Con questo lavoro ho cercato di cogliere solo alcuni aspetti della personalità di Mordekhài che, con la sua opera contribuì in modo fondamentale alla salvezza e al ritorno del popolo ebraico al rispetto della Torà e delle mitzvòt. Le pagine che seguono sono state scritte in poche ore per cui non hanno certo la pretesa di presentare al lettore uno studio finito su un argomento che avrebbe bisogno di ben altri approfondimenti. Ho solo cercato con qualche parola di Torà fare i miei più fervidi auguri ai cari amici Lory e Moshe per la nascita del loro secondogenito. Possa il loro figlio Mordekhài avere sempre gioia e felicità ed essere motivo di orgoglio per tutto Israèl Amèn.
Introduzione
Mordekhài è uno dei personaggi principali del libro di Estèr. Di lui il Testo non ci fornisce che poche e confuse notizie. Sappiamo che visse a Shushàn (Susa) residenza del re di Persia Achashveròsh (Serse I) che regnò dal 486 al 465 A. E. V.
Nella Meghillàt Estèr (Estèr 2, 6) egli è ricordato tra i deportati da Nabucodonosor re di Babilonia ma essendo tale fatto successo nel 597 è probabile che il Testo si riferisca in realtà alla sua famiglia e in particolar modo al suo bisavolo Kish. Se questo è vero, all’epoca del re Achashveròsh Mordekhài doveva avere circa trent’anni.
Il suo ruolo nella storia di Purìm è a tutti noto. Sempre nei pressi del palazzo reale per conoscere la sorte di Estèr scoprì e svelò una congiura contro il sovrano e ciò gli varrà onore e soprattutto la benevolenza del re che egli saprà sfruttare per salvare gli ebrei dalla morte decretata da Hamàn, che, nemico giurato del popolo ebraico, probabilmente non era estraneo al complotto.
Di Mordekhài non si parla però solo nei libri canonici. La recente scoperta di alcune tavolette cuneiformi dell’epoca di Dario I e di Serse I ci provano che egli era ben conosciuto anche presso gli ambienti non ebraici come persona importante e particolare.
Il suo nome è stato in passato oggetto di varie spiegazioni tra gli storici. Alcuni lo fanno derivare dal persiano mardu = mansueto, ma ciò ci sembra in contrasto con il racconto della Meghillà dove egli ci viene presentato irruento soprattutto nei confronti di Estèr. Altri ancora hanno visto nel nome Mordekhài la fusione di due vocaboli iraniani mord = uomo, e khurrah = splendore per cui egli sarebbe stato chiamato in questo modo grazie alla sua importanza.
Sono tutte ipotesi più o meno valide ma che non possono definire né la vera personalità di Mordekhài né tanto meno l’importanza che questo personaggio ha assunto per il popolo ebraico. Per questo abbiamo bisogno dei commenti dei nostri Maestri, di ben altra levatura e di ben altra profondità.
Mordekhài nel commento tradizionale
Il nome e la famiglia
“Un uomo Yehudì vi era in Susa, residenza reale, e il suo nome era Mordekhài, figlio di Yaìr, figlio di Shim’ì figlio di Kish della tribù di Beniamino”.
Il versetto, il primo della Meghillà in cui si parla esplicitamente di Mordekhài, abbonda di dettagli che possono sembrare in parte superflui e in parte contrastanti. È superfluo, per esempio, sottolineare che Mordekhài era un uomo e che si trovava a Susa, fatti questi che potremmo facilmente dedurre dal contesto del racconto. È superfluo inoltre sottolineare che Susa era la residenza reale poiché la Meghillà lo aveva detto pochi versi prima (Estèr 1, 5). Anche le notizie circa la sua genealogia sembrano eccedere in particolari inutili mentre il principio del versetto, in cui il soggetto ci viene presentato come Yehudì ossia appartenente alla tribù di Giuda, sembra in aperto contrasto con quanto poi dichiarato espressamente.
Non dobbiamo, innanzi tutto, dimenticare che Mordekhài vive in un periodo di grande assimilazione. Gli Ebrei, un po’ per paura e un po’ per comodità, non avevano né la forza né la voglia di opporsi alle angherie del sovrano che voleva dimostrare il proprio potere soggiogandoli e vietando loro l’osservanza dei precetti della Torà.
I Maestri del Talmùd ritengono che gli ebrei di Susa avessero raggiunto un tale degrado morale da aver partecipato con gioia al banchetto indetto dal re nel giorno dell’anniversario della distruzione del Santuario.
Coloro che erano rimasti fedeli alla Torà e gli stessi membri del Sinedrio non poterono sopportare oltre i soprusi di e la vista della comunità ebraica di Susa che si stava avviando piano piano alla fine perciò avevano pensato più conveniente trasferirsi in altri luoghi (Me’àm Lo’ez).
L’unico che trovò la forza di restare in Susa per combattere i propositi del re e dei suoi ministri e per spronare Israele alla teshuvà fu proprio Mordekhài dimostrando di essere l’unico ad avere la forza e il desiderio di comportarsi da uomo in una società di persone che non sapevano più esserlo.
Non è dunque inutile l’inizio del versetto che sottolinea la capacità di Mordekhài di essere un “uomo” e non è superfluo ricordare che egli decise di vivere in una città che, sede del palazzo reale, era pericolosa sia per la vita fisica che per quella morale quando sarebbe stato più facile scappare e abbandonare i propri fratelli in balia del re e dell’assimilazione.
Egli aveva dimostrato di aver fatto proprio l’insegnamento di Mosè che decise di intervenire con forza e coraggio per salvare un ebreo dalle percosse di un egiziano dopo aver visto che “non c’era nessun uomo” (Esodo 2, 12) che non c’era cioè nel popolo ebraico qualcuno che aveva ancora il desiderio di ribellarsi ai soprusi.
Mordekhài deve aver sofferto molto in quei momenti, probabilmente deriso e poco ascoltato dalla sua stessa gente e sicuramente maltrattato dalle guardie e dai ministri di Achashveròsh (Me’àm Lo’èz) ma nulla e nessuno riuscì mai a fargli cambiare idea.
Fu allora che, secondo il Talmùd (T.B. Meghillà 10 B) gli stessi ebrei gli posero il nome di Mordekhài che è il prodotto della fusione delle due parole aramaiche maré dekì = mirra vergine, uno degli aromi che venivano offerti nel Santuario (Esodo 30, 23).
La mirra è una sostanza resinosa di sapore amaro che emana un ottimo profumo quando viene posta a contatto con il fuoco. Il rapporto con la vita di Mordekhài appare dunque chiaro. La sua vita era resa amara dalle lotte e dai soprusi che egli dovette sopportare per raggiungere il suo intento ma più combatteva e più nasceva in lui il desiderio e la forza di coinvolgere gli altri in un rapporto con la Torà così come un profumo inebria e trascina coloro che lo odorano.
Mordekhài, dunque non era il nome originale di questo grande personaggio, ma solo un soprannome per definire maggiormente la sua personalità. Egli, infatti, viene da alcuni identificato con il profeta Malachì e da altri con Ezrà (T.B. Meghillà 12 B).
La sua fama e la sua importanza però non lo porteranno mai ad inorgoglirsi o a sentirsi al di sopra degli altri. Egli seppe essere pari a Moshè non solo per il suo coraggio ma anche per la sua umiltà. Leggiamo il commento del Midràsh:
“Un uomo yehudì”- ciò insegna che Mordekhài era per la sua generazione ciò che Moshè era per la propria. Infatti è scritto: “L’uomo Moshè era molto umile” (Estèr Rabbà 6, 2).
Come abbiamo visto in precedenza, non solo il nome di Mordekhài fu oggetto di discussione ma la sua stessa origine. Secondo Rabbì Yehoshùa la madre proveniva dalla tribù di Yehudà mentre il padre era un yemenita. Altri Maestri ritengono che, vista l’importanza del personaggio, le due citate tribù pretendevano una particolare riconoscenza da parte del popolo ebraico per aver permesso la sua nascita. Il re David, infatti, membro della tribù di Giuda, pur avendo condannato a morte Shim’ì, non mise in pratica subito la sua condanna poiché con il suo spirito profetico aveva visto che da quella famiglia sarebbe sorto un giorno il salvatore degli ebrei di Persia e del mondo.
A sua volta Biniamìn, la sua vera tribù di provenienza, pretendeva la giusta riconoscenza e il ringraziamento di Israele. Il versetto, secondo quest’ultimo commento, avrebbe voluto accennare alla disputa tra le due tribù per sottolineare come Mordekhài, piano piano, fosse riuscito a fare breccia nei cuori del popolo ebraico (T.B. Meghillà 12B).
Ma tra i Maestri vi è anche chi ha spiegato i termini del versetto in questione in senso allegorico. Leggiamo alcuni passi di questi commenti:
“Uomo Yehudì – Perché è chiamato yehudì? Non era forse un yemenita? Poiché riuscì a rendere unico in nome del Santo Benedetto Egli sia, davanti a tutto il mondo viene qui chiamato yehudì ossia yechidì = unico” (Estèr Rabbà 6, 2).
È chiaro che qui il Midràsh si scosta dal senso puramente letterale del Testo concentrandosi soprattutto sul suono della parola yehudì simile al vocabolo yechidì.
Al popolo ebraico spetta soprattutto il compito di insegnare al mondo l’idea dell’unità di Dio, cioè l’idea che l’unico e assoluto padrone della storia è il Santo Benedetto Egli sia.
È forse per questo che gli ebrei vengono definiti Yehudìm, per quanto, ovviamente, non tutti provengano dalla tribù di Giuda. Tra questi a Mordekhài spetta sicuramente un posto particolare proprio per aver saputo capire che nonostante la distruzione del Santuario, la deportazione di Israele nella diaspora e l’intento di Hamàn e Achashveròsh di distruggere il popolo ebraico non ci si doveva abbattere poiché in ultima istanza non è mai l’uomo a decidere il corso della storia ma Dio stesso.
Anche il nome degli altri personaggi citati nel versetto vengono da alcuni commentati in senso allegorico e in rapporto alla particolare giustizia e rettitudine di Mordekhài. Leggiamo quest’ultimo passo talmudico:
Figlio di Yaìr – ossia figlio che illuminò gli occhi di Israele con le sue preghiere (dal verbo eìr = illuminare).
Figlio di Shim’ì – ossia figlio la cui preghiera venne ascoltata (dal verbo shamà = ascoltare).
Figlio di Kish – ossia figlio che bussò alle porte della misericordia e queste gli vennero aperte (dal verbo nakàsh = bussare) (T.B. Meghillà 12 B).
Mordekhài, dunque, non è solamente una persona coraggiosa e di azione ma anche un uomo che sa estraniarsi dal mondo per poter pregare con la dovuta attenzione e concentrazione. Egli dunque è un uomo completo che sa usare la forza fisica ma anche e soprattutto la forza della parola che è ciò che ha veramente permesso al popolo ebraico di continuare a esistere.
Ma Mordekhài non si piegava né si prostrava
Il passo forse più famoso di tutto il racconto di Purìm è il rifiuto di Mordekhài di inchinarsi di fronte ad Hamàn. Leggiamo per esteso il versetto:
“E tutti i dignitari del re che stavano alla porta del re si inchinavano e si prostravano dinanzi ad Hamàn ma Mordekhai non si piegava né si prostrava” (Estèr 3, 2).
Il Maharàl di Praga fa notare che i verbi “piegava” e “prostrava” che abbiamo qui tradotto al presente come comunemente avviene, in realtà nel versetto compaiono al futuro (non si piegherà e non si prostrerà). Due possono essere dunque le possibili spiegazioni di questo passo:
a) i verbi vogliono esprimere la ferma intenzione di Mordekhài a non inchinarsi mai di fronte ai nemici di Israele.
b) ci troviamo qui di fronte ad una profezia. Gli ebrei nella loro storia manterranno sempre la loro dignità e la forza di non abbandonare i precetti della Torà poiché ricorderanno l’azione di Mordekhài che verrà da questo momento assunto come esempio di forza, coraggio e abnegazione (Or Chadàsh).
È ovvio che il suo comportamento deve avergli procurato molte critiche anche se il Testo accenna a queste proteste solo brevemente (Estèr 2, 3-4).
Più prodigo di particolari, come sempre è il Midràsh. Leggiamolo:
Che cosa rispondeva Mordekhài a quanti gli chiedevano: perché trasgredisci all’ordine del re? Rabbì Levì diceva: Moshè, il nostro Maestro, ci ha prescritto nella Torà: sia maledetto colui che costruirà immagini scolpite o fuse. Questo malvagio (Hamàn) ha fatto di sé un idolo… Hamàn gli mandò a dire che anche Yosèf e Rachèl in passato si inchinarono o al suo avo Esaù ma Mordekhai rispose: È vero ma in quel tempo Beniamino, il capostipite della mia tribù, non era ancora nato (Estèr Rabbà 7, 9).
Mordekhài per natura non poteva inchinarsi ad Hamàn o a qualsiasi altro avversario del popolo ebraico. Ma non è certo un caso che egli pensi a Biniamìn, l’ultimo figlio di Ya’akòv, per trovare la forza di lottare. Nel territorio di Biniamìn fu costruito il Santuario e della sua tribù la Torà dice: “Caro al Signore se ne sta tranquillo fidando in lui: egli lo protegge continuamente ed Egli riposa fra le sue braccia” (Deut. 33, 12).
La fiducia di essere nel giusto, il desiderio di tornare un giorno nel Santuario ricostruito e la certezza che la salvezza non tarderà ad arrivare come promesso dalla Torà alla sua gente lo aiutarono nella sua battaglia e a farsi vedere costantemente vicino alla porta del re senza spaventarsi né delle critiche altrui né, tantomeno, delle minacce di Hamàn.
E Mordekhài seppe
Il comportamento di Mordekhài com’era inevitabile scatenò l’ira di Hamàn che si riversò su tutto il popolo ebraico. Il versetto esprime in modo sintetico ma intenso tutto il dolore di Mordekhài:
“E Mordekhài seppe tutto ciò che era stato fatto. Si strappò i vestiti si coprì di sacco e di cenere e uscì in mezzo alla città alzando forti e amare grida. E giunse davanti alla porta del re, perché non si poteva entrare nella porta del re con abiti di sacco” (Estèr 4, 1-2).
Ma che cosa gli procurò tanto dolore? Aveva forse perso la fiducia in Dio che l’aveva fin qui sostenuto? E che cosa venne a sapere che prima non sapeva?
I Commenti dei Maestri a tale passo sono moltissimi e non possiamo che riportare qui una piccola parte di questi. Secondo una parabola rabbinica a Mordekhài venne fatto conoscere in sogno che solo la teshuvà di Israele avrebbe potuto cambiare il decreto di Hamàn ma il popolo non sembrava ancora cosciente di tale necessità. Egli aveva sperato di avere più tempo per riportare il suo popolo sulla strada della Torà e di risvegliare così la misericordia di Dio, ma ora tutto gli sembra molto più difficile. Lacerare i propri vestiti pubblicamente avrebbe forse contribuito a dimostrare ai propri fratelli la necessità del pentimento. Ma il commento rabbinico si spinge ben oltre:
“Perché Mordekhai urlava? Era forse egli uno stolto al punto da credere che il Signore ascolta solo le grida?… No! Egli urlava per un dolore che non poteva più trattenere. Mordekhài urlava e diceva: O Isacco nostro padre, che cosa ci hai fatto. Per il pianto di Esaù tu lo hai benedetto dicendo, vivrai grazie alla tua spada (Genesi 27, 40) e ore noi tutti stiamo per essere uccisi con la spada per mano del suo antenato Hamàn” (Midràsh Panìm Acherìm).
Mordekhài sa bene che nulla è dovuto al caso. Egli vede in tutto ciò che capita a lui e al suo popolo la mano del Signore e proprio per questo egli sa di poter cambiare l’amara sorte con il pentimento e la tefillà. Bello a nostro avviso è il commento che il Midràsh attribuisce alle parole del versetto: “non si poteva entrare nella porta del re con abiti di sacco”. Leggiamolo:
“Il Re qui è il Santo Benedetto Egli sia. Mordekhài giunse fino alle porte del Bet Hakenèset ma non entrò con quei vestiti poiché non sarebbe onorevole presentarsi in questo modo di fronte a Dio” (Lèkach Tov).
Mai in Mordekhài era mancato la fede e l’amore per Dio, neppure quando il popolo ebraico sembrava destinato ad una sicura fine e tutto sembrava essergli avverso. Si poteva e si doveva urlare il proprio dolore ma durante la preghiera, nel momento in cui egli assieme ai pochi fedeli rimasti si rivolgeva direttamente a Dio, tutto doveva essere pronunciato con calma e rispetto, proprio come se egli si trovasse di fronte a un potente re in carne ed ossa. In questo momento Israele non poteva sperare in un capo migliore di Mordekhài.
Non tralasciare nulla di tutto ciò che hai detto
La salvezza divina non tardò ad arrivare. Il racconto è noto a tutti. Il re, saputo che Mordekhài aveva scoperto e svelato un complotto contro la corona gli tributò onori e riconoscimenti e fu proprio Hamàn, che pure aveva preparato per Mordekhai una grande forca, a dover accompagnare il suo nemico per le strade della città di Susa in abiti regali. Leggiamo anche questa volta il versetto relativo al fatto e il commento dei nostri Maestri:
“Il re disse ad Hamàn: presto, prendi il vestito e il cavallo come hai detto e fa così all’ebreo Mordekhài, che siede alla porta del re. Non tralasciare nulla di tutto ciò che hai detto!”
Fa’ così all’ebreo Mordekhài. Gli rispose (Hamàn): Quale Mordekhài?
Gli disse (il re): Mordekhài l’ebreo. E quegli: ci sono molti Mordekhài tra gli ebrei.
Gli disse: quel Mordekhài che è seduto alla porta del re.
Gli disse Hamàn: O mio sovrano quell’uomo è odiato da me e dai miei padri. Ti chiedo che gli vengano dati diecimila sicli d’argento ma non tutto questo onore.
Gli rispose il re: dagli i diecimila sicli ma non tralasciare nulla di tutto ciò che hai detto.
Giunse Hamàn da Mordekhài e gli disse: Alzati e vestiti. Ohi, disse Hamàn, com’è cambiata la mia sorte! Mentre io gli preparavo la forca il Santo Benedetto Egli sia gli preparava una corona. Io gli preparavo corde e chiodi e Dio gli preparava abiti regali (Estèr Rabbà10, 5).
L’improvvisa ascesa di Mordekhài poteva essere interpretata come una semplice coincidenza, ma né Hamàn né i suoi familiari o amici credono al fato. Essi sanno chi è Mordekhài, conoscono la sua giustizia e quello che aveva fatto e per questo intuiscono che grazie a lui il Dio di Israele, che sembrava aver dimenticato da molto tempo gli Ebrei in balia della sorte decretata da uomini malvagi, era tornato a rivolgere il suo sguardo verso il Suo popolo. Mordekhài, dunque, non solo stava riportando la fede tra i suoi fratelli, ma anche il timore di Dio tra i non ebrei che avevano così capito che nessuno, nonostante tutto, potrà mai porre fine al popolo ebraico. Leggiamo a proposito un insegnamento del Midràsh:
“Diceva Rabbì Yehudà figlio di Ilahai, il popolo ebraico nella Torà è paragonato alla polvere come disse Dio a Giacobbe: E sarà la tua progenie come polvere della terra e ti spanderai verso il mare… Ed è paragonato alle stelle come disse Dio ad Abramo: Conta le stelle se puoi,così sarà la tua progenie. Questo poiché quando Israele scende può scendere fino a terra ma quando esso sale può salire fino alle stelle”.
Quella frase che Dio disse a Giacobbe, “e sarà la tua progenie come polvere della terra”, non è dunque riferita al numero dei figli d’Israele. Noi non saremo mai numerosi come i granelli di polvere della terra e la Torà non ama raccontare delle cose che non si possono avverare. È semmai una profezia: “Ci sarà un giorno in cui il tuo popolo scenderà così in basso che arriverà alla polvere”. Avrebbe detto Dio a Giacobbe. Ciò avverrà quando Israele verrà oppresso in terra d’Egitto, simbolo di tutte le oppressioni che essi dovranno subire nella loro storia, o quando Hamàn con il suo decreto potrà pensare di poter raggiungere il proprio intento. Allora qualcuno, e forse gli stessi Ebrei, potrà pensare che sia arrivato il momento della fine (Has veshalòm), ma è in quel momento che sorgerà un salvatore che riporterà fiducia tra gli ebrei e lo sconforto tra i suoi nemici poiché, come scriveva Rav Tzadòk Hacohèn:
“Il popolo ebraico potrà anche scendere fino a terra, ma non verrà mai inghiottito da essa poiché l’eternità del popolo ebraico per Dio non potrà mai essere messa in discussione”.
Sarà allora che Israele inizierà la sua continua ascesa che lo porterà alla salvezza e alla vittoria, come gli stessi savi di Hamàn avevano intuito:
“E Hamàn raccontò alla moglie Zéresh e a tutti i suoi amici ciò che gli era accaduto; i suoi savi e la moglie Zéresh gli dissero: poiché Mordekhài, dinnanzi al quale cominciasti a cadere, è della stirpe degli ebrei, tu non puoi fare nulla, anzi soccomberai dinnanzi a lui” (Estèr 6, 13).
Ma che cosa fece Mordekhài quando capì che la sorte del suo popolo era finalmente cambiata? Leggiamo ancora un breve passo della Meghillà e il commento dei Maestri del Talmùd:
Mordekhài tornò alla porta del re (Ester 6, 12): il Testo vuole insegnare che egli tornò al suo vestito di sacco e al suo digiuno. Diceva Rabbì Chelbò: “Chiunque si veste di sacco e digiuna non si deve interrompere fino a che non viene pienamente corrisposto” (T.B. Meghillà I6 a).
Mordekhài sa che Dio salverà il popolo ebraico ma egli deve continuare il suo compito e perciò non interromperà la sua teshuvà e la sua tefillà. Sarà proprio questo che contribuirà alla completa salvezza che non tarderà a venire anche con l’aiuto di Estèr.
Gradito alla maggior parte dei suoi fratelli
Il libro di Estèr si conclude con il racconto della nomina di Mordekhài a vicerè del re Achashveròsh, dopo la totale sconfitta di tutti coloro che avevano complottato contro il popolo ebraico. Non ci soffermeremo a comentare tutte le parole dell’ultimo versetto della Meghillà ma solo quelle che trattano del rapporto che si era venuto a creare tra Mordekhài e la sua gente dopo la salvezza insperata. Leggiamo tale breve passo:
“(Mordekhài) era grande tra gli ebrei e gradito alla maggior parte dei suoi fratelli, cercò il bene del suo popolo e mise pace in mezzo a tutta la sua stirpe”.
Mordekhài acquistò grande fama e rispetto sia a corte che tra gli ebrei. Ma per quale motivo dunque egli era ben voluto solo dalla maggior parte dei suoi fratelli e non da tutti loro? Anche attorno a questo problema i nostri Maestri hanno fornito numerose risposte ma non possiamo anche in questo caso riportarne che una minima parte.
Il Talmùd (Meghillà 16 B) ritiene che i fratelli di cui si accenna nel versetto sono i componenti del Sinedrio a capo del quale vi era proprio Mordekhài. Egli accettando il nuovo importante ma impegnativo incarico di viceré avrebbe, a detta di molti, trascurato lo studio della Torà e per questo gli avrebbe perso almeno una parte del rispetto che si era saputo acquistare con il suo coraggio e la sua abnegazione.
Mordekhài, d’altro canto, riteneva necessario ricoprire l’incarico che il re gli aveva affidato proprio per “il bene del suo popolo” per poter cioè aiutare Israele nel caso in cui fossero sorti in futuro nuovi nemici desiderosi di porre fine all’esistenza dei suoi fratelli. Del resto Yosèf, suo antenato, non era riuscito a salvare i suoi fratelli dalla carestia e dunque dalla morte proprio grazie al suo potere? (Alshìch).
Secondo un’altra idea, anch’essa presente nel Midràsh (Divré ben Yaìr) alcuni non gradivano Mordekhài poiché, come afferma il Testo, egli cercando con insistenza “il bene del suo popolo” non si fermò mai dall’ammonire la propria gente per riportarla alla completa teshuvà, nonostante che questo poteva dar grande fastidio a tutti coloro che inseritisi nella società persiana aspiravano ancora alla completa assimilazione.
Un ultimo commento ritiene invece che Mordekhài, con la propria fortuna e con la propria fama abbia generato tra gli ebrei un senso di gelosia e di invidia tale da far dimenticare ad alcuni tutto ciò che egli aveva fatto. Essere benvoluto da molti e non da tutti non voleva dunque essere una critica che la Meghillà rivolgeva a Mordekhài ma ancora un’ulteriore prova, e forse la più importante, della sua grandezza ed operosità.
Conclusione
Diceva Rabbà: “Di Purìm ognuno è obbligato ad ubriacarsi fino al punto da non capire la differenza tra maledetto Hamàn e benedetto Mordekhài (T.B. Meghillà 7B).
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di considerare alcuni aspetti del personaggio Mordekhài attraverso il commento dei Maestri. Abbiamo visto come egli, incurante delle critiche e dei pericoli, aveva con forza saputo ribadire la necessità del ritorno del popolo ebraico all’osservanza dei precetti e allo studio della Torà. Abbiamo poi potuto vedere come gran parte del merito per la salvezza di Israele sia dipesa proprio dalla sua opera. Non è dunque chiaro come mai proprio nel giorno di Purìm, nel giorno in cui tutti noi dovremmo celebrare le sue gesta e fare nostro il suo insegnamento, si debba bere al punto da doverlo confondere con l’odiato Hamàn. Chayìm Fridlander, rabbino nella grande Yeshivà di Poniovich, scrive nel suo libro Sifté Chayìm:
“Dio ha deciso il corso della storia fin dal momento in cui creò il mondo.
L’uomo può aiutare il Creatore nella Sua opera ma non potrà mai contraddire le Sue decisioni. I malvagi credono di poter decidere secondo la loro volontà e non sanno di essere degli strumenti che Dio usa per dimostrare i propri intenti e la propria potenza. Hamàn, per quanto sia da biasimare, ha dimostrato tutto ciò e per questo, suo malgrado, è degno di una benedizione come Mordekhài che ebbe il merito di capire che la sorte del popolo d’Israele dipende solo da colui che ha creato il cielo e la terra. Ma in definitiva nessuno potrà mai confondere Hamàn con Mordekhài poiché chi ha capito da solo e ha insegnato agli altri la potenza e la misericordia divina non può essere paragonato a chi, contro la sua volontà, scopre di non poter opporsi al volere di Dio”.
Ma chi ha dato a Mordekhài tutta questa fede? Chi lo ha aiutato a non perdere mai la speranza di salvezza neppure nei momenti più pericolosi? Leggiamo in ultima parabola rabbinica:
“Mordekhài incontrò dei bambini che uscivano dalla scuola e disse loro insegnatemi un versetto della Scrittura. Il primo gli disse: “Non temere l’improvvisa paura e la cattiveria dei malvagi” (Proverbi 3, 25).
Il secondo gli disse: “Fate pure progetti poiché essi verranno annullati. Parlate pure poiché ciò non si avvererà” (Isaia 8; 10).
Mordekhài si rallegrò e se ne andò per la sua strada. Lo incontrò Hamàn e gli disse: “Perché sei così felice?” Mordekhài gli rispose: “Sono contento per le parole che sono uscite dalla bocca di questi fanciulli perciò non ho più paura del decreto che tu hai emanato contro di noi” (Estèr Rabbà).
Mordekhài sa che fino a che vi saranno bimbi capaci di rispettare le mitzvòt e di studiare la Torà per il popolo ebraico ci sarà sempre la salvezza e la prosperità.
Voglia Hakadòsh Barùkh Hu che il piccolo Marc Mordechai Mouhadab possa sempre seguire gli insegnamenti che i suoi genitori sapranno dargli ed essere così di benedizione per tutto il popolo d’Israele, Amen.
Reuvèn Colombo