Il medico ebreo Ludwik Fleck sperimentò nel ghetto di Leopoli un vaccino anti-tifo tratto dai pazienti infetti: un ufficiale SS ne fu colpito e gli affidò la guida del laboratorio nel Lager
Sergio Luzzatto
Primo Levi ha riconosciuto come decisivo per la sua sopravvivenza ad Auschwitz il fatto di avere potuto lavorare, da un certo momento in poi, nel Kommando Chimico di Monowitz-Buna. Di essere stato redutato, grazie alla sua laurea scientifica, in quella caricatura della ricerca sperimentale che nella fabbrica Buna corrispondeva al laboratorio del Reparto Polimerizzazione. L’ebreo italiano tatuato con il numero 174517 è sopravvissuto perché aveva superato, al cospetto del «Doktor Pannwitz», un «esame di chimica» (è il titolo di un capitolo di Se questo è un uomo) talmente improbabile e grottesco da contenere – forse – l’«essenza della grande follia della terza Germania». Un anno prima di lui, a un altro uomo di scienza toccò di avvicinare l’essenza di quella grande follia. Era un uomo di oltre vent’anni più vecchio del venticinquenne Primo Levi, e ben più noto di lui prima di essere deportato. Era un medico polacco, un ebreo di Galizia che si chiamava Ludwik Fleck e che aveva pubblicato in tedesco, nel 1935, Genesi e sviluppo di un fatto scientifico: una pietra miliare della moderna epistemologia. Nella Leopoli tragica del 1943, toccò a Fleck di superare, al cospetto di un tale dottor Weber delle SS, un esame di batteriologia. E gli toccò quindi di aderire al più incongruo possibile dei profili professionali: immunologo ad Auschwitz.
La storia di Fleck, e delle straordinarie circostanze che lo portarono a dirigere il laboratorio sierologico del cosiddetto Istituto di Igiene di Auschwitz, è raccontata ora in un libro tradotto per i tipi di Bollati Boringhieri: ll fantastico laboratorio del dottor Weigl, di Arthur Allen. Un gran bel libro, sul più ingrato degli argomenti: la lotta contro il tifo nell’Europa del Terzo Reich e della Soluzione finale; nell’Europa di Heinrich Himmler e del dottor Mengele, delle finte docce di Auschwitz e delle vere camere a gas. Il collante della storia è rappresentato – evidentemente – dai pidocchi. Dagli insetti parassiti, che fin dall’inizio del Novecento erano stati scientificamente riconosciuti quali agenti infettivi del tifo. E dagli ebrei, che fin dagli esordi del nazismo erano stati additati quali parassiti disgustosi e ubiqui, che andavano estirpati dal corpo sano della Germania e dall’intero suo «spazio vitale». La «geomedicina» tedesca degli anni Trenta aveva fatto il resto, promuovendo l’idea che il tifo fosse una patologia caratteristicamente ebraica, e prestando così legittimazione scientifica alla costruzione dei ghetti. Dopodiché, il nesso cogente tra disinfestazione dai pidocchi e disinfestazione dagli ebrei aveva trovato la più plastica delle evidenze – ad Auschwitz-Birkenau – nella procedura di svestizione che immediatamente precedeva l’andata in gas.
Nella Leopoli cosmopolita degli anni Venti, il giovane Ludwik Fleck era stato assistente di Rudolf Weigl: lo zoologo austro-polacco che aveva poi, negli anni Trenta, messo a punto un sistema pioneristico (ancorché disgustoso) per produrre un vaccino anti-tifo. Vaccino ottenuto alimentando larve di pidocchi con sangue umano, che gli insetti succhiavano dalle cosce e dai polpacci di donatori volontari; iniettando nei pidocchi sani il batterio del tifo tratto da pidocchi infetti; omogeneizzando e centrifugando gli intestini dei pidocchi contaminati, ripieni del sangue succhiato agli «alimentatori». Alle soglie della Seconda guerra mondiale, il vaccino di Weigl rappresentava quanto di più efficace fosse conosciuto in Europa quale metodo di profilassi antitifica. Il che contribuisce a spiegare il destino occorso al laboratorio del dottor Weigl dopo l’Operazione Barbarossa del giugno 1941, cioè dopo l’invasione tedesca dell’Europa orientale.
Subito dopo avere occupato Leopoli, averne trucidato l’intellighenzia universitaria, e avere avviato anche in Galizia lo sterminio di massa degli ebrei, plenipotenziari di Himmler bussarono alla porta del laboratorio di Weigl. Gli offrirono una cattedra a Berlino e il patrocinio tedesco per il premio Nobel, chiedendogli – in cambio – di moltiplicare la produzione del suo vaccino a beneficio delle truppe del Reich mobilitate sul fronte dell’Est. Weigl, che aveva ancora negli occhi l’immagine dei colleghi d’università trucidati, declinò l’offerta della cattedra a Berlino, ma accettò la proposta di cooperare con l’occupante. Nei tre anni seguenti, decine di migliaia di dosi del vaccino di Weigl uscirono dal laboratorio della via San Nicola per immunizzare contro il tifo ufficiali e soldati della Wehrmacht, delle Einsatzgruppen, delle SS.
In quegli stessi anni – tuttavia – il laboratorio del dottor Weigl divenne anche qualcosa di molto simile a un rifugio umanitario, e a un covo della Resistenza polacca. Perché impiegandoli quali «alimentatori» dei pidocchi, Weigl ottenne dall’occupante un salvacondotto per un numero imprecisato di abitanti di Leopoli: da mille a tremila insegnanti, musicisti, romanzieri, biologi, matematici, molti dei quali impegnati in attività politiche clandestine. Il vaccino che protesse dal tifo, sul fronte orientale, reparti interi di aguzzini delle SS e delle Einsatzgruppen, era stato ricavato dagli intestini di pidocchi nutriti con il sangue dell’intellighenzia antinazista di Leopoli salvata da Weigl. L’accoglienza nel laboratorio della via San Nicola non poté estendersi a Ludwik Fleck, l’ex assistente di Rudolf Weigl. Il permesso di alimentare i pidocchi era tassativamente preduso a quei pidocchi degli ebrei. E tanto più era preduso dopo il loro confinamento, a Leopoli, nel ghetto oltre la linea ferroviaria. Ma in un ospedale di quel ghetto decimato dal tifo, l’immunologo Fleck trovò l’energia necessaria per sperimentare un suo vaccino, più o meno efficace, tratto dall’urina dei pazienti infetti. Abbastanza per impressionare il dottor Bruno Weber, ufficiale sanitario delle SS in visita nel ghetto, e per garantire a Fleck – dopo la sua deportazione ad Auschwitz nel 1943 – un trattamento di favore. Prima l’alloggio in una stanza del “Canada” (II magazzino del lager), poi la direzione del laboratorio sierologico presso l’istituto d’Igiene. Dove il dottor Fleck analizzava campioni di sangue sotto lo sguardo fisso di due gemelli, due teste in formalina di bambini zingari vivisezionati dal dottor Mengele. Successivamente trasferito al campo di Buchenwald, Fleck si vide affidare dai nazisti il compito di produrre vaccino antitifico sulla base di un metodo particolarmente complesso, sperimentato nel frattempo all’Institut Pasteur di Parigi. E Fleck ebbe ancora la lucidità per organizzare – con altri scienziati detenuti nel Blocco 50 – un sistema clandestino di doppia produzione: vaccino inefficace con cui immunizzare i militari tedeschi, vaccino efficace con cui immunizzare i prigionieri di Buchenwald attivi nella Resistenza…
Sopravvissuto alla Soluzione finale, Ludwik Fleck resterà in Polonia fino al 1957: professore universitario prima a Lublin poi a Varsavia, entro il grigio orizzonte del socialismo reale. Si deciderà a partire per Israele soltanto quando verrà raggiunto da voci che corrispondevano ad accuse, accuse di collaborazionismo. Lo stesso genere di voci che in quello stesso 1957 accompagneranno alla tomba Rudolf Weigl, il domatore di pidocchi della via San Nicola.
Arthur Allen, Il fantastico laboratorio del dottor Weigl. Come due scienziati trovarono un vaccino contro il tifo e sabotarono il Terzo Reich, traduzione di Enrico Griseri, Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 374, 25,00, in libreria dall’11 giugno