Nella parashà che leggeremo questo shabbat, si narra, nella maggior parte della storia del “vitello d’oro” che una parte del popolo fece costruire per “sostituire Mosè” come guida durante il viaggio verso la Terra Promessa.
Nel brano è narrato che, soltanto per pochissimo tempo di ritardo dalla discesa di Mosè dal Monte Sinai, il popolo perde la fiducia in lui e, rivolgendosi ad Aharon gli chiede di costruire un idolo che potesse sostituire “l’uomo Mosè di cui non sappiamo cosa gli sia capitato”.
I Maestri si chiedono come mai possa essere avvenuta una simile reazione del popolo, dopo che avevano assistito, sia al miracoloso passaggio del Mar Rosso, sia alla promulgazione dl Decalogo, in cui più volte era stata ribadita la fiducia nel Signore e in Mosè stesso, come suo Profeta.
Nel Talmud, dopo essersi chiesto ciò, i Rabbini asseriscono che:
“ciò che aveva visto una schiava, durante il passaggio del Mar Rosso, non era stato visto da tutti i Profeti di Israele, in tutte le loro profezie!”.
Cos’è allora che li porta a questo sconvolgente comportamento che causerà la morte di tutti coloro che aveva fatto atto di adorazione all’idolo?
E’questa una domanda che ha avuto migliaia di risposte, ma che nessuna di essa può essere la “più” esauriente.
Nel testo (Esodo 32 vv. 1 e seg.) è scritto:
“…e Aharon prese l’oro e lo gettò nella fornace e ne fece una statua di un vitello…..”
I commentatori, per tutelare Aharon, piegano che il soggetto di “e ne fece” non sarebbe Aharon, bensì il Satan – l’angelo accusatore del popolo di Israele, che vuole mettere alla prova il popolo, se veramente aveva ancora fiducia in Mosè, in quanto si era attardato ( boshesh – tardare) sul Monte a ricevere Sinai a ricevere la Torà.
Infatti, il termine “boshesh” può anche essere letto “bo – shesh” (erano trascorse sei ore) in più rispetto al tempo di quaranta giorni e quaranta notti, che Mosè stesso aveva comunicato al popolo, che sarebbe rimasto sul Monte.
Quindi, dopo aver appurato che Mosè non scese in tempo dal Monte, il popolo perde la fiducia e si scatena il “fattaccio”.
La storia è famosa e tutti conosciamo il suo lieto fine; cioè, Mosè dopo aver punito con la morte i colpevoli di tale atto, torna sul Monte, altri quaranta giorni e quaranta notti a intercedere per far perdonare il popolo e D-o torna a riscrivere su delle tavole scolpite da Mosè stesso, nuovamente i “Dieci Comandamenti”.
Altro problema è il seguito della parashà, che salta da quel “fatto” all’elencazione delle festività più importanti del calendario ebraico: shabbat, pesach, shavu’ot e succot.
Nel Talmud, anche questo problema viene discusso e la risposta ci viene da Rav Sheshet a nome di Rabbì El’azar ben ‘Azarià, il quale sentenzia che: “ chi disprezza le festività in mezzo al popolo è come se facesse atti di paganesimo”.
Il nesso quindi, secondo i due Maestri è quello che, da una parte il popolo si macchia della colpa di paganesimo con il vitello d’oro, dall’altra, l’unico modo per non fare idolatria è quello di osservare le festività, che sono considerate l’antitesi di questa tradizione che andava per la maggiore presso gli altri popoli.
Questo shabbat è anche il terzo dei “sabati segnalati” ed è shabbat parà, ossia il sabato in cui si legge il brano del libro di Bemidbar, in cui è comandato il cerimoniale della “vacca rossa” le cui ceneri servivano a purificare, in previsione del sacrificio pasquale, coloro che, essendo stati a contatto con un morto erano considerati non idonei al korban pesach.
Non esista una spiegazione di questo cerimoniale.
C’è forse un nesso fra il “vitello (figlio della vacca) d’oro” che portò all’estrema bassezza morale il popolo e la “vacca rossa” che era considerato l’unico mezzo di purificazione dal massimo grado di impurità?