Riceviamo dalla Comunità di Trieste
Un cammino da riprendere insieme, prima che sia troppo tardi!
La Comunità sta vivendo un difficile momento di transizione, e soprattutto sta perdendo di vista la propria identità. Di conseguenza, noi, senza rendercene conto, stiamo svalutando il nostro modo di essere ebrei. Perché si è arrivati a questa situazione? Chi ha permesso un simile allontanamento dalle istituzioni e dalle tradizioni?
Tutti noi, dal singolo iscritto fino ai vertici istituzionali, dobbiamo sentirci responsabili perché non solo abbiamo elevato l’indifferenza, l’opportunismo, l’egoismo, l’arroganza e la maldicenza a stile di vita, ma abbiamo anche dimenticato i più alti valori dell’idea ebraica, sedotti dalla dannosa concezione di una vita comoda e conveniente che ci sta disgregando nel buio dell’assimilazione. E come effetto, i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti hanno prodotto malessere, insoddisfazione, delusione provocando quella sciagurata frattura tra gli iscritti e le Istituzioni, tra l’anima laica e l’anima religiosa della nostra Comunità, con il risultato di un continuo sfaldamento e una lenta agonia.
Chi potrebbe accettare l’idea di una possibile fine della Comunità? Nessuno, credo. Allora questa deve essere la nostra più grande preoccupazione. Per evitare una simile catastrofe dobbiamo non solo volerlo, facendo autocritica con molta umiltà, facendo teshuvà, ma soprattutto dobbiamo tutti insieme imparare a pregare Dio Benedetto affinché ciò non avvenga, e ad avere fiducia in Lui.
Nel Salmo 146 ai versi 3 e 4 leggiamo: “Non riponete la vostra fiducia nei potenti, nell’uomo che non può dare la salvezza. Esalato il suo spirito, egli torna alla terra, e in quel momento finiscono tutti i suoi progetti”. Questi due versetti sono di vitale importanza per l’ebreo. Purtroppo, molto spesso, ci dimentichiamo che Dio Benedetto è la nostra forza, la nostra speranza, la nostra salvezza, e Lo invochiamo solo quando ci troviamo in difficoltà o in pericolo; invece Dio deve essere sempre presente in ogni istante della nostra vita, deve essere la nostra guida spirituale. Con questo non voglio dire che dobbiamo tutti diventare ultraortodossi, ma voglio solo ricordare che Dio c’è, e aspetta che ce ne accorgiamo e che Lo cerchiamo. Potremmo parlare giorni e giorni su questo argomento, ognuno rimarrebbe della propria idea, e le parole resterebbero parole. Proviamo, però, a cercarLo, ci accorgeremo che Dio ascolta le parole del cuore puro e sincero. Se noi vogliamo, Dio entra nella nostra vita, parla con noi, ci indica la strada, e fa la nostra volontà nella misura in cui noi facciamo la Sua volontà, che è volontà di pace, di amore, di giustizia.
Purtroppo la nostra volontà resta inattiva perchè noi vorremmo una religione che non pretenda nulla; siamo disposti ad accettare Dio, a credere in Lui purchè non richieda sacrifici o rinunce, purchè non imponga regole di comportamento o divieti. E invece sono le azioni, ispirate ai principi della Torà, le mitzwoth, che danno al popolo ebraico una connotazione unica e specifica. Se si toglie la Torà al popolo ebraico, vengono a mancare le fondamenta di quell’idea universale che ha reso e rende Israele imperituro. L’ebreo esiste perché esiste la Torà.
Non comprendo, quindi, l’atteggiamento di intransigenza di coloro che rifuggono dallo studio della Torà come se fosse un virus malefico. Eppure da parte di queste persone si sente dire di sentirsi ebrei, perché appartenenti a un popolo. Sì, è vero, c’è l’amore per il popolo, c’è la discendenza del sangue che trasmette il legame di appartenenza. Ma come si manifesta questo legame? Come si fa ad essere membro di un popolo se di quel popolo si conosce una infinitesima parte della sua cultura, del suo pensiero, delle sue leggi? Come si fa a sentire l’orgoglio di un popolo se di questo popolo non solo non si condividono le leggi ma le si ritengono anche un gravoso e inutile fardello?
La mancanza di conoscenza porta alla cancrena del pensiero e alla morte dell’idea.
Questo atteggiamento laico di rifiuto non aiuta la conciliazione con la controparte religiosa che è portata ad allontanarsi da essa. Come comporre questa dicotomia del pensiero ebraico? Certamente non chiudendosi nelle proprie roccaforti impenetrabili e ostili, non disprezzando e allontanando l’altro, bensì avvicinandosi, aprendo una breccia attraverso cui si possa colloquiare, mostrando la parte migliore di sé, raggiungendo quel punto mediano in cui possano realizzarsi i due imperativi: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” ( Deuteronomio 6, 5 ) e “Ama per il tuo prossimo quel che ami per te” ( Levitico 19, 18 ).
Come nelle virtù bisogna rifuggire dagli estremi – che sono sempre pericolosi e portatori di infelicità -, così negli atteggiamenti e nelle azioni che coinvolgono il prossimo bisogna evitare gli estremismi – che possono degenerare in fanatismi – e tendere verso un punto centrale, perché solo incontrandosi a metà strada si riesce a parlare, a comprendere, a conoscersi, senza violentare la propria e l’altrui libertà di pensiero. E nella conoscenza reciproca si creano i presupposti di quella unità che ora manca al popolo d’Israele, quella unità che gli permetterà di essere un giorno la guida spirituale dell’Umanità.
E non penso che al tempo del 1° e del 2° Santuario tutti gli ebrei fossero o solo religiosi osservanti, o solo laici orgogliosi. Non penso proprio. Ritengo piuttosto che fossero ebrei normali con i problemi di vita quotidiana, con le contraddizioni, i dolori e le gioie di ogni essere umano, ma con in più il senso dell’unità del popolo di cui condividevano le tradizioni e soprattutto la Legge che un giorno i loro Padri avevano ricevuto da Dio sul Sinai, tramite Mosè. E ogni volta che perdettero quell’unità, perdettero anche la libertà.
I nostri sforzi quindi devono tendere a spianare la strada per riconquistare quell’antica unità, perché soltanto dalla nostra volontà dipende il futuro del popolo della Torà, e della nostra Comunità.
Ritengo che la strada per raggiungere il punto mediano evitando la dispersione, sia quella di abbandonare l’intellettualismo in cui ci si era confinati, riappropriandosi del primitivo status di Maestri e di educatori, portando la Torà tra gli ebrei, introducendo un nuovo modo di parlare, più semplice, più diretto, che colpisca il cuore, iniziando da quei principi etici, morali e sociali a cui i giovani sono molto sensibili. Ricordando che la Torà non è un trattato di astronomia, di fisica o di scienze, ma è un’opera che tende a educare le coscienze alle virtù sociali ( rileggiamo il capitolo 19 del Levitico! ). Ricordando che Israele è il popolo di Dio quando compie il bene. Dimostrando che l’ebraismo si realizza quando si pratica la giustizia, l’onestà e l’umanità. E quando l’amore per il prossimo e la ricerca della virtù diventano un’abitudine di vita.
Ad ogni epoca corrisponde un diverso modo di “fare Torà”, e proprio nella nostra epoca in cui si sono dissolti quei valori morali e sociali che erano i punti di riferimento delle antiche generazioni, proprio adesso c’è urgente bisogno di andare incontro ai fratelli lontani in un modo tutto nuovo, partendo dalla risposta che il Maestro Hillel diede a un pagano che gli chiedeva di insegnargli tutta la Torà in poche battute: “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questo è tutta la Torà e il resto è solo commento”.
Antonio Tirri