Elliott Abrams
Il 7 ottobre non è stato il giorno dell’indipendenza palestinese, ma l’ultimo chiodo sulla bara della “Soluzione a Due Stati”. Rimane solo la confederazione con la Giordania?
Entro la fine di questo mese, e con perfetto tempismo squisito per coincidere con Rosh Hashanà, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si riunirà e, rivolgendosi ad essa, il presidente francese riconoscerà la “Palestina” come Stato. La Francia sarà il 148° paese (secondo la maggior parte dei conteggi) a riconoscere uno Stato che non esiste e non esisterà mai – uno “Stato” senza confini, senza governo, senza economia e senza controllo sul territorio rivendicato. Norvegia, Spagna, Irlanda e Slovenia hanno riconosciuto la Palestina nel maggio 2024 come chiara ricompensa per l’assalto terroristico di Hamas nell’ottobre 2023. Regno Unito, Canada e Australia si uniranno ai francesi, così come potrebbero fare una dozzina o più di altri paesi. Questi atti di “riconoscimento” non fanno nulla per aiutare i palestinesi. Il loro effetto e il loro obiettivo di sempre è danneggiare Israele, sia ritenendolo responsabile della guerra di Gaza, sia rendendo più difficile raggiungere la fine a quella guerra. Come ha detto il Segretario di Stato Marco Rubio in agosto: “I colloqui con Hamas sono falliti il giorno in cui Macron ha preso la decisione unilaterale di riconoscere lo Stato palestinese.”
La mossa del Presidente Emmanuel Macron, e quelle dei Primi Ministri Keir Starmer del Regno Unito e Anthony Albanese dell’Australia, sono in gran parte questioni di politica interna – risposte a bassi indici di gradimento e grandi popolazioni musulmane. Sembra essere sfuggito alla loro attenzione che stanno contribuendo a una conclusione palestinese secondo cui solo la violenza brutale produrrà una via d’uscita. Nel tentativo di difendersi da tale critica, Macron ha dichiarato che “non c’è alternativa” alla statualità palestinese e ha annunciato in luglio che, “alla luce degli impegni presi con me dal presidente dell’Autorità Palestinese, gli ho scritto per esprimere la mia determinazione ad andare avanti.“
Quali erano gli impegni solenni dell’Autorità Palestinese al presidente francese? “Adempiere a tutte le sue responsabilità di governance in tutti i territori palestinesi, inclusa Gaza, riforme radicali, [e] organizzare elezioni presidenziali e generali nel 2026 per rafforzare la sua credibilità e la sua autorità sul futuro Stato palestinese.” Il Primo Ministro canadese Mark Carney ha detto alla CNN che “il Canada intende riconoscere lo Stato di Palestina… perché l’Autorità Palestinese si è impegnata a guidare riforme necessarie.” Albanese ha parlato di “nuovi importanti impegni dell’Autorità Palestinese” e ha proclamato che il “presidente dell’Autorità Palestinese ha riaffermato questi impegni direttamente al Governo australiano.” Similmente, mentre la cosiddetta “Dichiarazione di New York,” adottata il 30 luglio dall’intera Lega Araba, dall’Unione Europea e da più di una dozzina di altri paesi condanna in modo utile gli attacchi del 7 ottobre e chiede la rimozione di Hamas dal potere, chiede però uno Stato palestinese sotto un’Autorità Palestinese riformata (AP) che “continuerà a implementare la sua credibile agenda di riforme.“
È difficile non ridere di tutti quegli “impegni” verso una “credibile agenda di riforme” da parte del presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, che li ha presi e altri simili presi ripetutamente durante i suoi quasi vent’anni come capo di Fatah, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dell’Autorità Palestinese. L’ANP non è più vicina a governare Gaza di quanto non lo sia stata da giugno 2007 quando ne fu espulsa da Hamas, né più vicina a una riforma fondamentale. Macron ha anche dichiarato che “dobbiamo costruire lo Stato di Palestina (e) garantire la sua vitalità,” e apparentemente non gli è mai venuto in mente di suggerire che sono i palestinesi che devono “costruire lo Stato di Palestina e garantire la sua vitalità.“
Perché, dopo 80 anni di sforzi per dividere la Terra Santa, non è mai stato creato uno Stato palestinese? Perché sono convinto che questo obiettivo non sarà mai raggiunto? Decine di nuovi paesi sono stati creati dalla Seconda Guerra Mondiale. Cosa c’è di unico nella lotta per la “Palestina” che l’ha condannata, e quali sono le alternative? Mentre mi concentrerò particolarmente sulla Cisgiordania, la maggior parte dell’analisi che segue si applica altrettanto bene a Gaza.
I.
La “Soluzione a Due Stati” è un derivato dell’idea più vecchia della spartizione – la divisione del Mandato di Palestina detenuto dal Regno Unito in terre ebraiche e arabe. La Transgiordania, un mandato britannico separato e ora il Regno Hashemita di Giordania, nacque nel 1946, e l’Assemblea Generale dell’ONU votò nel novembre 1947 per creare altri due nuovi Stati, uno arabo e uno ebraico. Gli ebrei dissero sì e gli arabi dissero no.
C’è molto altro da dire sul conflitto israelo-palestinese, ma la sua essenza rimane nel 2025 quella che era nel 1947: gli arabi dissero no.
Daniel Pipes ha commentato questo molte volte, scrivendo di quello che ha chiamato il “rifiuto genocidario” dei palestinesi. Perché non hanno prevalso la pace e la statualità palestinese? Nei primi anni, Pipes scrisse: “La popolazione locale, che ora chiamiamo palestinesi, non li voleva lì e disse loro di andarsene. E [i sionisti] risposero dicendo no, siamo moderni e occidentali, possiamo portarvi acqua pulita ed elettricità. Ma i palestinesi si intestardirono nel rifiuto, e dissero, ‘No, vogliamo uccidervi; vi cacceremo via.’” Più di un secolo fa, il leader sionista Vladimir Jabotinsky spiegò che questa è la risposta che gli ebrei dovrebbero aspettarsi a tali offerte di progresso economico, anche se credeva che l’atteggiamento sarebbe cambiato col tempo. Ma poco è cambiato, come scrive Pipes:
Non ha funzionato perché non può funzionare. Se il tuo nemico vuole eliminarti, dirgli che gli porterai acqua pulita non lo convincerà del contrario. Quello che è così sorprendente è che i palestinesi abbiano mantenuto questo impulso genocidario per un periodo così lungo. Sosterrei, come storico, che questo è unico. Nessun altro popolo ha mai mantenuto quel tipo di ostilità per un periodo così lungo.
Tali opinioni possono essere, e sono state spesso, attaccate come quelle di un sionista e conservatore. Ma la conclusione di Pipes ha ora ricevuto supporto da una fonte inaspettata: Hussein Agha e Robert Malley, che hanno scritto un libro chiamato Tomorrow is Yesterday: Life, Death, and the Pursuit of Peace in Israel/Palestine sui loro decenni di sforzi, individualmente e insieme, per promuovere la statualità palestinese. Agha era un confidente fidato e negoziatore chiave per Yasir Arafat. Cresciuto a Beirut, ora è in possesso di un passaporto britannico (dopo aver precedentemente avuto cittadinanza libanese e irachena), membro di Fatah dal 1968, educato a Oxford e associato per 25 anni con il St. Antony’s College lì, l’astuto e affascinante Agha consigliò la leadership palestinese e partecipò ai colloqui dalla Conferenza di Madrid nel 1991 attraverso quelli con John Kerry nel 2014. Malley, figlio di un ebreo egiziano di estrema sinistra e anti-sionista, fu assistente speciale del presidente per gli affari arabo-israeliani durante l’amministrazione Clinton e poi un consulente e negoziatore chiave per il Medio Oriente per Barack Obama. Malley e Agha lavorarono insieme, ciascuno per la propria squadra, per preparare il Summit di Camp David nel 2000, e poi collaborarono a un famoso articolo della New York Review of Books nell’agosto 2001 che difendeva Arafat e rifiutava la visione (avanzata dal Presidente Clinton e dalla maggior parte degli altri partecipanti statunitensi) che Arafat fosse da biasimare per il fallimento dello sforzo di pace.
La loro ultima collaborazione è stata un articolo sul New Yorker in agosto che si basava in gran parte sul libro, ma aggiungeva nuove e eccezionalmente drastiche condanne di Israele. È come se temessero che i giudizi equilibrati sulla storia dei negoziati nel loro libro, la cui data di pubblicazione è il 16 settembre, siano ora datati – e che debbano unirsi al coro per non essere accusati di zelo spiacevole contro lo Stato ebraico. Il tempo per la riflessione attenta sembra essere finito.
Ma nel loro libro Agha e Malley scrivono che “l’idea di una spartizione israelo-palestinese in due Stati ha un pedigree interessante, travagliato e straniero. Quello che non c’è stata, tranne che per un periodo relativamente breve, è una richiesta palestinese o ebraica autonoma.” Questo perché “la soluzione a due Stati non è il luogo di composizione naturale né per israeliani né per palestinesi [e] va contro l’essenza stessa delle loro identità e delle loro aspirazioni nazionali.” Vero, ma i sionisti, nel 1948, scesero a compromessi e presero quello che l’ONU stava offrendo. I palestinesi non lo fecero.
I palestinesi non volevano vivere in pace con gli ebrei, quindi la decisione di spartizione dell’ONU nel 1947, e a maggior ragione gli sforzi come il processo di Oslo (progettato per affrontare le conquiste di Israele nel 1967), fallì nell’affrontare il problema sottostante. Agha e Malley citano Arafat: “Non siamo interessati a quello che è accaduto nel giugno 1967 o all’eliminazione delle conseguenze della guerra di giugno.” Cioè, l'”occupazione” israeliana della Cisgiordania e di Gaza dopo la Guerra dei Sei Giorni, sottolineata più e più volte dai critici di Israele all’estero (e persino da alcuni dei suoi sostenitori) come il suo grande peccato, non era il problema che Arafat desiderava risolvere; piuttosto, la sua obiezione era all’esistenza di Israele. Come facciamo a sapere che questo è corretto? Commentano: “Se fosse altrimenti, palestinesi ed ebrei non avrebbero combattuto negli anni ’20 e ’30, quando non esisteva nessuno Stato di Israele; le nazioni arabe non avrebbero combattuto Israele nel 1948, quando il piano di spartizione proponeva uno Stato palestinese; e i palestinesi avrebbero dovuto fare la loro pace tra il 1948 e il 1967, quando la Cisgiordania e Gaza non erano nelle mani israeliane.“
In altre parole, il problema non è la sfida tecnica di delineare i confini o qualche fallimento diplomatico, che se risolto porterà alla statualità palestinese. Il problema è che il nazionalismo palestinese è fondamentalmente focalizzato sulla distruzione dello Stato ebraico, non sulla costruzione di uno stato palestinese. Nel suo famoso discorso di Bar-Ilan del 2009, Benjamin Netanyahu lo mise in questo modo: “questa è la radice del conflitto, questo è quello che lo mantiene vivo, e la radice del conflitto era e rimane quello che è stato ripetuto per oltre 90 anni – la profonda obiezione del nucleo duro dei palestinesi al diritto del popolo ebraico al proprio paese nella Terra di Israele.” La costruzione di uno Stato non è una priorità palestinese, e l’assenza di uno Stato non è la causa del conflitto.
Questo è quello che Macron, Starmer, Carney, Albanese e i loro molti predecessori processori di pace, no capiscono. Nella misura in cui c’è una logica nei loro argomenti, questa funziona così: c’è un conflitto israelo-palestinese perché i palestinesi vogliono uno Stato indipendente dove possano esercitare il loro diritto all’autodeterminazione nella loro patria, e per farlo Israele dovrà cedere “terra per pace.” Se i palestinesi hanno uno Stato, il loro lamento sottostante sarà affrontato e la violenza, come quella del 7 ottobre e della guerra che ne è seguita, non sarà più necessaria. Hamas fa appello ai palestinesi al presente perché credono alla sua affermazione che solo la violenza raggiungerà la statualità. Concedere uno Stato all’AP minerà Hamas, porrà fine al motivo del conflitto e porterà la pace.
Mentre questa logica è internamente coerente, tutte le prove la contraddicono. Se Pipes e Netanyahu hanno ragione – e Malley e Agha sembrano credere che l’abbiano – allora uno Stato palestinese fallirà nel soddisfare le aspirazioni palestinesi poiché dovrà comunque esistere accanto a Israele. La soluzione a due Stati risolve il problema sbagliato.
A questa analisi, si può obiettare che negli Accordi di Oslo del 1993, israeliani e palestinesi raggiunsero infatti un accordo, una concordanza di intenzioni su pace e Soluzione a Due Stati. Non proprio. Quello che viene chiamato Oslo I stabilì l’Autorità Nazionale Palestinese e concordò di iniziare negoziati su tutto quello che contava: “i negoziati sullo status permanente inizieranno il prima possibile… È inteso che questi negoziati copriranno le questioni rimanenti, incluse: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, accordi di sicurezza, confini, relazioni, e cooperazione con altri vicini, e altre questioni di interesse comune.” In altre parole, non c’era accordo su nessuna delle questioni chiave che dividevano le parti.
Agha e Malley scrivono che c’era sì un documento firmato, ma quelle firme “servivano a nascondere la loro divisione su questioni elementari come i diritti dei rifugiati, gli attributi di uno Stato palestinese, e la legittimità dello Stato di Israele. Il consenso superficiale segnalava la continuazione della lotta israelo-palestinese con altri mezzi.” Quanto all’essere un accordo sulla statualità palestinese, in nessun punto negli Accordi di Oslo tale obiettivo è nemmeno menzionato.
Gli Accordi di Oslo sono accaduti oltre 30 anni fa ora, e sono falliti. Furono l’apparente punto culminante dell’accomodamento e accordo israelo-palestinese, ma quello che traspirò da allora mostra che la loro promessa era vuota. Come David Weinberg ha detto, “Trent’anni e miliardi di dollari ed euro dopo il ritorno sull’investimento occidentale nell’indipendenza palestinese è abissale. Non c’è democrazia, nessun stato di diritto, nessuna trasparenza, nessuna sostenibilità, nessun investimento nella stabilità economica, e nessuna educazione alla pace nell’AP.” Un editoriale dell’Economist nel settembre 2023 disse che i “risultati duraturi” di Oslo furono “creare un governo palestinese limitato detestato dalla maggior parte dei palestinesi.“
Queste sono conclusioni cupe, ma la maggior parte dei palestinesi concorda con esse. Il principale sondaggista palestinese, Khalil Shikaki, trovò in un sondaggio del settembre 2023 che, “trent’anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, circa due terzi descrivono le condizioni oggi come peggiori di quello che erano prima di quell’accordo; due terzi pensano che abbia danneggiato gli interessi nazionali palestinesi; tre quarti pensano che Israele non lo implementi; e una maggioranza supporta l’abbandonarlo.” I palestinesi dicono che l’AP è un peso per loro piuttosto che un bene, del 60% contro il 35%. Il 57% si oppone alla soluzione a due Stati (anche se il supporto aumenta se prometti loro i confini del 1967, inclusa Gerusalemme).
Una pluralità del 41%, quando gli viene chiesto come porre fine all’occupazione, preferisce la “lotta armata,” e questo ci riporta alla questione della violenza e al crudo riferimento di Pipes al “rifiuto genocidario.” Come ho spiegato, i proponenti della Soluzione a Due Stati affermano che la statualità palestinese porterà fine alla violenza palestinese. Argomentano che produrrà invece, come dice la formula, “due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza.” Ma se l’oggetto di quella violenza è la distruzione dello Stato di Israele, non l’istituzione di uno Stato indipendente, perché la violenza non continuerebbe (o aumenterebbe) attraverso il confine di una Palestina indipendente, come ha fatto attraverso il confine dalla Cisgiordania e da Gaza? Perché non dovrebbe incoraggiare i palestinesi a credere che il vecchio “piano fase per fase,” come lo storico Efraim Karsh spiegò, di prendere “qualsiasi territorio che Israele è preparato o costretto a cedergli e usarlo come trampolino di lancio per ulteriori guadagni territoriali fino a raggiungere la ‘completa liberazione della Palestina’” sta funzionando?
Nel loro libro, Agha e Malley non fanno alcuno sforzo per sminuire la violenza palestinese. Di Arafat, che Agha conosceva molto bene, dicono che “credeva in un risultato negoziato [ma] si aggrappava anche alla convinzione che la violenza fosse necessaria per raggiungere quel fine.” Quanto alla Seconda Intifada, che uccise più di 1.000 israeliani e oltre 3.000 palestinesi, scrivono di Arafat che “uno scontro armato, pensava, non poteva far male. Chissà, potrebbe aiutare.” Né molto è cambiato: quanto a Fatah, ancora il partito al potere nell’ANP e nell’OLP, valutano che “la dottrina religiosa di Hamas, non il suo ricorso alla violenza, è quello che la distingue da Fatah. Dall’inizio, il tratto caratteristico di Fatah era la lotta armata, spesso con scarsa attenzione se le sue vittime fossero civili o militari.” E concludono che “nel profondo, Oslo nonostante, Fatah non si riconciliò mai veramente con il deporre le armi.“
Ancora più sorprendente è quello che scrivono sui massacri di Hamas del 7 ottobre 2023: “Il 7 ottobre non fu né unicamente Hamas né distintivamente islamista. Fu palestinese fino in fondo.” E ancora, “non si può negare che i palestinesi abbracciarono largamente gli eventi del 7 ottobre perché parlavano ai loro sentimenti più profondi. Il 7 ottobre fu palestinese fino al midollo.“
Ecco dove siamo, 30 anni dopo Oslo e 77 anni dopo la risoluzione ONU sulla spartizione. L’attenzione della “comunità internazionale” e, troppo spesso, le pressioni degli Stati Uniti rimangono focalizzate su quello che Israele può o deve essere costretto a fare, mentre promesse palestinesi senza significato (come quelle recenti a Macron, Carney e Albanese) sono prese per buone. Ma il nucleo del problema rimane la realtà e il potenziale dal lato palestinese. La società palestinese abbandonerà mai il supporto per violenza e terrorismo? I sogni di distruggere Israele saranno mai sostituiti dagli sforzi di costruire un vero Stato? Uomini d’affari, funzionari onesti, dottori, avvocati, architetti e ingegneri sostituiranno mai gli assassini terroristi come i cittadini più onorati? Einat Wilf ha notato recentemente che “ci sono persone estremamente capaci a Gaza, come abbiamo visto il 7 ottobre. Quel massacro ha richiesto miliardi di dollari, anni di investimento in infrastrutture, leadership, strategia e visione, del tipo più perverso. Quello che dimostra è che la gente di Gaza non manca di capacità o risorse. Il loro problema è ideologico.” Dai primi giorni del Sionismo, quelli di Haj Amin al-Husseini, ad Arafat, al presente, il nazionalismo palestinese e persino l’identità palestinese sono stati irredentisti e negativi: legati alla distruzione, non alla costruzione. Ecco perché non c’è nessuno Stato palestinese.
II.
L’Autorità NazionalePalestinese fu creata con gli Accordi di Oslo per cambiare quello. I palestinesi avrebbero usato energia creativa sia nella Cisgiordania che a Gaza per costruire istituzioni di autogoverno. L’obiettivo della statualità fu ufficialmente adottato dagli Stati Uniti durante l’amministrazione George W. Bush. La “Roadmap,” emessa nel 2003 e formalmente intitolata “Una Roadmap Basata sulle Prestazioni per una Soluzione Permanente a Due Stati al Conflitto Israelo-Palestinese,” stabilì la statualità palestinese come suo obiettivo. Ma il raggiungimento di quell’obiettivo era condizionato alla condotta palestinese:
Una Soluzione a Due Stati al conflitto israelo-palestinese sarà raggiunta solo attraverso una fine alla violenza e al terrorismo, quando il popolo palestinese avrà una leadership che agisce decisamente contro il terrore e disposta e capace di costruire una democrazia realizzata basata su tolleranza e libertà.
Uno Stato palestinese doveva essere guadagnato, non assegnato. Per aiutare a raggiungere quell’obiettivo, Bush forzò la creazione del posto di primo ministro. L’idea era di limitare il potere di Arafat di mantenere le strutture corrotte che caratterizzavano l’AP, l’OLP e Fatah, e iniziare a costruire istituzioni. Mahmoud Abbas servì come primo ministro brevemente, finché fu messo da parte da Arafat. Dopo la morte di Arafat nel novembre 2004, Abbas fu rapidamente scelto per succedergli dall’ANP, OLP e Fatah, e si legittimò vincendo un’elezione presidenziale del gennaio 2005.
Rimanere al potere, non la costruzione di uno Stato, era ed è l’obiettivo di Abbas, ma la costruzione di uno Stato era l’obiettivo dell’uomo che servì come ministro delle finanze dal 2002 al 2005 e primo ministro dal 2007 al 2013 – Salam Fayyad. I suoi obiettivi erano chiari, ed è giusto chiamarli “sionisti” nell’ispirazione: “Israele come Stato non fu stabilito nel 1948,” Fayyad disse nel 2010. “La statualità fu proclamata nel 1948. Le istituzioni chiave dello Stato e i servizi erano lì molto prima.” Similmente, argomentò, “la Palestina non emergerà in un vuoto ma sulla forza delle istituzioni di governo” e la gente avrebbe “visto la statualità tradotta e trasformata dal regno del concetto al regno della realtà. Questo è enormemente potente.“
Spiegò questo più e più volte. Nel 2009 disse:
Gli israeliani hanno anche espresso preoccupazioni che il nostro programma non riguardi veramente la costruzione di uno Stato ma un piano per “dichiarare uno Stato,” che più enfaticamente non è il caso. Abbiamo già dichiarato il nostro Stato nel 1988 dentro il suo proprio set di condizioni oggettive, e non abbiamo bisogno di un’altra dichiarazione. Quello che è certamente vero è che se i palestinesi sono visti dalla comunità internazionale come aventi costruito uno Stato de-facto, anche se l’occupazione è ancora in atto, ci sarà grande pressione sugli israeliani per porre fine all’occupazione.
Nel 2024 disse:
il compito era sempre intorno a costruire lo Stato e proiettare la sua realtà sul terreno. Ed è per questo che ho investito molto nel processo di farlo accadere. Crearlo – lo crei solamente, lo fai diventare realtà, lo costruisci. Costruisci le sue istituzioni; proietti la sua realtà. Lascialo crescere sulla gente, invece che farlo succedere dall’alto in basso. E poi, lavora politicamente, in qualche modo, con la comunità internazionale per impartire sovranità.
Questo è precisamente di cosa erano Bush e la Roadmap, e tutto fallì. I palestinesi non hanno costruito istituzioni di governo, non hanno costruito uno Stato de-facto, e la realtà sul terreno è disastrosa. Perché il “Fayyadismo” o genuina costruzione di Stato produsse così poco? Una parte della colpa va a Israele, agli Stati Uniti e ai paesi europei e arabi, tutti i quali acclamarono Fayyad ma fecero troppo poco per aiutarlo. Per i paesi occidentali c’era sempre qualcosa di più importante: il “processo di pace” stesso. Negoziazioni, visite, dichiarazioni, summit – questi erano gli obiettivi prossimi; la costruzione di uno Stato era ardua, lunga, noiosa e non gratificante. I politici occidentali avevano bisogno di qualcosa appariscente per riempire un bisogno politico immediato. Questo è precisamente quello che stiamo vedendo oggi nel riconoscimento rituale dello Stato inesistente di Palestina da parte dei governi occidentali. Il “processo di pace” è diventato non un processo di costruzione, ma un’alternativa ad esso – sostituendo dichiarazioni e conferenze per il duro lavoro che, i leader sapevano, era improbabile che fosse intrapreso, riuscisse, o rendesse qualcuno molto contento nel breve tempo che la politica richiedeva.
Certamente non fu ricompensato dai palestinesi stessi. Nel 2005 Fayyad si dimise come ministro delle finanze per correre nelle elezioni parlamentari del 2006. Il suo partito ricevette il 2,4 percento dei voti e due seggi nel parlamento di 132 seggi. In quell’elezione, Hamas sconfisse Fatah, vincendo il 44 percento dei voti contro il 41 percento di Fatah.
Perché Hamas vinse? Il Presidente Bush adottò la visione che i palestinesi stavano rifiutando la corruzione di Fatah, votando per un governo pulito. Altri argomentarono che era uan questione di religione: Fatah era un partito secolare mentre Hamas era islamista, così la gente stava votando per l’Islam. Io avevo una visione diversa. Forse i palestinesi stavano votando per il partito che stava uccidendo ebrei, invece del partito che stava negoziando con loro. Forse questo voto mostrò, ancora una volta, che la costruzione di Stato passo dopo passo di Fayyad e i negoziati di Fatah per la statualità entrambi fallirono nel soddisfare quello che molti palestinesi volevano di più: lotta armata contro Israele.
Come primo ministro, Fayyad continuò a promuovere la costruzione dello Stato e nel 2009 annunciò un piano di 54 pagine, che in due anni avrebbe portato alla statualità, fondando istituzioni più e più forti. Fayyad ottenne un incoraggiamento occidentale, ma il suo piano si allontanava da Oslo e dal suo requisito di una risoluzione negoziata del conflitto. Doveva finire nel 2011 con una dichiarazione unilaterale di statualità sui confini del 1967. I politici di Fatah non l’apprezzarono perché li marginalizzava nel loro controllo dei negoziati con Israele. I leader di Fatah e Hamas notarono che era un abbandono della “lotta armata”, che era sempre stato il focus principale di Hamas e che era stato appoggiato da Fatah ancora quello stesso anno.
Il piano di Fayyad non funzionò e ovviamente la lotta armata non fu mai abbandonata. Ma può essere visto come un punto di svolta critico in un altro modo: il paradigma di Oslo era che la pace sarebbe stata negoziata tra israeliani e palestinesi. Fayyad stava ora buttando via la centralità del conseguimento di un accordo da parte israeliana.
Fayyad voleva costruire le istituzioni della statualità, ma altri palestinesi si chiedevano perché i palestinesi avrebbero dovuto preoccuparsi di tutto quel travaglio se potevano raggiungere la statualità senza di esso. E se uno Stato palestinese sarebbe potuto nascere non dal duro lavoro di costruire delle istituzioni, non abbandonando la violenza, ma come un regalo dai governi stranieri? E se diventasse chiaro che la “lotta armata” contro Israele ispirasse non il rifiuto di quei governi stranieri, ma ulteriori richieste nei confronti di Israele e ulteriore supporto per la causa palestinese?
Ecco precisamente dove siamo oggi. Le condizioni che Bush richiese vent’anni fa sembrano quasi ingenue ora. Tutti capiscono che i palestinesi non raggiungeranno mai alcun prerequisito stabilito. Così, leader come Macron accettano invece le promesse vuote di Abbas che le “riforme” sono avvenute, sono in corso, o accadranno presto. Non importa che quello stia mentendo, anzi capiscono pienamente che stia mentendo, ma hanno deciso che le bugie non contano. L’approccio alternativo è quello di Starmer, che dice che Israele deve raggiungere obiettivi impossibili entro una certa data o riconoscerà uno Stato palestinese. Allora potrà farlo e dare la colpa a Israele allo stesso tempo. In tutti questi casi, l’obiettivo è riempire un bisogno politico (cioè, attaccare Israele), piuttosto che portare la statualità palestinese o qualsiasi miglioramento concreto nella vita dei palestinesi. La posizione degli Stati Uniti negli anni di Biden era una variante di questo approccio, e utilizzava una frase che è diventata quasi universale ora. Il 7 febbraio 2024, esattamente quattro mesi dopo i massacri di Hamas, il Segretario di Stato Antony Blinken tenne un discorso preparato in Israele e chiese “un percorso concreto, vincolato nel tempo e irreversibile” verso uno stato palestinese. Con quelle parole Blinken distrusse la richiesta della Roadmap di Bush con precondizioni per la creazione di uno stato palestinese. “Vincolato nel tempo” e “irreversibile” sono l’esatto opposto dell’idea “basata sulle prestazioni” della Roadmap.
La traiettoria nel corso dei decenni è chiara. Prima si diceva che i negoziati con Israele erano assolutamente necessari. Israele offrì pace e terra (molto chiaramente sotto Ehud Barak nel 2000 e poi Ehud Olmert nel 2008, come vedremo presto) ma ciò avrebbe richiesto compromessi difficili anche da parte palestinese, quindi i leader palestinesi dissero no. Poi arrivò l’idea di costruire uno stato dal basso verso l’alto e, una volta che le istituzioni fossero state pronte, dichiarare uno stato unilateralmente. Ma i palestinesi non costituirono quelle istituzioni, bloccati da una combinazione di corruzione e incompetenza dell’ANP, OLP e Fatah; movimenti terroristici che avevano un ampio sostegno nella loro dedizione agli attacchi violenti contro Israele, invece di azioni positive per creare nuove realtà; e dal loro più profondo interesse nel distruggere Israele, piuttosto che nel creare uno stato che sarebbe sicuramente povero, dovendo affrontare limitazioni alla sua sovranità, e che sarebbe politicamente e psicologicamente deludente. Quindi, ora, la “comunità internazionale” sta gettando la spugna e semplicemente riconosce uno stato palestinese comunque – anche se non esiste.
Fu l’Unione Sovietica che aprì la strada, riconoscendo la “Palestina” nel 1988. I satelliti sovietici e i simpatizzanti iniziarono naturalmente a seguire, così come gli stati arabi e musulmani. Ma le nazioni occidentali resistettero onorevolmente, imponendo richieste e precondizioni. Ora stiamo assistendo al crollo di quella resistenza di principio. Né Israele, né le nazioni arabe moderate, né le democrazie occidentali potevano costringere o indurre i palestinesi a sviluppare una leadership decente e moderata e costruire istituzioni statali moderne. Sotto la pressione politica progressista e le richieste di crescenti popolazioni musulmane, anche le democrazie anglofone — Canada, Australia e Regno Unito — che un tempo erano un baluardo risoluto contro le richieste radicali e spesso votavano contro le risoluzioni ONU insensate e unilaterali hanno rinunciato. Sanno bene che cosa sarà necessario perché uno stato palestinese abbia successo, ma non gli importa più, le pressioni politiche sono troppo grandi per resistere, e desiderano punire Israele e il suo governo di destra per il peccato di essersi difesa. Quale palestinese non può essere colpito dal fatto che così tanti leader mondiali non richiedono nemmeno il rilascio di tutti gli ostaggi, prima di fare le loro dichiarazioni autoindulgenti?
Niente è stato più pericoloso per la costruzione di uno stato palestinese decente, democratico e pacifico di tale “sostegno”. Il messaggio ai palestinesi è chiaro: quello che dovete fare per far riconoscere il vostro stato è assolutamente nulla. Nessuna riforma, nessuna costruzione di istituzioni, nessuna democrazia, nessuna sconfitta dei gruppi terroristici, nessun governo competente. Tutto questo accadrà magicamente nello stato palestinese una volta che verrà in esistenza. L’uso della violenza brutale e disumana porterà alcune belle ricompense, mentre le reazioni di Israele gli porteranno punizioni — perché è chiaro come il cristallo che senza gli attacchi del 7 ottobre Macron, Starmer, Albanese e Carney non riconoscerebbero oggi questo stato immaginario.
L’ultimo punto merita più attenzione. Come ha detto David Weinberg, scrivendo non di Gaza ma della Cisgiordania, “Nessuno ha l’illusione che qualsiasi ‘autorità’ palestinese possa o voglia contrastare l’accumulo di eserciti terroristici islamisti sostenuti dall’Iran in queste aree che minacciano direttamente Gerusalemme e il centro di Israele. Solo l’IDF può e lo farà; quindi, le operazioni militari su larga scala in luoghi come Jenin, Tulkarm e Nablus per sradicare risolutamente tali minacce continueranno.” Ogni israeliano sa che è giusto. Riconoscere la statualità palestinese ora, significa insistere che l’azione militare israeliana in quelle aree è illegittima, che è un modo indiretto di dire che l’autodifesa israeliana è illegittima.
E quell’autodifesa israeliana dovrà continuare, non comunque, ma soprattutto se uno stato palestinese venisse mai creato. Come scrivono Agha e Malley, “Gli israeliani avrebbero potuto essere più disponibili a essere convinti, se fosse stata offerta loro una ragione di credere che i ritiri territoriali avrebbero prodotto sicurezza. La loro esperienza suggerisce il contrario.” Perché come abbiamo visto, la mera creazione di una Palestina debole, senza sbocco sul mare e povera, non porterà ai palestinesi la vittoria storica ed emotiva che cercano. Solo la distruzione di Israele lo farà, e gli sforzi per avvicinare quel giorno continueranno. L’istituzione di uno stato palestinese sarà vista come una vittoria tremenda ma parziale—e una che fornisce a molti palestinesi l’assicurazione che la vittoria finale è ancora possibile.
Vale la pena ricordare a che cosa i palestinesi hanno di fatto detto “no” — cioè le offerte israeliane di statualità che hanno rifiutato. Ecco il resoconto del defunto Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese durante il periodo di Oslo, poi ministro dei negoziati, e quindi segretario generale dell’OLP dal 2015 al 2020.
Il 23 luglio 2000, nel suo incontro con il Presidente Arafat a Camp David, il Presidente Clinton gli disse: “Sarai il primo presidente di uno stato palestinese, entro i confini del 1967 — più o meno, considerando lo scambio di terre — e Gerusalemme Est sarà la capitale dello stato palestinese, ma vogliamo che tu, come uomo religioso, riconosca che il Tempio di Salomone si trova sotto l’Haram al-Sharif.” Yasir Arafat disse a Clinton con sfida: “Non sarò un traditore. Qualcuno verrà a liberarlo dopo dieci, cinquanta o cento anni. Gerusalemme non sarà altro che la capitale dello stato palestinese, e non c’è niente sotto o sopra l’Haram al-Sharif eccetto Allah.” Ecco perché Yasir Arafat fu assediato, ed ecco perché fu ucciso ingiustamente. [Si noti che, in realtà, Arafat morì di cause naturali.]
Nel novembre 2008 … Olmert … offrì i confini del 1967, ma disse: “Prenderemo il 6,5% della Cisgiordania, e daremo in cambio il 5,8% dalle terre del 1948, e lo 0,7% costituirà il passaggio sicuro, e Gerusalemme Est sarà la capitale, ma c’è un problema con l’Haram e con quello che chiamarono il Bacino Sacro.” Anche Abu Mazen [cioè, Mahmoud Abbas] rispose con sfida, dicendo: “Non sono in un mercato o in un bazar. Sono venuto a delimitare i confini della Palestina — i confini del 4 giugno 1967 — senza togliere un singolo centimetro, e senza togliere una singola pietra da Gerusalemme, o dai luoghi sacri cristiani e musulmani.” Ecco perché i negoziatori palestinesi non firmarono.
Se quelle offerte israeliane erano insufficienti, nessuna lo sarà mai. E quelle offerte sono inconcepibili proprio ora per gli israeliani, perché i rischi che comporterebbero sono inaccettabili per gli israeliani di sinistra, destra e centro dopo il 7 ottobre. Olmert era infatti disposto a mettere l’intera Città Vecchia di Gerusalemme sotto controllo internazionale, una concessione stupefacente che era improbabile passasse il suo Gabinetto o la Knesset, e non ripeterà mai più. Ma anche questo non suscitò alcuna risposta da Abbas, né rispose alla proposta di pace Kerry-Obama nel 2014.
Quindi il “progresso” della “comunità internazionale”, dall’insistere sui negoziati, all’insistere sulla costruzione dello stato, all’insistere su niente; uno stato palestinese deve essere riconosciuto immediatamente senza negoziati tra questo e Israele, e senza aver raggiunto nessuno dei normali prerequisiti per la statualità.
III.
C’è una certa logica in quello sviluppo, se non ti importa veramente di israeliani e palestinesi, e se stai agendo per ragioni politiche interne. Ma non funzionerà, per due ragioni. Prima, al momento c’è una resistenza chiave tra le nazioni più potenti: gli Stati Uniti, che stanno ancora insistendo che questa ondata di riconoscimento della “Palestina” è una ricompensa per il terrore. Infatti, il 31 luglio, il Dipartimento di Stato ha imposto nuove sanzioni sui funzionari dell’ANP e dell’OLP per “non aver rispettato i loro impegni e aver minato le prospettive di pace” e per “continuare a sostenere il terrorismo incluso l’incitamento e la glorificazione della violenza (specialmente nei libri di testo), e fornire pagamenti e benefici a sostegno del terrorismo ai terroristi palestinesi e alle loro famiglie.“
Secondo, gli israeliani non si suicideranno. Come ha detto Michael Oren, “dai massacri del 7 ottobre 2023, la maggioranza degli israeliani vede uno stato palestinese come una ricompensa pericolosa per il terrore. Nessuno sa come sarebbe quello stato, chi lo governerebbe, o se sarebbe democratico e pacifico o islamico e jihadista. Nessuno può portare delle prove che i palestinesi siano capaci di mantenere uno stato-nazione.” Il consiglio che solo quando ci sarà uno stato palestinese gli israeliani avranno “vera sicurezza genuina”, che il Segretario Blinken e centinaia di altri diplomatici hanno ripetuto per anni, ottiene solo risate a Gerusalemme.
I cinici o i machiavellici potrebbero suggerire che gli israeliani accettino una qualche formula ora in cambio di una statualità palestinese più tardi (o, molto più tardi) quando certe condizioni saranno soddisfatte — perché tutti sanno che le condizioni non saranno mai soddisfatte. Quindi lo stato non sarà mai creato e Israele otterrà il credito ora, per aver detto le parole magiche. Il problema con questa formula è che come abbiamo visto, non ci sono più condizioni. Le promesse vuote sono finite. Anche mentre la guerra continua, anche mentre gli ostaggi rimangono in cattività, anche mentre l'”Autorità Palestinese riformata” rimane interamente nel mito, paese dopo paese insistono sulla statualità palestinese immediata. Gli israeliani sanno che qualsiasi condizione stabiliscano, sarà alla fine abbandonata.
Questo è un momento strano, allora: mentre l’insistenza sul riconoscimento immediato della statualità palestinese si diffonde, la possibilità di quel risultato si restringe — non da ultimo perché i suoi sostenitori rendono sempre più chiaro che sono indifferenti (o ostili) alla sicurezza degli israeliani. Agha e Malley dicono questo sui leader che ora chiedono la statualità palestinese immediata:
Sanno che questo non è plausibile e che non possono descrivere un piano pratico per raggiungerlo. In fondo, i credenti nei Due Stati, messi a confronto con tutte le ragioni per arrendersi alla loro fede, si appoggiano su un singolo argomento: non c’è alternativa. La partizione è considerata inevitabile, anche se diventa più difficile da immaginare, perché non sono capaci di immaginare altro … Il risultato più probabile è la perpetuazione dello status quo. … È durato per oltre mezzo secolo, nonostante ripetute obiezioni e necrologi, superando di gran lunga i diciannove anni durante i quali Israele non controllava la Cisgiordania o Gaza.
Hanno ragione. Molti sostenitori della Soluzione dei Due Stati riconoscono tutti i problemi, ma dicono “non c’è alternativa”, come disse il ministro degli esteri francese al grande incontro di luglio alle Nazioni Unite e come spesso disse Blinken.
Ma ci sono alternative. La prima e più ovvia, come riconoscono Agha e Malley, è la situazione che resiste dal 1967. Tutti nel mondo diplomatico insistono che è “insostenibile”, ma, come ho argomentato in precedenza, qualcosa che si è mantenuto per 58 anni non è esattamente effimero. La leadership palestinese in Cisgiordania resta occupata a rimanere al potere, un obiettivo delicato quando Abbas compirà novant’anni a novembre e quello che seguirà è incerto. Un successore indosserà i suoi tre cappelli e quelli di Arafat, come capo di ANP, OLP e Fatah? La lotta per la successione sarà breve e pacifica, o lunga e omicida? Dato lo stato di quelle tre organizzazioni, sarà importante sapere chi sarà a succedergli o forse sono oramai incapaci di riconquistare la stima e il rispetto del pubblico? Una cosa dovrebbe essere chiara: mentre sono impegnati in una lotta brutale per il potere tra loro stessi, quei leader di ANP, OLP e Fatah avranno capacità limitata o inesistente di costruire nuove istituzioni palestinesi o di negoziare la pace con Israele. Se dovessi scommettere su come apparirebbe la Cisgiordania tra un anno da oggi, o cinque anni, direi che un cambiamento profondo è del tutto improbabile.
La principale questione diplomatica ora dibattuta sulla governance futura a Gaza è quale ruolo giocherà l’ANP lì, e se sarà in grado di governare il territorio come faceva prima che Hamas la espellesse in cinque giorni violenti nel 2007. La maggior parte delle proposte diplomatiche, come la “Dichiarazione di New York”, sono irremovibili sul fatto che l’ANP governerà ancora Gaza come parte di uno stato unitario.
Storicamente però la Cisgiordania e Gaza sono state spesso separate, anche se a volte collegate. Dopo lunghi periodi di dominio da parte degli ottomani e dell’Egitto, Gaza — come la Cisgiordania — divenne parte del Mandato britannico per la Palestina subito dopo la Prima Guerra Mondiale. L’Egitto prese Gaza nel 1948 quando i britannici se ne andarono, anche se non annesse mai l’area; la Giordania prese la Cisgiordania, quindi dal 1948 al 1967, la Cisgiordania e Gaza furono governate da due paesi diversi. Il periodo di maggiore collegamento furono gli anni di Oslo, quando l’ANP di Arafat dominava sia Gaza che la Cisgiordania. Una volta che Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007, i collegamenti sono stati ampiamente spezzati di nuovo.
Chiunque propone la statualità palestinese crede che Israele debba tornare quasi interamente ai “confini del 1967”, che sono in realtà le linee di armistizio del 1949, e crede che lo stato palestinese immaginario debba comprendere sia Gaza che la Cisgiordania. Nessuno sembra preoccupato che l’ANP non abbia oggi alcuna capacità di governare o ricostruire Gaza e non abbia avuto alcun ruolo lì per un’intera generazione. La loro idea è che il mondo aiuterà Gaza a riprendersi sotto la tutela internazionale e dell’ANP, e a un certo punto Gaza si unirà alla Cisgiordania come un distretto normale sotto il dominio di Ramallah — o magari da Gerusalemme, se un accordo negoziale dividerà quella città e ne farà la capitale palestinese.
Il mio focus qui non è il futuro di Gaza. Credo che quando la guerra finirà, sarà creato un comitato internazionale per ricostruire Gaza i cui membri saranno stati arabi chiave (Giordania, Egitto, i donatori del Golfo), l’UE e gli Stati Uniti. Lavorerà per ricostruire le scuole (si spera lungo le linee moderne degli Emirati piuttosto che quelle del Qatar o peggio ancora dell’UNRWA, dove l’educazione è principalmente indottrinamento nel terrorismo e antisemitismo), degli ospedali e tutte le funzioni civili. La benedizione dell’ANP legittimerà qualsiasi struttura di governance o amministrativa imposta a Gaza, così come il ruolo straniero intrusivo, e l’ANP cercherà fortemente di far credere di essere centrale a tutto questo. Ciò potrebbe rafforzare la sua posizione internazionale, ma farà poco per migliorare la sua reputazione e sostegno in Cisgiordania o a Gaza perché con ogni probabilità eseguirà le sue funzioni con la consueta incompetenza e corruzione.
La parte difficile è la sicurezza a Gaza: chi la fornirà? L’ANP non può, mancando del numero richiesto di truppe addestrate. Il più probabile è una combinazione disordinata di polizia palestinese controllata, operatori di sicurezza privata a contratto e forze arabe/musulmane che forse alcuni stati potrebbero essere disposti a inviare almeno per eseguire compiti limitati come proteggere un magazzino di cibo o un edificio governativo. Nel frattempo, come in Cisgiordania, l’IDF farà quello che l’ANP e le forze arabe probabilmente non faranno: combattere Hamas e prevenire la sua ricostituzione.
Ma tuttavia il massimo che si può sperare a Gaza, se Hamas viene distrutto e l’intero territorio viene fisicamente ricostruito da una grande coalizione internazionale, è che somigli alla Cisgiordania. Ci sarà ancora un residuo di vent’anni di indottrinamento di Hamas di un’intera generazione, ci saranno ancora migliaia di giovani uomini addestrati da Hamas a combattere, e ci saranno ancora tutti quei gazawi che hanno votato per Hamas e che dicono ai sondaggisti che lo sostengono ancora. Un sondaggio del maggio 2025 ha trovato che il 64% dei gazawi si oppone al disarmo di Hamas e una maggioranza si oppone all’esilio dei leader militari di Hamas; se si tenessero elezioni legislative con tutti i partiti che concorsero nel 2006, i voti a Gaza andrebbero al 49% per Hamas contro il 30% per Fatah. Il 46% di tutti i palestinesi ha detto ai sondaggisti di sostenere “un ritorno ai confronti e all’intifada armata” (un numero più alto che nel sondaggio di settembre 2023 citato prima). Quando è stato chiesto quale dovrebbe essere l’obiettivo palestinese più vitale, il 41% ha detto la statualità, inclusa Gerusalemme Est come capitale—ma il 33% ha detto che deve essere il “diritto di ritorno” alle loro città e villaggi del 1948, che significherebbe naturalmente la distruzione di Israele come stato ebraico.
Quelli che ora chiedono il riconoscimento immediato della statualità palestinese non sembrano mai citare nulla di tutto questo, o riconoscere la vera condizione della società palestinese.
La metà della sua popolazione è stata quasi interamente separata dall’altra metà per una generazione, con la metà a Gaza governata dal 2007 da un culto della morte e la metà in Giudea e Samaria governata per ancora più tempo da politici corrotti che i palestinesi odiano. Riconoscere uno stato palestinese oggi, non solo fallisce nel risolvere questa crisi nella società palestinese — una crisi non solo di governance, ma di ideologia e obiettivi nazionali — ma fallisce anche nel riconoscerla. Invece, ancora una volta, la risposta è “non c’è alternativa” e lo status quo dal 1967 è “insostenibile”.
L’idea che le istituzioni palestinesi dovrebbero essere costruite prima, come propose largamente Fayyad, ma con una tempistica necessariamente molto più realistica, è respinta categoricamente. Migliorare la vita dei palestinesi dal punto di vista pragmatico — lavoro migliore, educazione migliore, futuro migliore, governo migliore — sembra non soddisfare nessuno nei circoli diplomatici perché non attenua nessuna delle pressioni politiche nei confronti dei governi. I manifestanti stanno circondando i parlamenti, spruzzando vernice sugli edifici governativi con lo slogan “dal fiume al mare”, non “costruiamo istituzioni efficaci”. Quindi l’alternativa pragmatica di una versione migliorata dello status quo è politicamente “insostenibile”.
Ma l’alternativa di creare uno stato palestinese ora fallirà perché è una minaccia molto più grande per Israele di quella che gli israeliani (o qualsiasi nazione) sarebbero disposti ad accettare. Come abbiamo visto, questa “alternativa” ampiamente sostenuta non è nemmeno l’obiettivo reale del nazionalismo palestinese, e creerebbe una rampa di lancio per futuri attacchi su Israele da quello che diventerebbe territorio sovrano sotto il diritto internazionale.
IV.
La “Soluzione a Uno Stato” insensata di uno stato e società israeliano/palestinese combinati, come il “diritto di ritorno”, distruggerebbe Israele come stato ebraico. Né è credibile oggi che tale stato raggiungerebbe mai la pace interna, o soddisferebbe i desideri di israeliani o palestinesi. Come dicono Agha e Malley, “Una pura soluzione a uno stato è poco attraente per molti palestinesi … I palestinesi la invocano più come una minaccia per motivare gli israeliani ad accettare una soluzione a due stati che come un’aspirazione genuina.“
Ma c’è un’alternativa che esiste da molto tempo, ed è ampiamente respinta come irrealistica e impossibile, anche se è molto più realistica delle soluzioni a uno o due stati. Quelli che prestano maggiore attenzione, e lo fanno da decenni, sanno che la soluzione a due stati non accadrà. Agha e Malley, negoziatori di pace veterani, lo ammettono:
l’idea della partizione esiste da oltre 80 anni. I tentativi di raggiungere una Soluzione a Due Stati sono durati un quarto di secolo, sotto configurazioni vastamente diverse di politica e potere. In termini di longevità, creatività e il cast di personaggi coinvolti, sarebbe difficile criticare la ricerca di una Soluzione a Due Stati. Eppure indipendentemente da organizzazione, contenuto, personalità e stile, il risultato non variò molto … Arriva un momento quando anche i più ottimisti devono ricredersi.
Quindi qual è l’idea che poi formulano? La Giordania. Come scrivono, “un altro risultato potenziale è una confederazione giordano-palestinese che comprende il Regno Hashemita e la Cisgiordania. … Gli israeliani … potrebbero vedere una presenza di sicurezza giordana in Cisgiordania come affidabile, più di quanto lo sia, certamente, una palestinese, più di quanto sia, possibilmente, una occidentale.” Re Hussein propose tale confederazione nel 1972: un regno unito consistente in due distretti, con piena autonomia della Cisgiordania eccetto per il controllo della Giordania degli affari militari e di sicurezza e degli affari esteri. Nel 1977, il Presidente Carter la sollevò con Menachem Begin; in vari momenti, il Presidente Sadat d’Egitto e Henry Kissinger abbracciarono l’idea. Hussein e Arafat si accordarono su tale confederazione nel 1985. Ma la Giordania rinunciò all’idea nel 1988 e oggi la respinge, chiedendo la statualità palestinese.
L’idea ha però ancora un certo valore. Shlomo Ben-Ami, il politico israeliano del partito laburista (e poi Meretz) che servì come ministro degli esteri sotto Ehud Barak, scrisse questo nel 2022:
Dato che tutti gli altri tentativi di risolvere il conflitto israeliano-palestinese sono falliti, potrebbe essere tempo di rivisitare l’opzione giordana. … La rinuncia di Re Hussein alla rivendicazione della Giordania sulla Cisgiordania non fu mai ratificata dal parlamento del paese e fu vista da molti, incluso l’ex principe ereditario Hassan bin Talal, come incostituzionale. Nel 2012, disse che dato che nessuna Soluzione a Due Stati era ancora possibile, l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe lasciare che la Giordania recuperi il suo controllo del territorio. … Una confederazione giordano-palestinese ha una logica più convincente in termini di economia, religione, storia e memoria.
Re Hussein, come Israele e la maggior parte dei leader arabi, non favorì mai uno stato palestinese completamente indipendente. Temeva che potesse essere radicalizzato e cadere nelle mani di “un leader tipo Gheddafi”, come aveva detto Jimmy Carter. Per Hussein, uno stato palestinese era destinato a ereditare i tratti rivoluzionari del movimento nazionale palestinese. Nel 1985, Hussein raggiunse un’intesa con il presidente dell’OLP Yasir Arafat in cui i palestinesi avrebbero esercitato il loro “diritto inalienabile di autodeterminazione” nel contesto degli Stati Arabi confederati di Giordania e Palestina. Hussein difese questo come una questione di “destino comune“, “una questione di storia condivisa, esperienza, cultura, economia e struttura sociale.” Credeva che il caotico movimento nazionale palestinese sarebbe stato salvato collegando il suo destino con la Giordania, “uno stato sovrano che gode di una credibile posizione internazionale.“
È sorprendente che la preoccupazione espressa da quelli che favoriscono un ruolo per la Giordania è precisamente quello che abbiamo visto al peggio il 7 ottobre 2023: la radicalizzazione di qualsiasi stato palestinese perché “erediterebbe i tratti rivoluzionari del movimento nazionale palestinese” che era “caotico”. Il punto sulla confederazione dovrebbe essere chiaro: finalmente partirebbe il vecchio Mandato per la Palestina in una parte ebraica e una araba, e lo farebbe in un modo che garantisca — attraverso l’esercito giordano e i mukhabarat (polizia segreta) — che Hamas e altri gruppi terroristici non prenderebbero il controllo della parte araba o la userebbero come rampa di lancio per attacchi su Israele.
Agha e Malley riconoscono che tali proposte incontreranno “ostacoli considerevoli” in Giordania. Ma spiegano i vantaggi per entrambe le parti:
Per la Giordania, una confederazione significherebbe espandere la sua dimensione e peso politico. Per l’élite palestinese, Amman già serve come un hub politico e sociale sostituto. … I palestinesi guadagnerebbero forza economica e strategica, ridurrebbero la loro vulnerabilità e dipendenza da Israele, otterrebbero spazio politico prezioso e formerebbero parte di uno stato più consequenziale.
Il sostegno palestinese per l’idea è aumentato e diminuito, ma il principale sondaggista palestinese disse nel 2018 che sondaggi precedenti avevano trovato il sostegno essere sopra al 40%. Perché sollevare l’idea della confederazione qui, e perché ora? In parte per dimostrare che non è una nozione idiosincratica, ma piuttosto un’opzione con radici storiche e vantaggi reali. In parte come promemoria che è semplicemente falso e facile dichiarare che “non c’è alternativa” alla piena statualità palestinese. E, in parte, perché la statualità palestinese non accadrà, quindi la contemplazione di alternative sarà richiesta a un certo punto futuro. Uno dei peggiori effetti della posizione “non c’è alternativa” è stato soffocare ogni discussione su quali altre opzioni potrebbero esistere.
Si può argomentare, naturalmente, che tale confederazione non soddisferebbe il nazionalismo palestinese. Ma nella sua forma attuale il nazionalismo palestinese non può essere completamente soddisfatto senza che la Palestina si estenda “dal fiume al mare” — cioè, sostituendo Israele piuttosto che vivendo “fianco a fianco in pace e sicurezza”. Una forma più positiva di nazionalismo palestinese sarebbe infatti soddisfatta dalla completa autonomia locale in una confederazione con la Giordania, che è uno stato arabo, musulmano e già per metà palestinese. Quelli che desiderano argomentare che questo è insufficiente — che l’identità nazionale palestinese o l’etnia richiedono uno stato indipendente — devono dirci perché lo stesso non è vero per il Kurdistan, il Tibet, lo Xinjiang, il Quebec e il Somaliland, tra molti altri casi. Le dichiarazioni che i palestinesi hanno un “diritto” a uno stato interamente separato e indipendente non sono convincenti seguendo la storia o il diritto internazionale, e non sono più persuasive di quanto sia dichiarare un milione di volte che l’OLP è la “voce sola e legittima del popolo palestinese” quando ciò è manifestamente non vero.
Cosa convincerebbe la Giordania ad accettare questa opzione? Oggi, niente; il clamore per la statualità palestinese è troppo grande. Ma dopo un po’, quando la guerra di Gaza sarà finita e la statualità palestinese sembrerà non più vicina, quando stati arabi seri come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che vogliono una fine al conflitto israelo-palestinese riconosceranno che uno stato palestinese sarà instabile e radicale, quando miliardi di aiuti per la Giordania saranno offerti per un ruolo nell’aiutare a risolvere il conflitto tornando alla posizione che Re Hussein una volta prese, e quando i palestinesi che cercano di porre fine al dominio israeliano in tutta la Cisgiordania si rivolgono alla Giordania, le cose potrebbero cambiare.
A un certo punto ai palestinesi dovrebbe essere offerta questa opzione aggiuntiva, quando diventerà chiaro ancora una volta che nonostante il clamore a Turtle Bay non ci sarà uno stato palestinese. Forse il modo per arrivarci è quello offerto da Salah Khalaf, un fondatore di Fatah che era il capo dell’intelligence per l’OLP e il secondo funzionario più anziano in Fatah dopo Arafat. Agha e Malley lo citano con il suo nom de guerre, Abu Iyad:
Dopo l’accettazione da parte dell’OLP della soluzione a due stati alla fine degli anni ’80, Abu Iyad, allora uno dei suoi funzionari più anziani, parlò di palestinesi che godevano di cinque minuti di indipendenza prima di impegnarsi in colloqui con la Giordania su una forma di confederazione.
Ho sentito quella frase ripetuta negli anni da alcuni palestinesi che pensano, che sono spesso stanchi e che cercano una via da seguire che li separi da Israele, garantisca molto autogoverno e reale autonomia, e porti ai loro figli una vita migliore, tuttavia impedendo ai radicali, estremisti e terroristi palestinesi di trasformare la loro immaginaria “Palestina” pacifica in un simulacro della Gaza di ieri – prima del 7 ottobre – o di quella di oggi. Comprendono qualcosa di elementare che i Macron e i Carney e gli Starmer non comprendono: il conflitto israelo-palestinese e l’ampio sostegno alla violenza nella società palestinese non saranno risolti dall’incantesimo magico del riconoscimento, e saranno infatti peggiorati da esso.
Fino a quando il nazionalismo palestinese non sarà fondamentalmente incentrato sulla distruzione di Israele, e fino a quando opzioni come un legame organico con la Giordania non saranno esaminate, né quella crisi interna né il confronto violento tra Israele e i palestinesi saranno risolti. Gli israeliani non commetteranno, per dirlo ancora una volta, suicidio, e questo significa che non daranno potere a coloro che li ucciderebbero insieme ai loro figli e distruggerebbero il loro stato. Questo è il fatto che deve essere affrontato, ed è quotidianamente evitato da diplomatici superficiali che pretendono di proteggere i palestinesi e da politici compiacenti motivati dal loro bisogno di più voti.
Uno stato palestinese che vive in pace e sicurezza fianco a fianco con Israele è un miraggio: nonostante tutte le affermazioni che ci stiamo avvicinando ad esso, si allontana sempre più. Forse un giorno la Repubblica Islamica dell’Iran cadrà, e un nuovo governo lì smetterà di sostenere ogni gruppo terroristico che desidera distruggere Israele. Forse un giorno i leader delle maggiori democrazie tratteranno Israele con equità e giustizia, e esigeranno e faranno rispettare cambiamenti fondamentali nella società palestinese che sradichino gli effetti disastrosi di un secolo di antisemitismo omicida e sforzi per distruggere Israele. Forse i palestinesi un giorno troveranno e sosterranno un leader nazionale che, diversamente da Husseini o Arafat, desidera veramente costruire una società decente, piuttosto che attaccare quella accanto. Ma fino a quando tali cose non accadranno, la statualità palestinese deve rimanere un’impossibilità.
La metafora più appropriata per la vita palestinese oggi è il paesaggio urbano di Gaza come esisteva il 6 ottobre: dietro e sotto le facciate di case, ospedali, scuole e moschee giaceva una vasta rete di tunnel del terrore e depositi di armi. E alla base di quella rete fisica giaceva, e giace ancora, una rete intellettuale e ideologica di credenze – credenze che portano a un tale sostegno diffuso per Hamas anche oggi, e che portano l’Autorità Palestinese a nominare scuole e piazze con i nomi degli assassini terroristi di bambini, e a pagare stipendi e ricompense ai terroristi nelle prigioni israeliane.
Israele ha fatto molto per eliminare l’infrastruttura fisica del terrore, ma non può esserci uno stato palestinese fino a quando non finisca anche la rete intellettuale che premia più la “lotta armata” contro lo stato ebraico che la costruzione di una vita normale per i palestinesi. Questo è un compito per i palestinesi, non per gli israeliani, ed è un compito che i palestinesi non intraprenderanno mentre le organizzazioni internazionali e i leader di nazioni importanti li assicurano che la statualità arriverà a loro presto e senza condizioni.
Informazioni sull’autore
Elliott Abrams è un senior fellow per gli studi mediorientali presso il Council on Foreign Relations ed è il presidente di Tikvah.