In memoria del Morè Nello, z.l. che incise parole di Torà sui cuori dei suoi allievi come fuoco bianco su fuoco nero
Il popolo ebraico non è stato soltanto il popolo del libro, ma il popolo che ha sempre considerato il libro per eccellenza – la Torà – un’immagine dell’uomo. Ciò è particolarmente evidente se si guarda al modo in cui esso viene rivestito e “preso in braccio” prima e dopo la sua lettura. Ma, non meno importanti per capire questa similitudine, sono le norme e gli insegnamenti della Agadà.
Ecco alcuni usi e norme: chi assiste alla morte di un ebreo deve fare la Keri’à, cioè stracciarsi la veste come quando si è presenti mentre un Sefer Torà sta bruciando; quando un Sefer Torà diventa inutilizzabile, lo si seppellisce accanto a un talmid chacham; e ancora, si estrae un Sefer Torà quando si accompagna un Talmid Chacham alla sua sepoltura; l’uso di alzarsi davanti al Sefer Torà si deduce da quello di alzarsi davanti a una persona anziana; quando si decreta un digiuno per una calamità, si usa versare della cenere sul Sefer Torà, come sul capo delle persone che partecipano alla cerimonia che si fa per l’occasione; per completare il minian, si può associare a nove adulti un ragazzo che non abbia fatto il bar mitzvà, purché tenga in mano un libro di Torà.
La Agadà è ricca di paragoni tra uomo e Sefer Torà: gli allievi di Rabbi Eliezer, che erano andati a visitarlo perchè ammalato, lo paragonano al Sefer Torà; l’allievo può imparare dal proprio Maestro solo una parte della sua sapienza, come noi possiamo imparare solo una parte di quanto è scritto nella Torà, perché una parte rimane sempre segreta e inacessibile; ospitare un talmid chacham è considerata opera superiore a quella di onorare il Sefer Torà; e ancora, un talmid chacham che dimentichi tutto il sapere viene paragonato alle tavole della legge e alle tavole frantumate da Mosè che erano entrambe conservate nell’Arca santa; e sempre nella stessa linea, l’uso di alzarsi di fronte a un talmid chacham è considerato ancora più importante di quello di alzarsi di fronte alla Torà, perché il primo ha la forza di “piegarne il testo alle sue interpretazioni”.
L’ebraismo non è mai stato feticista e non ha mai attribuito agli oggetti una santità a se stante. La santità del Santuario e degli oggetti che vi si trovavano dipendeva dal fatto che Israele li aveva consacrati, così come la sacralità dei sacrifici dipendeva dal fatto che un uomo doveva dichiararli ” sacri “.
Anche le feste ricevono la loro sacralità da Israele: la parole con cui si chiude la benedizione centrale della ‘Amidà festiva sono: “Benedetto sii tu, o Signore, che consacri Israele e le feste”, che va inteso nel senso che “benedici Israele che consacra le feste”. Solo il sabato, per il quale la benedizione è invece “Benedetto sii tu, o Signore, che consacri il sabato”, è dotato di una sacralità intrinseca, e questo forse perchè, come dice Heschel, esso rappresenta l’assoluta santità del tempo che Dio gli ha attribuito all’inizio della creazione. Anche il Sefer Torà – come altri oggetti – acquisisce la sua santità dal fatto che chi ha preparato la pergamena e chi poi chi l’ha scritto, lo ha fatto lishmà, cioè per questo uso speciale ed esclusivo. E’ proprio l’atto individuale del sofer, lo scriba che ha copiato sulla pergamena il testo con tutti i suoi pensieri e le sue speranze, che conferisce santità al Sefer Torà. Quando l’uomo riversa nella sua scrittura tutto se stesso, egli riempie di kedushà tutte le lettere della Torà scritte su una pergamena morta e allora ” l’inchiostro si trasforma in fuoco nero e la pergamena in fuoco bianco “: perfino il Nome ineffabile assume la sua kedushà solo se l’uomo lo consacra nel momento in cui lo scrive.
In poche parole, non è possibile rendere concreta la santità senza l’opera dell’uomo: l’uomo possiede interiormente una kedushà che lui solo può trasmettere al Santuario, alle feste e al Sefer Torà. Senza santità interiore non può esserci santità esteriore.
Un discorso simile sul rapporto tra esteriorità e interiorità, si può applicare secondo il Talmud (Zevahim 60a) anche alla costruzione del Santuario, che il re Salomone construì e consacrò, ma che il re Davide, secondo quanto scritto nel libro dei Re (cap. 28 : 11- 12), aveva pensato e progettato: il progetto interiore rimane quindi di Davide, mentre a Salomone spettò solo il compito di realizzare la visione di Davide. Il Santuario interiore era quindi già stato consacrato da Davide, prima che Salomone ne attuasse il progetto, cosa che viene confermata dal salmo scritto per l’inaugurazione del Tempio: Salmo. Canto per l’inaugurazione della casa. A Davide (Salmo 30).
La distruzione del Tempio, operata da Nabuccodonosor prima e dei Romani dopo, non ha impedito che il Santuario continuasse ad esistere. Solo le pietre e le travi con cui era stato costruito erano state distrutte: il Santuario ” vero ” non poteva essere distrutto. Il concetto di Santario interiore e’ un caposaldo della Kabbalà e del pensiero ebraico: rabbì Moshè Isserles, autore delle glosse allo Shulchan ‘Arukh, ha scritto un libro, Torath Ha’olà, in cui traccia uno stretto parallelismo tra il Santuario esterno e quello interno.
La kedushà del Sefer Torà si manifesta nel fatto che esso è semplicemente un ricettacolo della parola del Signore e “la tavola del cuore umano” (Proverbi 3:3) è in definitiva la pergamena sulla quale essa è scritta. Il Sofer ha l’obbligo di meditare e di pronunciare (lahagoth) ogni parola nel momento in cui la scrive: la parole del Sefer Torà interiore fluiscono dal mondo interiore, dal cuore dell’uomo, attraverso la sua mano, verso l’esterno, la pergamena, che l’accoglie.
Per l’opera svolta, Mosè è chiamato Safrà Rabbà deIsrael — il grande scriba, ma anche il grande libro di Israele— perche’ ha scritto e inciso in ogni ebreo per tutte le generazioni la parola del Signore, facendo di ogni ebreo un Sefer Torà vivente. Possiamo quindi trarre queste conclusioni:
- il libro interiore, come quello esteriore, è composto da pergamena e lettere;
- anche per il libro interiore, come per quello esteriore, le lettere e la pergamena devono essere lavorate e scritte lishmà, cioè esclusivamente per il fine stabilito.
Come si traduce questo discorso nel mondo delle mitzvoth? Vi sono due comandamenti: il primo di origine rabbinica e che consiste nell’educazione dei bambini fino al compimento di 12 anni per le femmine e di 13 per i maschi; il secondo stabilito dalla Torà che impegna il genitore a insegnare la Torà ai figli sempre, anche quando diventano adulti.
Il primo può essere paragonato alla preparazione della pergamena, mentre il secondo a quello della scrittura delle lettere. Prima di cominciare a scrivere le lettere della Torà sulla pergamena, la si deve lavorare per renderla idonea ad assorbire l’inchiostro. Così il bambino dovrà essere preparato e addolcito sotto la premurosa cura dei genitori per raccogliere l’insegnamento della Torà. Quando la pergamena è veramente liscia, allora potrà essere pronta ad accogliere le lettere della Torà: come è impossibile scrivere un Sefer Torà su una pelle che non è stata lavorata, così non è possibile mettere in pratica la mitzvà del Talmud Torà in senso pieno prima di avere preparato accuratamente l’animo e il carattere del bambino.
Queste categorie possono essere applicate anche alla storia della collettività di Israele: anche Israele prima di ricevere la Torà ha passato un periodo di preparazione che inizia con il patriarca Abramo, a cui Dio si rivela con le parole: Io sono il Signor tuo Dio che ti ha fatto uscire da Ur Casdim, continua con la rivelazione del Sinai: Io sono il Signor tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto. Questo processo, inziato con Adamo e durato per 26 generazioni, tante quante sono state necessarie perché Mosé potesse “scrivere” il Nome ineffabile – che ha un valore pari a 26 – nella Torà e nei cuori di Israele, si rinnova di generazione in generazione.
La kedushà che Israele ha ricevuto attraverso i patriarchi può essere paragonata alla santità della pergamena, quindi a qualcosa di meramente passivo, mentre l’accettazione della Torà rappresenta l’aspetto attivo. Anche l’elezione di Israele ha quindi due fasi: nella prima Dio sceglie i patriarchi, nella seconda Israele sceglie Dio e la sua Torà. Senza la prima non sarebbe stato possibile la seconda, senza pergamene sarebbe impossibile scrivere le lettere della Torà.
Se allarghiamo il discorso e guardiamo all’uomo e alla sua personalità, possiamo paragonare questi due aspetti a quelli che Maimonide e altri pensatori chiamano Néfesh e Rùach. Nella prima vengono comprese tutte le caratteristiche psicofisiche dell’uomo e nella seconda quelle intellettuali e spirituali. Il libro inetriore dell’uomo comprende entrambi questi aspetti della personalità umana. Quando la pelle interiore dell’uomo viene lavorata, la sua personalità viene trasformata in pergamene sulle quali è possibile scrivere il Sefer Torà interiore, la cui kedushà si espande e irradia verso l’esterno, rendendo sacro tutto ciò che viene a contatto con l’uomo.
Il compito del Maestro è quindi quello di completare l’opera dei genitori e di incidere nel cuore dei suoi allievi le lettere della Torà: solo allora le lettere potranno essere indelebili e essere trasmesse alla generazione successiva.
Scialom Bahbout
(Questo Dvar Tora’ si basa su una lezione di Rav Josef Dov Soloveichik, z.l.)