Kippur è caratterizzato dal fatto che ogni suo momento è particolare: dalla vigilia fino all’uscita del giorno con il suono dello Shofar (che deve essere autenticato dalla cerimonia della Havdalà che serve a dividere il giorno festivo da quello feriale) ognuno può concentrarsi sull’esperienza che deve lasciare il suo segno per il resto dell’anno. Fra tutti i momenti puntiamo l’attenzione con l’inizio e la fine del digiuno: Kol nidrè e Ne’ilà.
Su Kol nidrè sono state raccontate molte storie specie nel mondo hassidico e rappresentano il desiderio di dare a ognuno, anche alla persona più semplice, la possibilità di pregare in maniera individuale e autentica. Ma Kol nidrè che è in sostanza una cerimonia in cui ci si libera di voti e impegni presi inconsapevolmente nell’anno passato e di cui ci si era del tutto dimenticati. Questo fatto è stato spesso interpretato dai non ebrei come uno stratagemma usato dagli ebrei per annullare gli impegni da loro presi.
Ma il passo più importante e che necessita di una spiegazione è l’affermazione che fa l’ufficiante all’inizio di Kol nidrè: Nel tribunale celeste e nel tribunale umano, noi permettiamo di pregare con i trasgressori. Cosa aggiunge alla cerimonia questa dichiarazione?
Vi sono varie opinioni: la più nota è quella che stabilisce che una collettività per poter pregare e chiedere perdono ed essere paradossalmente completa, deve avere al suo interno anche dei “peccatori”. Un concetto questo che si deduce anche dall’incenso: tra i suoi componenti doveva esserci anche la Khelbenà, un aroma che emanava un cattivo odore.
Una spiegazione più suggestiva è quella che collega i trasgressori agli ebrei che avevano fatto un giuramento di abiura e che si erano convertiti contro la propria volontà ad altra religione – spesso il Cristianesimo. Al momento dell’inizio di Kippur questi si intrufolavano tra gli ebrei delle Comunità stando attenti a non farsi riconoscere. Recitando il Kol nidrè in effetti essi intendevano annullare il giuramento che avevano fatto davanti al prete che aveva operato l’atto di conversione.
In questo modo veniva ricostruita l’unità degli ebrei: quelli che non avevano ceduto alle offerte della Chiesa e quelli che in un momento di debolezza non avevano avuto la forza di resistere alle tentazioni. Questa idea di unità viene espressa bene nella preghiera di questi giorni: (chiediamo di) essere resi un’unica agudà, cioè un’unica comunità.
Questo è uno dei miracoli che compie Kippur: pur tra le mille contraddizioni, riesce a creare il massimo di unità: gli Innu’im (le cinque proibizioni che caratterizzano la festa) svolgono una funzione, quella di creare eguaglianza e mettere tutti sullo stesso piano.
Una volta ricostruita l’unità della Comunità attraverso la preghiera è necessario fare un passo ulteriore: ci può venire in aiuto una storia che Shmuel Yosef Aghnon racconta nel suo libro Yamim Noraim (Shoken, Gerusalemme 5728 p. 372) che esprime questo concetto già nell’introduzione al suo libro.
Kippur, un tesoro da proteggere
“Il cielo era sereno e la terra era silente, le strade erano linde e uno spirito nuovo aleggiava nello spazio del mondo. Io, un bambino di quattro anni, vestito con l’abito della festa, fui condotto da uno dei miei parenti alla casa di preghiera da mio padre e mio nonno. La Casa di preghiera era piena di persone ammantate con scialli di preghiera, corone d’argento cingevano il loro capo. Erano tutti vestiti di bianco con i libri in mano. Molte candele infisse in candelabri di creta emanavano una luce meravigliosa assieme a un buon odore.
Un vecchio stava piegato in preghiera di fronte alla teca e il suo Tallet scendeva fin sotto al suo cuore e una voce gradevole e dolce usciva dal suo scialle. E io me ne stavo alla finestra della casa di preghiera, tremante e attonito per le voci gradevoli e per le corone d’argento, per la luce meravigliosa e per l’odore di miele che usciva dalle candele, candele di cera. Mi sembrava che la terra che avevo calpestato, le strade che avevo percorso e tutto il mondo fossero soltanto un vestibolo per questa casa. Non sapevo ancora meditare sui concetti filosofici e non conoscevo il concetto di maestà del sacro. Ma non c’è dubbio che in quel momento avvertii nel mio cuore la santità del luogo, la santità del giorno e la santità degli uomini che pregavano e cantavano nella casa del Signore.
Nonostante che fino a quel momento non avessi mai visto nulla del genere, non mi passava per la mente che tutto ciò potesse aver fine. Me ne stavo così a guardate gli uomini che erano nella casa del Signore, senza distinguere tra un uomo e l’altro perché formavano un tutt’uno con la casa, mi sembravano un unico blocco. Una grande gioia albergava nel mio cuore e il mio cuore si era legato con amore a questa casa a questi uomini e a questi canti. Pian piano i canti cessarono e una eco continuò a risuonare ancora per un po’ finché anche essa non cessò del tutto. All’improvviso la mia anima si accartocciò e scoppiai in un pianto dirotto. Mio padre e mio nonno si spaventarono e tutta la gente mi si mise intorno per consolarmi. Ma io continuavo a piangere e le lacrime continuavano a solcarmi il viso. Gli uni chiedevano agli altri: chi ha causato il pianto del bambino? Gli altri rispondevano: Chissà!
Adesso vi racconto che cosa mi aveva fatto piangere. Nel momento in cui si interruppe la preghiera , all’improvviso si interruppe anche quella bella unità. Alcuni tirarono via i propri scialli dal capo e altri cominciarono a discorrere. Quelle persone che all’improvviso avevano cambiato espressione avevano distrutto la bella immagine, l’immagine della casa e l’immagine del giorno. Per questo il mio cuore languiva e per questo singhiozzavo per il pianto”.
Conservare nella memoria per tutto un anno gli attimi meravigliosi in cui sentiamo quelle melodie che ritornano puntualmente, ascoltare la benedizione sacerdotale sotto il manto del Tallet, ascoltare il suono dello Shofar che pone fine alla giornata di preghiere, in un silenzio che, per quanto è intenso, può essere tagliato, rende questa esperienza unica e speciale espressione di quel “numinoso” e misterioso di cui parla Rudolf Otto nel saggio Il Sacro.
Ma vediamo il racconto con cui come S.Y. Aghnon conclude la sua descrizione di Yom Kippur.
L’anno prossimo a Gerusalemme?
C’era una volta un re che aveva una bella figlia. Quando arrivò il momento in cui la ragazza raggiunse un’età giusta, cercò di farla sposare. Vennero duchi e principi per sposarla, ma lei li rifiutò perché diceva che uno era un crapulone e un altro un ubriacone. Il padre giurò che l’avrebbe data in sposa alla prima persona che avrebbe incontrato: incontrò un contadino e gliela dette in sposa. Il contadino la portò nel suo villaggio e si comportava con lei come può fare un contadino. L’aspetto della figlia del re si deturpò e gli abitanti del villaggio la disprezzavano e ne parlavano male, motivo per cui lei scrisse delle lettere disperate al padre.
Il padre, mosso a misericordia per l’amata figlia, fissò una data per andarla a trovare. Appena si seppe che il re stava per arrivare, la gente si impaurì, sistemò il paese e iniziò ad abbellire la figlia con bei vestiti e cose deliziose, viziandola in tuti i modi.
Il re vide che la figlia era molto onorata: fu molto contento si mise a sedere con lei, accarezzandola con affetto. Quando arrivò il momento in cui doveva tornare alla sua reggia, la figlia si gettò alle sue braccia e cominciò a piangere: Babbo, babbo come puoi lasciare qui tua figlia? Ma il Re disse: cosa hai, figlia mia, vedo che tutti quanti ti trattano con tanto onore! Ciò che tu vedi accade solo perché tu sei qui – rispose la figlia- appena tu te ne andrai tutto tornerà come prima; questo onore è per te e appena te ne andrai torneranno a disprezzarmi.
Il re disse al marito: come puoi comportarti così con mia figlia, non sai che è una figlia di re. Il marito rispose: io sono povero devo dedicare tutto il tempo a procurarmi ciò che serve per vivere e non ho la tranquillità per occuparmi come si deve di tua figlia. Ma tu, che sei un grande Re, hai la possibilità di portarci nel tuo palazzo reale, dove tua figlia e io potremo vivere: così potrò occuparmi di tua figlia in una maniera che si addice alla figlia di un Re.
Il significato simbolico di questa storia è chiaro: Il Re è il Santo benedetto sia che voleva dare la Torà al primo uomo, ma la Torà disse che era una persona che pensava solo a mangiare (mangiò dell’Albero della Conoscenza); cercò di darla a Noè, ma quello si ubriacava e finalmente la dette a noi. Ma noi la disprezziamo e la dileggiamo e così lei scrive delle lettere piene di dolore al Padre, come è scritto nel trattato di Makot: Una voce si eleva dal monte Horev… guai alle creature per il disprezzo che usano verso la Torà. Ma arrivano i giorni di Elul, che sono i corrieri del re che annunciano che il Re sta arrivando; immediatamente noi ci diamo da fare con le preghiere, con la Torà e facciamo buone azioni, fino a che si sente il suono ella Shofàr di Rosh hashanà e noi andiamo incontro al Re e il Re si ferma tra noi, poi noi procediamo alla sua luce e facciamo teshuvà; quando arriva Yom Kippur, il Re, il Santo benedetto sia, si ferma tra noi., vede che Israèl è vestito di bianco e ammantato da una sera all’altra con il tallet, con santità e purezza e danno onore alla Torà, lui gioisce con loro e gioisce con la Torà, e quando arriva il momento in cui la Shekhinà (la presenza divina) si allontana dopo la preghiera di Ne’ilà, la Torà prorompe in un grande pianto e dice. Babbo, Babbo come mai tu ci lasci, mi svestiranno immediatamente del mio onore. Il Santo, benedetto sia, dice allora: così vi comportate con mia figlia, non sapete che è la figlia del Re? Israel dice: Tu sai che siamo poveri e non abbiamo spazi sufficienti per noi per far risiedere tua figlia con noi con dignità, e non solo questo, noi abitiamo tra i gentili che non riconoscono il valore della Torà e non possiamo onorarla come si conviene ad essa , ma tu che sei un grande Re – per il quale è detto: al Signore apparitene la terra e tutto ciò che la riempie (salmo 24) – facci tornare alla nostra terra, e dacci un posto nel tuo Stato e onoreremo la Torà con ogni onore che a lei si addice: questo è ciò che chiediamo (al suono dello Shofar) nel momento in cui la Shekhinà si allontana: L’anno prossimo a Gerusalemme.
La dialettica tra Kol nidrè e Ne’ilà
All’inizio del Giorno di Kippur dichiariamo che preghiamo con i trasgressori, cioè coloro che riteniamo siano anusim, costretti dalla realtà esterna o creata da noi stessi e che ci allontana dalla Torà, dalle mizvoth, dall’amore per il prossimo ecc. Alla fine chiediamo di essere portati a Gerusalemme, il luogo dal quale esce la Torà.
La giornata di Kippur fornisce quindi a ognuno un’occasione per superare il proprio stato di anùs (costretto, il soprannome dato ai marrani), per tornare a dichiararsi discendente di Abramo e di Yaakov – Israel, cosa che si può far e in virtù della Torà. Abramo ha avuto il coraggio di proclamare la propria libertà, ponendosi da una parte del Mondo, mentre l’umanità si trovava dall’altra; Yaakov – con tutti coloro che si chiamano Yisrael – ha difeso la propria identità, anche se talvolta lo ha fatto perfino come anus. Il paradosso infatti è che sottoposti alle più terribili persecuzioni, gli anusim non hanno dimenticato almeno qualche mizvà della Torà. Non hanno fatto discorsi per autogiustificarsi, ma hanno cercato sempre di trovare un Minian in cui poter almeno dichiarare, seppure in silenzio e a rischio della vita, la propria identità.
Questa dialettica vale certamente per ogni ebreo, ma in modo speciale per chi ne assume la guida – sia amministrativa che religiosa. Lo spettacolo cui abbiamo assistito in Israele durante l’ultima crisi (che ha anche influenzato i paesi della Diaspora) impone a tutti il dovere di cercare di ricreare quell’atmosfera di unità cui fa riferimento Aghnon nella sua esperienza e che Israele ha trovato in momenti nevralgici della propria storia. Penso che nessuno possa dichiararsi immune dal pericolo di avere favorito la separazione, quando invece è richiesta l’unità.
Il miracolo e il segreto di Kippur stanno proprio qui: riuscire a portare quell’atmosfera di unità che lo caratterizza, cercando di accogliere chiunque stia cercando una strada verso la Torà.
E il suono dello Shofar – che non è accompagnato da nessuna parola e che permette a tutti la di sentirsi uniti – è lì a ricordarcelo.
Scialom Bahbout