Parashà di Vezòt Haberakhà
Passo dopo passo siamo arrivati all’ultima parashà della Torà: Vezoth haberakhà, questa è la benedizione. Come ogni parashà possiamo analizzarla in tutti i suoi contenuti cercando i collegamenti con altri passi della Torà, per esempio con le benedizioni date da Giacobbe ai 12 figli; oppure esaminare il rapporto tra l’inizio e la fine della parashà (un metodo classico seguito dai commentatori); possiamo ancora cercare di capire che rapporto c’è tra l’inizio e la fine del libro del Deuteronomio oppure cercare di capire qual è il rapporto tra la fine e l’inizio della Torà, perché nel sabato in cui terminiamo la lettura della Torà. Iniziamo a leggere la prima parte del libro della Genesi.
Dopo i primi versi dedicati all’affermazione del ruolo del popolo ebraico in rapporto agli altri popoli e l’affermazione di ciò che lo deve unire – “La legge che ci ha comandato Mosè, è eredità della radunanza di Giacobbe” – Mosè passa a benedire ogni singola Tribù stabilendo anche la funzione che ogni tribù avrà, una volta che si saranno insediati in Terra d’Israele. Nel raggiungere il comune obiettivo, la creazione di una società basata sulle leggi della Torà, ogni Tribù dovrà partecipare portando un proprio contributo: la convergenza delle azioni di tutti determinerà la via che il popolo d’Israele sceglierà.
Finalmente si arriva alla parte finale della Parashà in cui viene narrata la salita di Mosè sul monte Nevo, da dove potrà ammirare la terra in cui non gli è stato concesso di entrare. Mosè muore a 120 anni, e viene sepolto nella terra di Moav, ma il luogo della sua tomba rimarrà ignoto, così non ci sarà il pericolo di pellegrinaggi per chiedere l’intervento di Mosè…. Dopo aver ricordato che la guida del popolo passa a Giosuè, la Torà termina con l’elogio funebre di Mosè (le ultime parole non sono state scritte da Mosè!).
“E non sorse mai più profeta in Israele come Mosè, che aveva conosciuto Il Signore faccia a faccia. Per tutti i prodigi e i miracoli che il Signore lo incaricò di fare in Egitto al Faraone, a tutti i suoi servi e tutto il suo paese, e per tutte le dimostrazioni di forza e per tutte le grandi e terribili cose che Mosè operò di fronte a tutto Israele”.
La rottura delle tavole: la grande impresa di Mosè
Rashi spiega queste ultime parole della Torà in questo modo: di fronte agli occhi di tutto Israele, in quanto il suo cuore (di Mosè) lo portò a rompere le Tavole davanti ai loro occhi, come è detto Io le ruppi ai vostri occhi (Deut. 9: 17), un’azione che il Signore approvò, come è detto “Asher shibbàrta (che tu rompesti (Esodo 34: 1), che va inteso come se fosse scritto Yeyashèr kochachà sheshibbàrta, a sottolineare che il Signore approvò l’azione di Mosè.
Come mai Rashì ha scelto di ricordare proprio questa azione fra le molte assai più importanti (aver tratto Israele dall’Egitto, aver ricevuto e consegnato le tavole della legge ecc) compiute da Mosè? Perché Rashi sostiene che la grandezza spirituale di Mosè si manifesta proprio nella sua decisione di rompere le tavole? La trasmissione della Torà rappresenta il momento più importante della missione di Mosè e se viene a mancare, la sua missione sarebbe fallita.
Vediamo come viene descritto quel momento e l’opinione dei Maestri:
Quando Mosè si avvicinò all’accampamento, vide il vitello e le danze. L’ira di Mosè si accese, lanciò via dalle sue mani le tavole e le frantumò ai piedi del monte. (Esodo 32: 19)
“A cosa assomiglia la cosa? A quel principe che inviò un intermediario per sposare una donna; questi andò, ma lei si era corrotta andando con un altro uomo. Cosa fece? Prese il contratto matrimoniale che gli aveva dato il principe per sposarla e lo strappò. Disse: “E’ preferibile che venga giudicata come donna libera, piuttosto che come donna sposata!”. Così fece Mosè: quando Israele fece il vitello d’oro, prese le tavole e le ruppe. Mosè disse: “E’ preferibile che vengano giudicati per aver commesso una trasgressione involontariamente, piuttosto che volontariamente: infatti se avessero conosciuto la pena che sarebbe toccata loro, non avrebbero peccato”. (Shemoth rabbà 43: 1)
“Vidi ed ecco che avevate peccato verso il Signore Dio vostro”: vide che Israele non aveva possibilità di sopravvivere dopo ciò che aveva fatto, unì la propria persona al popolo e ruppe le tavole. Egli disse al Signore: “Loro hanno peccato, ma anche io ho peccato perché ho rotto le tavole; se tu perdonerai il loro peccato, perdonerai anche il mio, com’è detto: Ora se sopporterai il loro peccato, allora perdonerai anche il mio peccato; ma se tu non perdonerai il loro peccato, non perdonerai il mio: allora, cancellami dal tuo libro che tu hai scritto” (Esodo 32: 32). (Shemoth rabbà 46: 1)
Di fronte agli occhi di tutti
La rottura delle tavole della legge da parte di Mosè è uno degli episodi più drammatici della sua vita e del suo rapporto con il popolo. Il verso dell’Esodo che narra il momento clou in cui ciò avvenne può essere diviso in due parti: nella prima, la Torà descrive il progressivo avvicinamento di Mosè all’accampamento e l’istante in cui poté rendersi conto de visu di quanto Dio stesso gli aveva detto; nella seconda, la reazione di Mosè.
Di fronte all’informazione datagli dal Signore, Mosè avrebbe potuto decidere di rompere subito le tavole oppure di lasciarle sul monte. Egli decise invece di portarle con sé fino all’accampamento, sperando, forse, che nel frattempo il popolo si fosse ravveduto o che la colpa non fosse così grave. Lo spettacolo che gli si parò davanti fu peggiore di quanto si aspettasse. Il popolo aveva fatto un vitello di metallo fuso, ma lungi dal provare rimorso per l’azione idolatrica compiuta, in aperto contrasto con il comandamento appena ricevuto, danzava e cantava con gioia. Riportarlo alla ragione con mezzi normali sarebbe stato difficile, se non impossibile: era necessaria una reazione forte. Forse ci saremmo aspettati che Mosè assumesse un atteggiamento più riflessivo e meno emotivo: la Torà insegna invece che anche Mosè, per quanto dotato di alta spiritualità, è un essere umano che, in circostanze particolari, può essere travolto dai propri sensi. D’altra parte, l’informazione, quasi asettica, che aveva ricevuto da Dio, non poteva avere lo stesso effetto che ebbe invece la visione del popolo che trasgrediva un comandamento così rilevante, espressione fondamentale del patto che lega Israele al Signore.
Nella seconda parte del verso viene narrata la rottura delle tavole. I commentatori si chiedono perché mai Mosè le ruppe: infatti l’uomo non deve farsi trascinare dall’ira e non deve distruggere neanche l’oggetto più semplice e tanto più un oggetto così sacro come erano le tavole che avevano una santità particolare, secondo quanto dice il testo, “le tavole erano opera del Signore e la scrittura era la scrittura del Signore, incisa sulle tavole” (32: 16).
Il primo midrash paragona il rapporto tra Dio e Israele a una relazione tra marito e moglie ed equipara l’idolatria all’adulterio: dato che una pena può essere comminata solo nel caso in cui chi compie un’azione proibita ne conosca anche le conseguenze legali, Mosè ruppe le tavole per far sì che la colpa commessa dal popolo potesse essere considerata involontaria e quindi non punibile con la pena di morte.
Il secondo midrash afferma che Mosè volle condividere la stessa sorte che sarebbe toccata a Israele: quando Dio gli propose di distruggere il popolo per crearne uno nuovo che avesse lui come capostipite, Mosè preferì rompere le tavole e stracciare il contratto che unisce Israele a Dio, compiendo così una colpa grave che lo avrebbe accomunato al popolo: o con Israele o meglio la morte.
L’opinione dei commentatori
Rashbam sostiene che, quando vide il vitello, Mosè sentì venir meno le sue forze e gettò le tavole a una breve distanza per non farsi male ai piedi. Questa opinione contrasta con quanto narrato da Mosè stesso in Deuteronomio (9: 17): “afferrai con forza le due tavole, le gettai dalle mie mani e le ruppi davanti ai vostri occhi”.
Secondo Rashi, con la rottura delle tavole, Mosè voleva punire il popolo, dimostrando che non era degno di ricevere la Torà: infatti gli ebrei avevano di fatto già rotto le tavole, trasgredendo il comandamento fondamentale che simboleggia l’unione tra Israele e Dio.
A questa opinione, Izchak Abarbanel aggiunge che Mosè ruppe le tavole nell’accampamento e non quando era sul monte, perché solo vedendo frantumare quella grandiosa opera divina che erano le tavole, gli ebrei sarebbero rimasti profondamente colpiti.
Rabbi Izhak Aramà sostiene che, oltre allo scopo di punire il popolo, la rottura delle tavole vuole avere anche una funzione educativa: lasciarsi trascinare dall’ira è considerata cosa assai grave, paragonabile all’idolatria, ma può essere giustificabile quando serve a scioccare coloro che osservano un’azione generata dall’ira: quindi Mosè ruppe le tavole non perché fosse uscito di senno, ma perché intendeva sollecitare il popolo a capire quale azione terribile avessero compiuto: per spezzare, assieme alle tavole, anche il loro cuore (questa l’espressione usata dal Natziv).
Più vicino al significato letterale del testo è il Ramban: non ci fu nessuna intenzione educativa o punitiva o partecipativa nell’azione di Mosè: egli, di fronte alla visione del vitello e degli ebrei che vi danzavano intorno al suono dei tamburi e dei flauti, non riuscì a trattenersi: non ci fu “premeditazione” nella rottura delle tavole, ma solo il dolore nel vedere la caduta del popolo dalle vette raggiunte nella rivelazione del Monte Sinai (“faremo e ascolteremo”) allo stato di degrado in cui erano scesi creando il vitello d’oro.
La santità non è nelle tavole, ma nel contenuto da osservare
Rabbi Meir Simcha Dvinsk nel suo commento (Meshech chochmà) dà una interpretazione originale, che ha un significato profondo e che spiega bene la decisione di Rashi di considerare la rottura delle tavole, l’azione più importante tra quelle fatte da Mosè: assieme all’ira e al dolore, Mosè volle dare un grande insegnamento per tutte le generazioni. Il popolo ebraico poteva credere che le tavole avessero una santità intrinseca, mentre la vera santità non è nei luoghi, negli oggetti, nelle case e neanche in un uomo dalla più grande personalità: Mosè in fondo era soltanto una “mediatore” che aveva il compito di trasferire la Torà per portarla dal cielo alla terra. Rompendo le tavole, Mosè dimostrò che esse non possedevano alcuna santità: la santità stava (e sta) nelle parole e nell’osservanza della legge che l’uomo deve osservare.
Secondo i Maestri, questa fu una delle tre azioni per le quali Mosè ricevette la piena approvazione da parte di Dio: capiamo quindi perché Rashi chiude il proprio commento citando l’interpretazione che forniscono i Maestri alle ultime parole della Torà. La grandezza di Mosè non fu quella di aver portato la Torà al popolo, ma piuttosto di aver insegnato che ci sono momenti in cui è preferibile romperla, per poter poi recuperarla al momento opportuno, piuttosto che vederne il messaggio umiliato e travisato nelle azioni dell’uomo. Infatti, la santità risiede solo nella Torà e nell’uomo che la applica nella sua vita.
Troviamo quindi in Mosè molti aspetti che sembrano in contrasto tra loro: Mosè è Ish hahelokìm, un uomo eccezionale, l’uomo di Dio, ma è anche il servo di Dio e l’uomo più umile sulla faccia della Terra. E’ l’uomo che, nonostante la sua grandezza, sa che è fatto di carne e sangue come ogni altro uomo.
Il profeta Malakhi (3: 22) dice “Non dimenticate la Torà del mio servo Moshè (Malakhì 3: 22), ma ciò nonostante il suo nome non viene ricordato in uno dei suoi libri, la Genesi: tuttavia troviamo un accenno a Moshè proprio nel verso in cui il Signore afferma “Il mio spirito non dimorerà nell’uomo per sempre per il fatto che (beshagàm בשגם) è di carne e la sua vita sarà di 120 anni” (Genesi 6: 3). La parola beshagàm sembra sia una contrazione dell’espressione baashèr gam, cosa che viene spiegata in questo modo: il valore numerico di beshagam è 345, uguale alla parola Moshè (משה). Rashi dice quindi che qui troviamo un’allusione a Moshè, confermata anche dal fatto che viene affermato che la vita può durare 120 anni, esattamente quanto quelli vissuti da Mosè.
Ma perché, quando Mosè si rivolge al popolo d’Israele, nelle sue ultime benedizioni prima di salire sul monte Nevo dice: Beato te, o Israele! Chi è come te un popolo salvato dal Signore, che è lo scudo della tua potenza e la spada che difende la tua nobiltà? I tuoi nemici ti mentiranno, ma tu calpesterai le loro alture (Deut. 33: 29).
Su questa espressione scrive Rabbi Moshè ben Ghershom Hefez: non ho alcun dubbio che il mondo, il cielo e le stelle non sono stati creati per l’uomo, come pensano molte persone del nostro popolo, ma è chiaro che tutto ciò che il Signore ha creato lo ha fatto per il suo onore, come dicono i Maestri. …. E’ bene ciò che dicono i Maestri, cioè che ognuno deve dire “per me è stato creato il Mondo”, ma è la verità deve farsi strada e cioè che la motivazione della creazione del Mondo e di tutte le creature che sono state create sfugge alla nostra mente ed è celata presso di Lui….. non ti spaventino le idee dei membri del nostro popolo quando dicono che tutto è stato creato a vantaggio dell’uomo: questo è vano e vacuo…. Ci sono molte cose nel mondo delle quali l’uomo non ha alcun bisogno o sono dannose …..
Ti chiedo anche se tutto il mondo è stato creato per l’uomo, come spieghi la conclusione della discussione tra le scuole di Shannai e di Hillel sul problema “Se sia bene che l’uomo sia stato creato o meno”, al termine della discussione votarono a maggioranza che sarebbe stato meglio se non fosse stato creato, ma dato che è stato creato che analizzi i suoi comportamenti. Eppure alla fine della creazione Dio disse: “ecco era tutto molto buono” includendo in questo giudizio anche l’uomo. Ma questo valeva finché erano nel Giardino dell’Eden, una volta che ne era uscito è al popolo d’Israele che vengono date le chiavi per costruirsi una vita eterna. Questo è il senso delle parole di Mosè: Beato te, o Israele! Chi è come te un popolo salvato dal Signore. Con queste parole Mosè intende dire che il Signore salva Israele perché ha messo nelle sue mani i mezzi per costruirsi una vita eterna, cosa che non è possibile per chi non ha questi mezzi. …. Ogni creatura deve fare del suo meglio per innalzarsi
Possiamo applicare in un certo senso il concetto della conservazione dell’energia anche alla tavole della legge. Rav Moshè Hefez Gentili, che faceva uso di ragionamenti scientifici, certamente ci seguirebbe in questa analisi. E’ scritto (Berakhot 8b) che “nell’arca c’erano i frammenti delle prime tavole e le seconde tavole”: il paradosso è che le prime – che erano opera divina – erano rotte, mentre le seconde – che erano opera umana – erano integre: la santità non risiede negli oggetti, ma nell’osservanza delle leggi che sono incise nelle tavole del cuore dell’uomo. I frammenti non si sono persi e l’energia originaria è sempre lì, forse in una “qualità” anche superiore, e ogni volta che il Sommo Pontefice li vedeva assumevano ancora più forza e vitalità.
Se queste sono le premesse, allora possiamo veramente ballare con la Torà perché “questa è la nostra vita e la lunghezza dei nostri giorni”
Scialom Bahbout
Rabbi Moshè Ben Ghershom Hefez (Gentili) (Trieste 1663 1710)– Venezia
Rabbino e filosofo della Famiglia Gentili. Il suo libro “Melékhet Machashévet” è un commento omiletico – filosofico sulla Torà che contiene ampi commenti basati sulla matematica, la Filosofia e le Scienze Naturali. Il libro è caratterizzato dal fatto che l’autore fa grande uso di tavole. Cita spesso anche spiegazioni del figlio Ghershom morto all’età di 17 anni.