La memoria può essere inquinata, annacquata e banalizzata: per questo va difesa bene. Lettera al “Corriere della Sera” del Rabbino Capo di Roma.
Caro direttore, nell’ultima commemorazione del massacro delle Fosse Ardeatine, è stato scorto tra il pubblico il gonfalone della Guardia d’onore alle reali tombe del Pantheon. Molti si sono chiesti che ci stessero a fare, i custodi della memoria di casa Savoia, in quel momento e in quel luogo le poco onorevoli gesta dell’ultimo re di Savoia. Il fatto è che le celebrazioni possono perdere senso, gli inquinamenti sono sempre possibili.
Si fa presto a dire memoria. La memoria di fatti importanti non solo può evocare traumi e divisioni mai composte, ma se gestita incautamente provoca ulteriori lacerazioni. Il 25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo, non è la festa di tutti, come qualcuno dichiara retoricamente, è il ricordo di una guerra civile. Ma per gli ebrei è una festa, non solo come la fine di un incubo ma anche come segno di rinascita. Perché la partecipazione ebraica alla lotta contro il nazifascismo è un dato reale e non di piccolo conto.
Non c’è stata infatti solo la resistenza nei ghetti e nelle foreste dell’Europa orientale, c’è stata la partecipazione di migliaia di ebrei nell’Armata Rossa e negli eserciti delle democrazie occidentali; c’è stata anche la resistenza nell’Europa occidentale, con un contributo di partecipazione, di decorazioni e di vittime ben superiore all’entità numerica degli ebrei; c’è stata infine la Brigata ebraica, che seppure inquadrata tardivamente nei ranghi dell’esercito britannico, che non si fidava di un corpo ebraico organizzato, nel marzo e nell’aprile del 1945 fece a tempo a versare il suo sangue per la liberazione dell’Italia.
Nel ricordo ebraico è ben difficile distinguere tra la vittima passiva e inerme, comunque martire e sacra, e chi ha imbracciato le armi; per altri talora risulta difficile e anche inaccettabile capire la differenza tra i singoli ebrei sparsi negli eserciti e nelle bande partigiane e quelli invece riuniti come tali a combattere con una loro bandiera; perché quella è stata una rivoluzione storica e identitaria che è alla base della fondazione dello Stato d’Israele. Questo è il motivo per cui consciamente o inconsciamente il vessillo della Brigata ebraica, che ha tutti i diritti di sfilare insieme ai liberatori, è esposto ai fischi e agli insulti di qualcuno.
La memoria può essere inquinata, annacquata, banalizzata. I problemi di oggi meritano tutta la nostra attenzione alla luce delle lezioni del passato, ma bisogna evitare confusioni e malintesi. Oggi l’attualità è anche quella di sanguinose guerre nel Medio Oriente (nel senso di Siria e Iraq). Ma l’attenzione retorica e fuorviante si concentra solo sulla Palestina, con inviti ufficiali di sezioni locali dell’Anpi, in ossequio a un modulo interpretativo grossolano che oppone i buoni contro i cattivi, gli oppressi contro gli oppressori. Per questo molti ebrei non accettano che si metta sullo stesso piano ideale la lotta di liberazione antifascista con un’interpretazione approssimativa e parziale del conflitto mediorientale.
Sono figlio di partigiani. I miei genitori scappati insieme a due bambini si rifugiarono in un paese delle Marche e si unirono alla banda partigiana della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione, mia madre, concreta e antiretorica, non volle prendere la tessera di «patriota», come si chiamavano allora i partigiani; mio padre ebbe una medaglia d’argento.
Non credo che partecipassero intensamente alle manifestazioni dei primi anni. Si limitavano, ma non era poco, a esporre alla finestra di casa il tricolore nelle feste nazionali. Mi chiedo cosa avrebbero fatto oggi davanti a tutte le polemiche. Dubito che avrebbero accettato di sfilare con le loro memorie in mezzo a un cordone di sicurezza e insieme a chi viene invitato maldestramente e retoricamente come combattente per la libertà. Bisogna stare attenti alle scelte e alle parole, quando si confronta l’attualità con la storia.
Tra i fatti d’attualità più gravi c’è l’arrivo di migliaia di migranti sulle nostre coste. Condividiamo la preoccupazione per la difesa della dignità e dei diritti dei migranti, ma l’equiparazione dei campi di raccolta con i campi di concentramento è fuorviante e rischiosa. Per noi i campi di concentramento sono stati l’anticamera dei campi di sterminio, senza via di scampo. E chi si occupa dell’ordine pubblico spesso davanti a criminalità comune non può essere messo sul piano di una guardia nazifascista. La memoria esige cautela.
Riccardo Di Segni
Rabbino Capo di Roma
(Corriere della Sera, 25 aprile 2017)