Discorso pronunciato a Roma in occasione della cerimonia per il 40 anno di in insegnamento di rav Chaim Vittorio Della Rocca
Credo che per capire l’importanza di una Kehillà (Comunità) sia necessario definire, anche se molto brevemente e in modo assolutamente generico, che cosa la tradizione ebraica intenda per Comunità. Al principio del libro dei Bereshit è narrato che l’uomo viene creato da solo ma Dio stesso subito dopo disse: “Non è cosa buona che l’uomo rimanga in solitudine; farò quindi un aiuto per lui”.
Ogni lettore della Torà si potrebbe porre a questo punto una domanda: se non è bene per l’uomo essere da solo, perché non crearlo fin dal principio assieme ad altri esseri umani? La questione non è certo nuova: i commentatori della Torà si pongono questo quesito da molti secoli. La domanda, potrebbe forse essere posta in termini più moderni: qual è l’uomo ideale, quello creato a immagine divina, l’uomo libero e indipendente, solo, o quello che vive all’interno di una comunità che assegna ruoli, diritti e doveri ai quali egli aderisce con assoluto rispetto?
Si potrebbe rispondere che entrambe le esperienze, sia quella della solitudine che quella della partecipazione sono elementi basilari e inseparabili della coscienza ebraica. L’uomo ideale creato a immagine di Dio da una parte è un singolo, un individuo isolato, dall’altra è in costante relazione con il prossimo e coesiste con l’altro attraverso una struttura comunitaria. E’ nella capacità di saper vivere in questa contraddizione che si manifesta la grandezza dell’ebreo. Ciascun individuo è solo, o per dirla con una frase dei maestri, è un piccolo mondo a sé, ogni uomo o donna possiede qualcosa di unico e di raro che è sconosciuto agli altri e proprio a causa di questa singolarità gli individui diventano complementari e si associano aggiungendo una nuova dimensione alla coscienza comunitaria. La Torà chiede all’ebreo di essere innanzitutto un uomo solo, un essere particolare, un creatore originale che con coraggio protesta e combatte per i propri ideali. Se non fosse così, noi ebrei, spesso lasciati soli nella storia nostro malgrado, saremmo scomparsi ormai da molto tempo. Ma l’ebreo deve saper anche vivere con l’altro e per l’altro. Moshè fu il più grande tra coloro che vissero in solitudine. Di lui la Torà ci racconta che piantò la sua tenda “michutz lamachanè” fuori dall’accampamento. Ma la Torà ci dice anche che il popolo di Israele stava davanti a Moshè “min boker ‘ad ‘arev” dal mattino fino a sera. Il rapporto tra individui solitari e particolari, la considerazione dell’esistenza altrui, questo è ciò che sta alla base di una Comunità.
Una Mishnà stabilisce che un ebreo debba rispondere al saluto e a volte anticiparlo perfino durante la lettura dello Shemà’ Israel. E’ come se i maestri della Halakhà ci abbiano voluto insegnare che il rapporto con l’altro, al limite con il solo saluto, fa parte del “‘ol malkhùt shammaim”, dell’accettazione del dominio del regno dei cieli che si consegue proprio attraverso la lettura dello Shemà’.
Un passo del Midrash Mekhiltà, per alcuni versi terribile, pone ognuno di noi di fronte alle proprie responsabilità. La fonte in questione racconta che quando Rabbàn Shimòn ben Gamliel e Rabbì Ishm’àel comparvero davanti ai Romani e fu decretata per loro la pena di morte, Rabbàn Shimon si mise a piangere e disse all’amico: Non piango di paura ma perché non trovo in me un peccato così grave per il quale Dio permetta la mia morte. Forse, rispose Rabbì Ishmaèl, un giorno è venuta a casa tua una povera donna che aveva bisogno del tuo aiuto e il tuo servo le disse: Egli adesso dorme. Forse è questo il tuo peccato. Rabbàn Shimòn gli rispose: Questo è successo. Amico mio, mi hai consolato.
Una povera donna, magari una vedova che aveva bisogno di un aiuto, commenta rav Soloveitchik. E’ seduta e aspetta il risveglio di Rabban Shimòn. Ma se al posto suo ci fosse stato un ricco, magari un ministro, Rabbàn Shimon avrebbe continuato a dormire? Il servo non lo avrebbe forse svegliato? Una vedova, un povero, vale forse meno di un ministro? Quella donna, continua rav Soloveitchik, forse ha pianto, non per la mancanza di aiuto ma perché si è sentita rifiutata per la sua condizione. Rabban Shimon è morto per quella lacrima.
A noi, che non siamo Tzaddikim come Rabban Shimon e Rabbì Ishmael non rimane altro che l’insegnamento del Midràsh. La considerazione dell’altro, Il rispetto di chiunque, non lasciare che il nostro prossimo perduri nella strada della solitudine, questa è una comunità ebraica.
In questa visione della Comunità la figura del Maestro riveste un posto fondamentale ed è proprio attorno al rav che si sa circondare di allievi che si sviluppa la vita della Kehillà.
Il vero Maestro sa far suo l’insegnamento di Shelomò Hamelekh: “Chanòkh lana’ar al pi darcò”, che ogni alunno ha bisogno di un’educazione particolare. Il Maestro deve, nei limiti del possibile, sviluppare le capacità individuali e le attitudini dei propri allievi o, in altri termini, deve incoraggiare ciò che abbiamo definito “la solitudine dell’individuo”. Deve insegnare ai propri discepoli a costruire un proprio particolare rapporto creativo con la tradizione ebraica. Per questo è necessario fornire all’alunno una memoria storica e un senso di orgoglio per l’appartenenza al popolo ebraico. Il Maestro deve saper insegnare che le mitzvòt, il commento alla Torà, la halakhà non è solo cultura da studiare ma la base fondamentale per l’eternità di Israele. Ma non basta, un Maestro deve saper creare tra gli alunni uno spirito di solidarietà, di rispetto, un desiderio di unione, in pratica un senso di Kehillà, innanzitutto con il suo esempio, con la sua capacità di legarsi ad ogni ebreo con amore e rispetto.
Credo che il mio Morè rav Chajìm Vittorio Della Rocca sia l’immagine del vero Maestro d’Israele. In lui vi è la rara capacità di saper parlare ad ogni alunno e di trovare le giuste parole di Torà che risvegliano il sentimento ebraico più nascosto. Saper scoprire in che cosa ogni Talmid è “solo”, è particolare, è così una delle sue doti principali che lo rende d’esempio per ogni rav e per ogni educatore. Ma rav Chajim Della Rocca è anche un modello per ogni ebreo che desideri appartenere realmente ad una Comunità ebraica. Ho trovato poche persone che come lui amano la propria Kehillà. Ogni ebreo, sia ricco o povero, ogni vedova che ha bisogno di conforto può trovare in lui non solo un Maestro, un vero rav, ma anche un amico a cui confidare le proprie difficoltà, i propri dubbi, poiché sente di avere di fronte una persona disponibile all’aiuto.
Morè della Rocca, le sono grato per essere stato ed essere tuttora un suo alunno.