La parashà di Ki Tissà, tratta nella maggior parte di essa, dell’episodio che va sotto il nome di “vitello d’oro” episodio che avviene nel momento in cui, Mosè salito sul Monte Sinai a ricevere la Torà, si assenta per quaranta giorni e quaranta notti.
La differenza del tempo di assenza di Mosè, dal tempo stabilito è soltanto, secondo l’opinione di Rashì, di sei ore; per queste sei ore il popolo perde la fiducia e la speranza di rivedere il loro Maestro e di riaverlo come guida del popolo.
E’ per questo motivo che, rivolgendosi ad Aronne, chiede di costruire un idolo, che potesse:
“sostituire l’uomo Mosè, perché di lui non sappiamo che cosa gli sia accaduto”.
E’ questo un atteggiamento molto strano da parte del popolo, il quale attribuirà in seguito un’identità divina all’idolo, fatto dello stesso materiale – oro, che essi stessi avevano portato via dall’Egitto, quando ne erano usciti.
Essi si macchiano così di una delle colpe più gravi- l’idolatria, aborrita sin dai Dieci Comandamenti;
per questo provocando l’ira divina, determinano la rottura delle Tavole della Legge.
Nella lunghissima e bellissima conseguente preghiera che Mosè rivolge a D-o, durata quaranta giorni e quaranta notti, troviamo una descrizione chiara e netta di come il Signore, nonostante avesse manifestato a Mosè la volontà di distruggere il popolo, non lo voglia affatto, anzi sembra chiedere un intervento da parte di Mosè, per poterlo perdonare e quindi salvare.
I Profeti di Israele ci insegnano che “il Signore non gradisce la morte del malvagio, ma il suo pentimento”, per poi poterlo perdonare e farlo vivere in seguito.
Mosè comprende subito la reale volontà divina ed inizia una lunga preghiera.
La cosa che procura poi la decisione di non distruggere il popolo, avviene nel momento in cui, Mosè lancia una sfida al Signore, mettendo addirittura in dubbio la Sua giustizia; egli infatti dice:
“ Cosa potranno dire gli Egiziani vedendo il popolo morto nel deserto: – li Ha portati fin qui con malvagità per poi sterminarli?”
“Ricorda ciò che Hai promesso ad Abramo, Isacco, Giacobbe ai quali Hai promesso loro di far ereditare la terra ai loro discendenti”
Queste espressioni di supplica piacciono a D-o, tanto che poi pronuncerà la frase “ li ho perdonati secondo ciò che mi hai detto”.
Il comportamento umano di Mosè e la bontà eterna di D-o, fanno di questo brano, così apparentemente crudo, un quadretto di vita famigliare, rappresentato da padre, madre e figlio, in cui il padre si adira contro suo figlio perché ha commesso un grave errore a causa di un comportamento sbagliato e lontano dal suo insegnamento.
Sua madre che nonostante avesse perfettamente compreso la grave colpa commessa dal figlio, tenta però di scagionarlo, cercando di trovare un appiglio che possa far tornare il padre su i suoi passi.
I Maestri della mishnà ci insegnano di “accettare ogni uomo per il suo lato meritevole” cioè: “ sforzati di trovare in ogni essere umano, un qualche pregio per renderlo meritevole ai tuoi occhi, rispetto al suo comportamento negativo.
Nel passo di Torà in questione il popolo, non ha nulla di meritevole, anzi si è macchiato di una colpa gravissima nella sua collettività.
Mosè però sa intercedere per lui, appellandosi ai “meriti dei Padri” il “zekhut avot” in quanto più volte il Signore ha promesso loro, grazie ai loro meriti, di dare ai loro discendenti la Terra di Israele.
Questo è lo stesso comportamento che noi Ebrei adottiamo durante il periodo delle Selichot, dall’inizio del mese di Elul fino alla vigilia dello Jom Kippur, arrivando così a quel fatidico giorno sicuri che Iddio possa perdonarci dalle colpe commesse nell’anno trascorso.
Non a caso il periodo delle nostre Selichot, coincide proprio con lo stesso periodo della Tefillà di Mosè, ed il giorno in cui il Signore perdonò Israele non era altri che il giorno di Kippur.
Shabbat Shalom