tua idea. Ricorda che quando si pensa ad un progetto per una Comunità l’entusiasmo deve lasciar spazio alla paura di fallire o peggio di allontanare”. Rabbì Chaiìm dovette attendere parecchio per perdere l’iniziale entusiasmo e per cominciare i lavori di costruzione della sua scuola. “Quando pose il primo mattone della nuova scuola – scrisse il figlio – mio padre piangeva così tanto che le lacrime avrebbero potuto sostituire l’acqua per fare la malta”. Oggi nel mondo le Yeshivòt si contano a centinaia.
Non credo vi sia una frase più completa e profonda di quella usata nello Shemà per ben descrivere il ruolo e il compito del Maestro. Lo insegnerai ai tuoi figli e ne parlerai quando sei seduto nella tua casa, quando cammini per la via, quando ti corichi e quando ti alzi. “I figli di cui si parla nel versetto – scrive Rashì – sono gli alunni. In ogni brano della Torà i discepoli sono chiamati figli”. Ho il dubbio che Rashì intendesse con ciò che un discepolo si debba amare come un figlio. Sarebbe un’esagerazione e, credo, un insegnamento assai pericoloso. L’amore per un figlio non deve essere né paragonato né sostituito. Rav Epshtein ritiene invece che il senso del rapporto ben-talmid, figlio-alunno, sia di ben altro tipo. Il termine Ben è composto dalle prime due lettere ebraiche del verbo trilittero Banà, che significa costruire. Il ben-talmid è un costruttore in potenza che va costantemente aiutato a ritrovare l’ultima lettera, la completezza. Un Morè che perde le speranze nelle capacità di un alunno è a sua volta un insegnante immeritevole di rivestire il ruolo di educatore.
Ma il versetto dello Shemà ha anche altre implicazioni. Non vi è un tempo oppure un luogo in cui il docente trasmette il suo insegnamento. A casa o per la via, seduto o in piedi, un Morè è tenuto ad insegnare sempre ed ovunque. Ma anche in questo caso ritengo ci si debba staccare dal senso letterale del Testo. Reputo si possa dire che l’insegnamento di cui qui si parla non sia quello a parole, o almeno non solo.
La Torà è Toràt Chaiìm, è fonte di vita e non solo cultura. Il vero insegnante non trasmette i valori ebraici con frasi ad effetto o citazioni profonde di detti antichi ma con il suo modo di essere, di agire. Ci sono infinite regole nella normativa ebraica che impongono al rav un comportamento non richiesto ad altri; nel modo di vestire, di mangiare, di parlare e di muoversi. In casa e per la via, seduto ad un tavolo o nel corso del cammino, il Morè trasmette con il corpo e le azioni, oltre che con la voce.
Nella Mishnà o nel Talmud si leggono spesso le parole “Hu Haià Omèr”, rese di solito con l’espressione: “egli soleva dire”, come premessa ai detti di questo o quel Maestro. La traduzione letterale di Hu Haìà Omer, però è assai diversa: “Egli era ciò che diceva”. Difficile non è parlare o istruire, complicato per un docente, per un rav o un morè è avere il coraggio d’insegnare solo ciò che egli stesso vive e crede. Dunque, penso che un insegnante debba tenere sempre a mente le parole che il Rabbino Ariè Leb scrisse nell’introduzione del suo libro di norme e commento Shaagàt Ariè: “Sono ormai molto anziano e so che non avrò più tempo per scrivere altre opere. Ho scritto per trasmettere il sapere ma sono certo che qualche passo l’ho composto affinché si notasse il livello della mia scienza. Lo so, dovrei cancellare queste pagine composte per orgoglio personale e lo farei con piacere, se solo sapessi in quale punto del libro esse si trovano. Ma sono comunque tranquillo. Saranno i lettori a cancellarle dal cuore e a dimenticarle, perché, come dicono i Maestri, solo gli insegnamenti che escono dal cuore rimangono nel cuore. Il resto cade nell’oblio, e nulla esce dal cuore se non viene vissuto in prima persona”.
Oggi, in un mondo di tuttologi, in cui vi è chi insegna, ad esempio, il valore dello Shabbàt senza rispettarlo o il divieto della maldicenza per poi non negare a nessuno la propria critica, in una società invasa da frasi ad effetto estrapolate dal Talmud o dal Midrash da chi spesso il Talmud e il Midrash lo può leggere solo se tradotto, lo Shemà ci ricorda che il Maestro, il Mechanèkh, è ben altra cosa, che la Torà è vita e non sfoggio di scienza e che un alunno, come un figlio, va rispettato e aiutato a crescere con parole “che escono dal cuore e rimangono nel cuore”.
* Rabbino e Preside delle Scuole Ebraiche di Milano
Per gentile concessione di Shalom
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