Pierluigi Battista
Dunque, non c’è che da ribadire la domanda: come mai l’ostilità, l’indignazione, il furore sono tutti indirizzati contro le presunte abiezioni della storia sionista e israeliana e non suscitano reazioni nemmeno lontanamente paragonabili nel resto del mondo, e nella spaventosa storia del Novecento?
A me sembra che in questa «dismisura» non c’entri la storia, così come si è effettivamente svolta, ma il modo in cui funziona una mentalità diffusa. Diffusa anche al di là degli steccati ideologici più conosciuti e ovvi. Diffusa, intendo dire, pure in ambienti e tra persone che non appaiono particolarmente sensibili ai richiami di un terzomondismo perenne, di un antiamericanismo di maniera, e che non sono certo scossi da brividi di sdegno all’udire parole riprovevoli per un terzomondista doc, come «imperialismo», «capitalismo», «Occidente». Diffusa come un marchio appetibile, una divisa alla moda che fa indossare la kefiah palestinese come un accessorio attraente in grado di trasmettere a chi la indossa la sensazione di fare la cosa giusta, di segnalare l’adesione a una causa buona e commovente. Diffusa dove un’antica giudeofobia di matrice cristiana non ha ancora, malgrado svolte conciliari e ammirevoli impegni papali, smaltito le sue scorie millenarie: come si evince dalle rozzezze con cui, anche tra molti vescovi, viene liquidata la questione sionista ricorrendo a luoghi comuni vestiti da argomenti teologici.
Diffusa però, in Italia e in Europa, anche in una borghesia «perbene» e autocontrollata che mai pronuncerebbe una parola scortese o irriverente nei confronti degli ebrei e della cultura ebraica, ma nello stesso tempo ammicca compiaciuta a ogni severità riguardo lo Stato che storicamente gli ebrei hanno conquistato. Che dice di adorare l’ebreo della Diaspora (quello ancora oggi quantitativamente più numeroso nel mondo, peraltro), ma non l’ebreo guerriero specializzato nell’uso delle armi. Marc Chagall o Woody Allen, ma non Moshe Dayan. Che adora Elie Wiesel quando ricorda in lacrime, custode della memoria, le vittime della Shoah ma non quello, troppo politicamente esposto, che accampa diritti religiosi e storici sulla città di Gerusalemme. […]
Un simile, plateale abbandono degli ebrei si giustifica solo con quella mentalità diffusa che ha fatto in questi anni e in questi decenni del Palestinese non un’entità storica, ma l’incarnazione, il paradigma, il simbolo della Vittima. L’emblema del reietto, la sintesi di tutti i «dannati della Terra». Il popolo per antonomasia che carica su di sé tutte le sofferenze, le atrocità, le angherie che i popoli oppressi subiscono. Un simbolo che necessariamente conduce al suo contrario, all’altro protagonista di questo dramma più cosmico che storico, più ideale che reale e concreto: la figura, l’incarnazione, il paradigma del Persecutore. E se ha preso piede una colossale sciocchezza sulla vittima di «ieri» che si trasforma nel carnefice di «oggi» è perché tu, voi antisionisti avete trovato motivo di rassicuranti certezze in questa rappresentazione grottesca del Bene e del Male che si scontrano in una contesa universale, dove la vittoria dell’uno non può che comportare la rovina dell’altro.
Sottrarsi a un tale tossico incanto manicheo è molto difficile. Così come è molto difficile confutare un istinto, una fede irriflessa e impermeabile alla smentita dei fatti. Ma, al contrario, non dovrebbe essere molto difficile capire le conseguenze catastrofiche che questo teatrale e arbitrario accostamento dell’ebreo alla figura immonda del Persecutore riverbera velenosamente su tutti gli ebrei, quelli della Diaspora e i sabra di Israele, senza distinzioni stavolta. Invece è in questo legame malato che prende forza e prepotenza la sovrapposizione sempre più frequente tra antisionismo e antisemitismo. Trasformare l’ebreo nel malvagio «sionista» non lo sottrae alla perversione morale di un marchio infamante, anzi carica tutta la vicenda ebraica di quello stesso marchio infamante.
Non capire tale nesso, caro amico antisionista, non spezzare questa micidiale catena che identifica il «nuovo» ebreo israeliano con la figura eterna del Persecutore, risveglia prepotentemente lo spettro dell’antisemitismo e gli dà nuova linfa, nuovo vigore, nuove giustificazioni, nuovi veleni. Fare di Israele la figura crudele della storia contemporanea indica l’«ebreo» come responsabile delle peggiori nefandezze, riversando l’odio sul nuovo mostro contro cui è legittimo rivoltarsi. Davvero nuovo? No, quello solito, quello di sempre.
(da “Lettera a un amico antisionista”)
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