I convertiti possono essere l’esatto contrario degli ebrei che si assimilano. Nei nomi e nei comportamenti.
Pierpaolo Pinhas Punturello
Basta sfogliare un semplice lunario, un qualsiasi calendario che riporti indirizzi, nomi di associazioni e comunità ebraiche e dei loro amministratori e rappresentanti per rendersi conto che al di là delle statistiche demografiche o proprio all’interno di queste, anche il piccolo ebraismo italiano sta cambiando ed è cambiato anche nella fisionomia dei propri cognomi.
Basta partecipare ad una tefillà in un qualsiasi Bet HaKnesset d’Italia, specie nelle piccole e medie comunità, per rendersi conto di quanti figli di Avraham Avinu sono chiamati a Sefer il Sabato mattina, il Lunedì, il Giovedì. A volte anche per rendersi conto che lo stesso rav… è figlio di Avraham Avinu.
Un fantasma si aggira per l’Italia ebraica: il gher, la ghioret, colui che spesso non ha nessun genitore o nonno ebreo ma che accompagna ogni mattina i propri figli ebrei nelle scuole ebraiche di Roma, Milano, Torino, Trieste, Venezia.
Colui o colei che spesso è consigliere in Comunità, segretario di Comunità, rappresentante della locale sezione del Keren Kayemet, Keren Hayesod, Adei-Wizo. Colui o colei che in altre parole vive attivamente e positivamente il proprio ebraismo, tanto da mettere in gioco il proprio tempo per nome e conto della propria Comunità e facendo questo mette in crisi molta della identità statica di quella stessa Comunità.
Le statistiche dell’UCEI giustamente rilevano i dati numerici della presenza ebraica in Italia, ma non sempre ne colgono le sfumature culturali e sociali. Un esempio in questo senso potrebbe essere dato solo curiosando le note tristi e le note liete di un qualsiasi giornale comunitario da Trieste a Napoli, da Genova a Venezia: i cognomi di chi ci “ha lasciato” sono sempre indubbiamente ebraici, mentre più spesso i mazal tov per le poche nascite o matrimoni o bar e bat mitzvà si indirizzano a famiglie dove il cognome ebraico è scomparso dietro ad un matrimonio misto o non è mai esistito trattandosi di un lieto evento in una famiglia di gherim, convertiti.
L’ebraismo italiano ha dedicato giornate di studio, incontri e convegni di grande spessore al fenomeno delle conversioni, ma non ha mai scrutato nella vita delle comunità, nelle piccole e vitali organizzazioni comunitarie cercando di comprendere le trasformazioni silenziose ma significative che avvengono e continueranno ad avvenire.
Non esiste una sola Comunità ebraica italiana, non esiste una sola organizzazione ebraica in Italia che non abbia nel suo consiglio, nel suo apparato dirigenziale ed amministrativo persone che hanno scelto di essere ebree e la cui scelta è di fatto una scelta di grande partecipazione e costruzione identitaria oltre ad essere una scelta religiosa. Come a dire che alla scelta religiosa, sana, consapevole corrisponda un’altrettanta capacità e predisposizione ad agire in prima persona per la propria realtà ebraica, non accontentandosi solo dell’esserne parte.
Se le statistiche numeriche non ci raccontano di questa presenza, non possono neanche raccontarci di come questa presenza ebraica di scelta e non di nascita sia vissuta nella realtà politica e religiosa delle nostre comunità e delle nostre organizzazione ebraiche. Certamente è impossibile tracciare un comportamento comune e condiviso di tutti gli ebrei d’Italia rispetto alle conversioni, ma si possono individuare aeree del pensiero e dell’azione sociale nelle quali gli incontri e gli scontri tra ebrei per nascita ed ebrei per scelta sono frequenti.
In ambito religioso l’incontro-scontro è manifesto: ad una realtà assimilata e spesso assimilazionista colui che è scrupoloso nelle mitzvot in genere non viene compreso, se poi l’osservanza nasce in un contesto di scelta personale e non di origine familiare la non comprensione può diventare un terreno scivoloso con sfumature interessanti dal punto di vista antropologico, certo non da quello ebraico. L’ebreo assimilato o tendenzialmente poco osservante giustifica il proprio vicino gher tzedek perché “essendo lui non nato ebreo deve osservare le mitzvot, mentre io posso non farlo per diritto di nascita.” La scelta di essere ebrei obbligherebbe alle mitzvot, l’essere nati ebrei sembra invece una libera porta al libero arbitrio. Il terreno di incontro diventa ancora più accidentato nei contesti in cui il gher tzedek o la ghioret sposa un ebreo nato tale e, imponendo il proprio ritmo di vita saldamente ebraico, sente rispondersi dal proprio compagno/a che “noi abbiamo sempre fatto così e siamo ebrei da più tempo di te.” Come se il diritto ebraico si sia cristallizzato nel tempo e quindi permetta una sorta di anzianità identitaria che in alcuni casi può portare a guidare di Shabbat o a telefonare alla vecchia zia per sapere come sta.
In ambito decisamente più politico e forse per questo più interessante in quanto fenomeno di gestione delle realtà ebraiche di Italia, la presenza dei gherim in molti consigli di Comunità ed altri luoghi rappresentativi dell’ebraismo italiano ha creato e crea forti tensioni nella stessa gestione di queste realtà. Innanzitutto dobbiamo accettare l’idea che la presenza dei gherim in quei contesti è indice di due fattori: la forte partecipazione di questi ultimi alla vita comunitaria locale e nazionale e la assenza ed il disinteresse di molti ebrei sia verso la propria realtà ebraica locale, che verso una qualsiasi forma di attivismo ebraico.
Questi due fenomeni, per quanto vicini, non sono necessariamente collegati altrimenti saremmo portati a dire che la presenza dei gherim nel consiglio della Comunità di una qualsiasi città italiana è data dal disinteresse degli ebrei locali per la stessa comunità. Indubbiamente esistono realtà ebraiche numericamente piccole dove se è ancora possibile avere una decente vita ebraica, dal minian per le funzioni religiose, alla organizzazione di un seder di Pesach questo si deve alla presenza attiva dei nuclei familiari di gherim. Lo scontro culturale nella gestione dei luoghi comunitari è però un fenomeno in crescita ed, in una realtà che conosco bene, uno dei simboli di una difficile conciliazione nella gestione della Comunità tra i consiglieri nati ebrei ed i consiglieri ebrei per scelta è la manutenzione del cimitero antico, quasi non più in uso, che è fonte di grosse spese per la Comunità stessa.
I consiglieri ebrei per scelta sono meno predisposti a considerare la manutenzione del cimitero come il luogo centrale della identità ebraica della Comunità, ponendo i loro sforzi più in campo educativo, formativo e religioso. Piuttosto che spendere svariate migliaia di euro l’anno per la conservazione di un cimitero con il quale ovviamente i gherim non hanno legami familiari ma sul quale non hanno neanche costruito la loro scelta identitaria, essi preferirebbero o avrebbero preferito un equilibrio di spese che portasse ad una manutenzione dell’antico cimitero ma anche ad attività vitali per la realtà ebraica locale e per i giovani della stessa comunità.
Questo scontro, che è di fatto anche uno scontro tra identità ebraiche diverse e portatrici di storie familiari con sguardi opposti tra passato e futuro, ha portato alle dimissioni di alcuni gherim dal Consiglio comunitario.
La presenza di nuclei familiari ebraici dove uno se non tutti i membri sono di origine non ebraica sta avendo una influenza anche sulla crescente alyà dall’Italia con conseguenze che influenzano anche i rapporti con la Rabbanut israeliana ed i Bettè Din, Tribunali Rabbinici che si occupano di conversioni. I nuovi olim che sono ebrei per scelta spesso devono faticare il doppio per poter ottenere il riconoscimento del loro status ebraico e godere quindi dei diritti che gli spettano in quanto nuovi immigrati: personalmente ho accompagnato per ben due volte all’ufficio della Rabbanut di Gerusalemme due giovani ragazzi italiani che dopo aver presentato i loro certificati di ghiur avevano bisogno di ulteriori testimoni della loro ebraicità.
Se dovessimo analizzare tutti questi nuovi fenomeni dal punto di vista numerico, forse saremmo portati a non considerarli di primo interesse, sebbene anche il numero dei gherim in Italia sia in forte crescita, ad ogni modo la costante presenza del fenomeno delle conversioni, poche o numerose che siano, non può non essere analizzata e valutata anche per comprendere meglio il momento di crisi o forse passaggio generazionale che non risparmia nessuna realtà ebraica italiana.
A questo proposito concludo con un episodio che mi riguarda personalmente e che può essere una chiave di lettura dell’incontro/scontro che ho esposto. Quando lavoravo come rabbino a Napoli mi è capitato di dover preparare dichiarazioni di ebraicità per persone che, avendo subito l’infamia delle leggi razziali, hanno poi fatto richiesta del vitalizio come perseguitati politici e razziali. Una signora non più residente a Napoli si presentò in Comunità e mentre le compilavo il documento necessario vedendo il mio nome a margine del foglio chiese: “Mi scusi, ma che cognome strano, lei è ebreo?” Le risposi, conoscendo molto bene la sua storia familiare: “Cara signora, viviamo tempi bizzarri, colui che attesta la sua ebraicità ed è ebreo si chiama Punturello ed i suoi cugini, che ebrei non sono, si chiamano tutti con un cognome ebraico.”
Con quella risposta non mi comportai da maestro, con quella risposta applicai su di me la citazione del Talmud Yevamot 47 b: “I convertiti sono duri per Israele come fossero spine.”
http://www.romaebraica.it/ebraismo-e-conversioni/
Basta partecipare ad una tefillà in un qualsiasi Bet HaKnesset d’Italia, specie nelle piccole e medie comunità, per rendersi conto di quanti figli di Avraham Avinu sono chiamati a Sefer il Sabato mattina, il Lunedì, il Giovedì. A volte anche per rendersi conto che lo stesso rav… è figlio di Avraham Avinu.
Un fantasma si aggira per l’Italia ebraica: il gher, la ghioret, colui che spesso non ha nessun genitore o nonno ebreo ma che accompagna ogni mattina i propri figli ebrei nelle scuole ebraiche di Roma, Milano, Torino, Trieste, Venezia.
Colui o colei che spesso è consigliere in Comunità, segretario di Comunità, rappresentante della locale sezione del Keren Kayemet, Keren Hayesod, Adei-Wizo. Colui o colei che in altre parole vive attivamente e positivamente il proprio ebraismo, tanto da mettere in gioco il proprio tempo per nome e conto della propria Comunità e facendo questo mette in crisi molta della identità statica di quella stessa Comunità.
Le statistiche dell’UCEI giustamente rilevano i dati numerici della presenza ebraica in Italia, ma non sempre ne colgono le sfumature culturali e sociali. Un esempio in questo senso potrebbe essere dato solo curiosando le note tristi e le note liete di un qualsiasi giornale comunitario da Trieste a Napoli, da Genova a Venezia: i cognomi di chi ci “ha lasciato” sono sempre indubbiamente ebraici, mentre più spesso i mazal tov per le poche nascite o matrimoni o bar e bat mitzvà si indirizzano a famiglie dove il cognome ebraico è scomparso dietro ad un matrimonio misto o non è mai esistito trattandosi di un lieto evento in una famiglia di gherim, convertiti.
L’ebraismo italiano ha dedicato giornate di studio, incontri e convegni di grande spessore al fenomeno delle conversioni, ma non ha mai scrutato nella vita delle comunità, nelle piccole e vitali organizzazioni comunitarie cercando di comprendere le trasformazioni silenziose ma significative che avvengono e continueranno ad avvenire.
Non esiste una sola Comunità ebraica italiana, non esiste una sola organizzazione ebraica in Italia che non abbia nel suo consiglio, nel suo apparato dirigenziale ed amministrativo persone che hanno scelto di essere ebree e la cui scelta è di fatto una scelta di grande partecipazione e costruzione identitaria oltre ad essere una scelta religiosa. Come a dire che alla scelta religiosa, sana, consapevole corrisponda un’altrettanta capacità e predisposizione ad agire in prima persona per la propria realtà ebraica, non accontentandosi solo dell’esserne parte.
Se le statistiche numeriche non ci raccontano di questa presenza, non possono neanche raccontarci di come questa presenza ebraica di scelta e non di nascita sia vissuta nella realtà politica e religiosa delle nostre comunità e delle nostre organizzazione ebraiche. Certamente è impossibile tracciare un comportamento comune e condiviso di tutti gli ebrei d’Italia rispetto alle conversioni, ma si possono individuare aeree del pensiero e dell’azione sociale nelle quali gli incontri e gli scontri tra ebrei per nascita ed ebrei per scelta sono frequenti.
In ambito religioso l’incontro-scontro è manifesto: ad una realtà assimilata e spesso assimilazionista colui che è scrupoloso nelle mitzvot in genere non viene compreso, se poi l’osservanza nasce in un contesto di scelta personale e non di origine familiare la non comprensione può diventare un terreno scivoloso con sfumature interessanti dal punto di vista antropologico, certo non da quello ebraico. L’ebreo assimilato o tendenzialmente poco osservante giustifica il proprio vicino gher tzedek perché “essendo lui non nato ebreo deve osservare le mitzvot, mentre io posso non farlo per diritto di nascita.” La scelta di essere ebrei obbligherebbe alle mitzvot, l’essere nati ebrei sembra invece una libera porta al libero arbitrio. Il terreno di incontro diventa ancora più accidentato nei contesti in cui il gher tzedek o la ghioret sposa un ebreo nato tale e, imponendo il proprio ritmo di vita saldamente ebraico, sente rispondersi dal proprio compagno/a che “noi abbiamo sempre fatto così e siamo ebrei da più tempo di te.” Come se il diritto ebraico si sia cristallizzato nel tempo e quindi permetta una sorta di anzianità identitaria che in alcuni casi può portare a guidare di Shabbat o a telefonare alla vecchia zia per sapere come sta.
In ambito decisamente più politico e forse per questo più interessante in quanto fenomeno di gestione delle realtà ebraiche di Italia, la presenza dei gherim in molti consigli di Comunità ed altri luoghi rappresentativi dell’ebraismo italiano ha creato e crea forti tensioni nella stessa gestione di queste realtà. Innanzitutto dobbiamo accettare l’idea che la presenza dei gherim in quei contesti è indice di due fattori: la forte partecipazione di questi ultimi alla vita comunitaria locale e nazionale e la assenza ed il disinteresse di molti ebrei sia verso la propria realtà ebraica locale, che verso una qualsiasi forma di attivismo ebraico.
Questi due fenomeni, per quanto vicini, non sono necessariamente collegati altrimenti saremmo portati a dire che la presenza dei gherim nel consiglio della Comunità di una qualsiasi città italiana è data dal disinteresse degli ebrei locali per la stessa comunità. Indubbiamente esistono realtà ebraiche numericamente piccole dove se è ancora possibile avere una decente vita ebraica, dal minian per le funzioni religiose, alla organizzazione di un seder di Pesach questo si deve alla presenza attiva dei nuclei familiari di gherim. Lo scontro culturale nella gestione dei luoghi comunitari è però un fenomeno in crescita ed, in una realtà che conosco bene, uno dei simboli di una difficile conciliazione nella gestione della Comunità tra i consiglieri nati ebrei ed i consiglieri ebrei per scelta è la manutenzione del cimitero antico, quasi non più in uso, che è fonte di grosse spese per la Comunità stessa.
I consiglieri ebrei per scelta sono meno predisposti a considerare la manutenzione del cimitero come il luogo centrale della identità ebraica della Comunità, ponendo i loro sforzi più in campo educativo, formativo e religioso. Piuttosto che spendere svariate migliaia di euro l’anno per la conservazione di un cimitero con il quale ovviamente i gherim non hanno legami familiari ma sul quale non hanno neanche costruito la loro scelta identitaria, essi preferirebbero o avrebbero preferito un equilibrio di spese che portasse ad una manutenzione dell’antico cimitero ma anche ad attività vitali per la realtà ebraica locale e per i giovani della stessa comunità.
Questo scontro, che è di fatto anche uno scontro tra identità ebraiche diverse e portatrici di storie familiari con sguardi opposti tra passato e futuro, ha portato alle dimissioni di alcuni gherim dal Consiglio comunitario.
La presenza di nuclei familiari ebraici dove uno se non tutti i membri sono di origine non ebraica sta avendo una influenza anche sulla crescente alyà dall’Italia con conseguenze che influenzano anche i rapporti con la Rabbanut israeliana ed i Bettè Din, Tribunali Rabbinici che si occupano di conversioni. I nuovi olim che sono ebrei per scelta spesso devono faticare il doppio per poter ottenere il riconoscimento del loro status ebraico e godere quindi dei diritti che gli spettano in quanto nuovi immigrati: personalmente ho accompagnato per ben due volte all’ufficio della Rabbanut di Gerusalemme due giovani ragazzi italiani che dopo aver presentato i loro certificati di ghiur avevano bisogno di ulteriori testimoni della loro ebraicità.
Se dovessimo analizzare tutti questi nuovi fenomeni dal punto di vista numerico, forse saremmo portati a non considerarli di primo interesse, sebbene anche il numero dei gherim in Italia sia in forte crescita, ad ogni modo la costante presenza del fenomeno delle conversioni, poche o numerose che siano, non può non essere analizzata e valutata anche per comprendere meglio il momento di crisi o forse passaggio generazionale che non risparmia nessuna realtà ebraica italiana.
A questo proposito concludo con un episodio che mi riguarda personalmente e che può essere una chiave di lettura dell’incontro/scontro che ho esposto. Quando lavoravo come rabbino a Napoli mi è capitato di dover preparare dichiarazioni di ebraicità per persone che, avendo subito l’infamia delle leggi razziali, hanno poi fatto richiesta del vitalizio come perseguitati politici e razziali. Una signora non più residente a Napoli si presentò in Comunità e mentre le compilavo il documento necessario vedendo il mio nome a margine del foglio chiese: “Mi scusi, ma che cognome strano, lei è ebreo?” Le risposi, conoscendo molto bene la sua storia familiare: “Cara signora, viviamo tempi bizzarri, colui che attesta la sua ebraicità ed è ebreo si chiama Punturello ed i suoi cugini, che ebrei non sono, si chiamano tutti con un cognome ebraico.”
Con quella risposta non mi comportai da maestro, con quella risposta applicai su di me la citazione del Talmud Yevamot 47 b: “I convertiti sono duri per Israele come fossero spine.”
http://www.romaebraica.it/ebraismo-e-conversioni/