Per affrontare l’argomento proposto vorrei cimentarmi insieme a voi in un esercizio esegetico. Mi sembra, questo, l’unico modo sensato, almeno dal punto di vista della tradizione ebraica, per parlare di che cosa significa ascoltare la parola e testimoniarla. Penso che chi rappresenta un mondo culturale debba parlare il proprio linguaggio: sarà così più chiaro il modo specifico di ciascuno di noi di vedere l’argomento. È infatti importante conoscere il contenuto del pensiero ma anche in che modo ed attraverso quali forme il pensiero si fa pensiero. La tradizione ebraica esprime il proprio pensiero affrontando testi: con questo «esercizio» esegetico tenterò di percorrere allo stesso tempo la strada della «forma» del pensiero e quella del «contenuto» proprio nel cuore della nostra questione.
Vorrei proporre due spunti testuali di riflessione:
L’ascolto, l’annuncio e la testimonianza della Parola passano – nella prospettiva della tradizione ebraica – attraverso lo studio della Parola stessa. Non ci sono altre strade. Testimoniare la Parola significa aderire a quello che la Parola divina suggerisce all’uomo, ma ancor prima studiarla ed interpellarla.
Ascoltare significa non solamente sentire qualche cosa, ma entrare in una relazione. Relazione con il testo, relazione con Dio attraverso il testo, commento ed interlocuzione con il testo. Si potrebbe in qualche modo dire che nella tradizione ebraica luogo privilegiato della relazione con Dio è lo studio della Parola: è forse più profondo il rapporto con Dio nello studio che nella preghiera. Studiare significa percorrere la propria strada, unica, fra le settanta o seicentomila possibili letture ed interpretazioni della Parola.
La relazione con Dio attraverso il legame con la Sua Parola sono ben rappresentate in Esodo 31. Siamo appena prima dell’episodio del vitello d’oro, siamo nel momento in cui Dio consegna materialmente le tavole a Mosé. Siamo in un punto in cui niente è secondario: è l’attimo in cui la Parola ed il suo supporto petroso vengono consegnati a Mosè, rappresentazione concreta del passaggio del contenuto e della Parola da Dio all’uomo.
Che cosa ci dice il testo? Recita: «E quando il Signore finì di parlare con lui gli diede le tavole di pietra». «Quando il Signore finì di parlare con lui». Il verbo parlare, ledabber , ritornello costante del Pentateuco, è generalmente seguito dalle preposizioni le o el, a; qui la preposizione è ‘ittò, con lui. Dio parla con Mosè. Il commentatore classico Rashì, che riprende le tradizioni talmudiche e midrashiche, suggerisce una interpretazione significativa. È molto diverso parlare a una persona e parlare con una persona: nel primo caso c’è qualcuno che parla e qualcuno che ascolta, nel secondo c’è un dialogo in cui ogni locutore è anche un ascoltatore. Dio parla e Mosè ascolta, ma anche Mosè parla e Dio ascolta. Rashì così ricostruisce la situazione concreta: Dio insegnava la lezione – la Sua Parola – e Mosé ascoltava; poi insieme ripetevano ed interloquivano. La coppia Dio e Mosè, nel momento specifico della consegna delle dieci parole è in rapporto attraverso il medium della Torah.
Il modello Dio – Mosè è dunque l’archetipo del rapporto maestro – discepolo: quel Mosè che viene presentato sempre come Moshè rabbenu, Mosè nostro maestro, in realtà, è anche il primo discepolo. Per diventare maestri, per essere in grado di ritrasmettere la Parola bisogna essere in grado di essere dei discepoli. Nel linguaggio rabbinico il sapiente è talmid chakham , discepolo di un sapiente.
Esaminiamo la prosecuzione dell’episodio. Mosè prende le tavole e Dio gli dice: guarda che il popolo, ai piedi del monte, ha deviato e si è costruito un idolo; egli scende portando con sé le tavole su cui sono incise le Dieci Parole, Parole e tavole di origine divina ci sottolinea il testo. Mosè sa dunque che cosa è accaduto, lo ha saputo da Dio; scende con le tavole, vede quello che già sapeva e le rompe ai piedi del monte, come Mosè stesso conferma nella memoria dell’episodio che troviamo in Deuteronomio.
Come si può immaginare, molteplici sono le interpretazioni di questo passo. Ma forse ci dice anche qualche cosa in relazione al nostro tema dell’ascolto e della testimonianza della Parola.
Mosè ha in mano la Parola – le Dieci Parole sintesi della Parola – la quintessenza del sacro; vede ciò che già sapeva avrebbe visto e rompe le tavole. Qual è il senso di questa rottura? Mosè rompe le tavole perché ritiene che anche delle tavole – della Parola? – si può rischiare di fare idolatria: se le avesse consegnate al popolo, il popolo ne avrebbe fatto oggetto di culto, tanto quanto stava facendo col vitello. Mosè insegna che se non ci si adegua al contenuto della Parola, che spesso è un comando, di fatto la si trasforma in un idolo; e gli idoli vanno rotti
Il secondo spunto è un passo talmudico del trattato Shabbat, alla pagina 63a. Si tratta di una discussione tecnica che non è luogo qui approfondire; il punto che ci interessa tratta delle diverse modalità di studio tra sapienti. Ve ne propongo due:
Ha detto Rabbi Abba a nome di Rabbi Shimon ben Lakish: quando due discepoli si ascoltano reciprocamente il Santo, benedetto Egli sia, ascolta la loro voce.
Quando si studia insieme, e la modalità tradizionale ebraica di studiare è sempre in due persone, bisogna ascoltarsi reciprocamente; sembra un’ovvietà ma sappiamo bene che non lo è affatto. Il testo è chiaro: Dio ascolta la voce di coloro che studiano insieme a condizione che anch’essi si ascoltino reciprocamente. Studiare la Parola significa condividere e confrontarsi, così come emerso dall’esempio Dio-Mosè; se ci situa sulla linea della condivisione interumana, lo studio/ascolto della parola diventa non solo relazione tra uomini ma anche connessione con un Dio partecipe ed ascoltatore.
Il talmud prosegue:
Ha detto Rabbi Abba a nome di Rabbi Shimon ben Lakish: due sapienti che si sbandierano reciprocamente, il Santo, benedetto Egli sia, li ama.
Lo sbandieramento significa, nella lettura di Rashi, l’invito rivolto ad altri, o l’invito reciproco, a studiare, a condividere lo studio e cercare di capire insieme che cosa significa
la Parola anche senza il supporto di un maestro, se questo non c’è. E’ un invito su basi paritetiche, è la presa di iniziativa che apre al rapporto con il testo – con la Parola – nel tentativo della comprensione. E questa strada aperta porta all’amore di Dio perché, come suggerisce la tradizione mistica, nulla è più intimamente vicino a Dio che la Parola, la Torah. E nello studio la Parola, nella sua infinita ricchezza, si frammenta in tante letture, inevitabilmente moltiplicandosi. Ascoltare e testimoniare, in questa prospettiva, significa anche porsi come moltiplicatori della Parola.
In sintesi, dunque, due linee su cui riflettere:
- La Parola è elemento di relazione: relazione con Dio (modello Dio-Mosè), relazione maestro-discepolo, relazione discepolo-discepolo. Ascoltare, da sempre nel testo biblico come nella tradizione rabbinica, non è esperienza solitaria. Anche Mosè, che è solo con Dio, con Lui interloquisce. L’interlocuzione nell’ascolto è dunque la prima forma di testimonianza.
- L’ascolto è anche assunzione del contenuto della Parola come modello di comportamento. Da solo, rischia di essere solo esperienza intellettuale; senza prassi coerente la Parola evapora.
Segretariato Attività Ecumeniche (a cura), CONDIVIDERE E ANNUNCIARE LA PAROLA Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi (Giovanni 20,21),Atti della 50a Sessione di formazione ecumenica, Paderno del Grappa (TV), 28 luglio – 3 agosto 2013, Paoline, Milano 2014, 23-26..
Benedetto Carucci Viterbi è rabbino a Roma
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