“Rabbì Tarfon e gli Anziani cenavano insieme al piano superiore della casa di Nitzah a Lod, quando si pose loro la domanda: è più grande lo studio o la pratica? R. Tarfòn prese la parola e disse: la pratica è più grande. Prese la parola R. ‘Aqivà e disse: lo studio è più grande. Presero la parola tutti quanti e dissero: è più grande lo studio in quanto porta alla pratica” (Qiddushin 40b). Questa è la Halakhah: “Fra tutte le Mitzwot non ce n’è neppure una che abbia lo stesso valore del Talmud Torah, mentre il Talmud Torah vale quanto tutte le Mitzwot messe assieme, perché lo studio conduce all’azione. Perciò lo studio ha dovunque la precedenza sull’azione” (Maimonide, Hilkhot Talmud Torah 3, 3).
Negli Shabbatot fra Pessach e Shavu’ot è compresa la Parashat Qedoshim, il capitolo 19 del libro di Wayqrà che occupa un posto centrale nella Torah per più versi. Fiumi di inchiostro sono stati scritti dai commentatori che si sono interrogati sul versetto iniziale: “Parla a tutta la Comunità dei Figli d’Israel e dì loro: Siate qedoshim, perché qadosh sono Io, H.D. vostro”. In cosa consiste propriamente la qedushah? Come è possibile pretendere che l’uomo eguagli una caratteristica della Divinità? Lo Sfat Emet di Gur risponde in modo originale, sulla base di un’esegesi complessa che mi limito qui a riassumere. Egli pensa che ciò che distingue l’ebraismo da altre esperienze religiose non è tanto nell’eseguire i precetti della Divinità, tratto presente in altri credi, bensì nel considerarli come fonte di un approfondimento mentale che non ha pari in altre culture. Lo Sfat Emet distingue fra studio della Torah e pratica delle Mitzwot assegnando peraltro la dimensione della qedushah al primo. Giunge a sostenere che la dimensione che più eguaglia l’ebreo al suo Creatore, la qedushah appunto, si esplica nell’obbligo di analisi intellettuale della Mitzwah che ne precede l’osservanza. A questa stregua interpreta la duplice espressione che reiteriamo ogni volta che recitiamo la Berakhah preliminare: asher qiddeshanu be-mitzwotaw si riferisce allo Studio, mentre solo il successivo we-tziwwanu allude alla messa in pratica.
C’è tuttavia un Maestro della Mishnah che apparentemente contrasta con i suoi colleghi riuniti a Lod e con la stessa Halakhah: si tratta di R. Chaninà ben Dossà. I Pirqè Avot riportano alcuni suoi insegnamenti, fra cui la massima seguente: “Colui le cui azioni sono preponderanti rispetto alla sua sapienza (merubbin me-chokhmatò), la sua sapienza si mantiene; colui la cui sapienza è preponderante rispetto alle azioni, la sua sapienza non si mantiene” (3,9). Apparentemente R. Chaninà assegna più importanza all’azione che allo studio. A sanare la contraddizione provvede R. Binyamin ha-Kohen Vitale (Rabakh: Alessandria in Piemonte, 1651 – Reggio Emilia 1730), uno dei più grandi esegeti del suo tempo, nel suo commento Avot ‘Olam. Per Rabakh la mem di me-chokhmatò non introduce un complemento di paragone, ma semplicemente di provenienza. Egli traduce: “Colui le cui azioni derivano in abbondanza dalla sua sapienza (di Studio), la sua sapienza si mantiene (perché è finalizzata all’azione). Al contrario colui le cui azioni non si nutrono della sua sapienza, neppure la sua sapienza si mantiene”, perché non troviamo mai che l’azione porti allo Studio. Va da sé che neppure il solo studio teorico, puramente finalizzato alla conoscenza intellettuale e alla cultura, si mantiene a sua volta. Lo studio che porta all’azione rappresenta la virtù a scanso tanto di un’azione svincolata dallo studio che di uno studio svincolato dall’azione.
Nelle nostre Comunità troviamo, sotto questo profilo, due tipi di ebrei. Ci sono quelli che magari osservano, ma certamente non studiano Torah con un Rabbino regolarmente. Sono quelli che dicono: “Io non ho bisogno di lezioni: sono già ebreo”! Costoro pretendono di costituire l’asse portante del loro Bet ha-Kenesset, ma non si rendono conto di avere la forza di volo di un aliante. Questo tipo di velivolo, non dotato di motore proprio, sta su finché soffia il vento. Nel momento in cui la corrente d’aria si esaurisce, o muta all’improvviso per un intemperie, l’apparecchio precipita e con loro si assimila e si svuota la rispettiva Comunità. Ci sono d’altronde coloro che professano un interesse unicamente “culturale” per l’ebraismo, svincolato per definizione da qualsiasi tipo di osservanza che ritengono patrimonio affidato in esclusiva ai “ministri del culto israelitico” di b.m. e si contraddicono reiterando l’assunto radical-chic per cui l’ebraismo, a differenza di altre religioni, non conosce un sacerdozio professionale. Per costoro l’ebraismo non è molto più di una curiosità intellettuale: vogliono in genere sapere “cosa pensa la Torah” di questo e quel problema di cronaca, pronti a deriderne l’insegnamento se non si attaglia alle loro convinzioni “moderne” preconfezionate.
La nostra soluzione va in una terza direzione che media e integra le due precedenti: si chiama “studio che conduce alla pratica”. Occorre ricostituire nelle nostre Comunità un Bet Midrash per ebrei “non-professionisti” e non solo destinato agli aspiranti Rabbini, in cui si studi Torah li-shmah, senza secondi fini. È l’unica scommessa vincente per il nostro ebraismo. Le opzioni di comunicazione online risolvono oggi i problemi di distanza geografica fra le varie sedi, fino a pochi anni fa insormontabili. Non resta da riscoprire che la nostra dedizione. A tutti buon Shavu’ot, nel solco di un ritrovato e rinnovato “dono della Torah”!