Nella nostra parashà compare una delle mitzvot più delicate e profonde della Torà: Hashavat Avedà, la restituzione di un oggetto smarrito. La Torà ci dice: “Non vedrai il bue di tuo fratello o la sua pecora smarriti e non farai finta di niente; li ricondurrai a tuo fratello”. A prima vista sembra una norma civile semplice: se trovi qualcosa che non è tuo, restituiscilo. Ma la Torà non è mai semplice, e ci domanda: cosa significa davvero restituire ciò che è perduto? I Maestri insegnano che il concetto di Hashavat Avedà è molto più esteso. Non riguarda solo gli oggetti materiali, ma tocca l’essere umano nella sua essenza. Ogni volta che una persona perde un frammento di sé – la fiducia, l’entusiasmo, la strada spirituale – abbiamo il dovere di restituirglielo. Restituire un oggetto smarrito diventa così immagine di una missione più grande: restituire all’altro il suo valore, ricordargli chi è, ridargli l’anima che aveva perso. Ricordo che Rav Aharon Toib mi insegnò una segullà particolare per la memoria. Mi citò la frase: “Hakol bechezkàt sumim ad sheba Hakadosh Baruch Hu upokeach enehem shel Israel Kedichtiv: Vaiftach E-l-okim et enea” – “Tutti possono essere in uno stato di cecità, finché il Santo Benedetto Egli sia non arriva e apre gli occhi…”. Come a dire la cosa in sé esiste, sono gli occhi che sono chiusi. Aprendo gli occhi ti accorgi dove la cosa realmente sia.
Mi domandai: perché una segullà per la memoria si basa su un versetto che parla della perdita, e della vista ritrovata? La risposta è che dimenticare equivale a perdere un oggetto della memoria. La mente è come una casa piena di cose smarrite: ricordi che svaniscono, pensieri che si nascondono, emozioni che si dissolvono. Dire questa frase è come chiedere ad Hashem di aprire gli occhi interiori, di restituirci ciò che si è perduto dentro di noi. È una piccola preghiera che chiunque può dire, un modo per chiedere di ritrovare ciò che manca: non solo chiavi o libri, ma anche fiducia, luce, chiarezza. Questo principio si potrebbe applicare anche al ritrovamento della propria “metà”: in un certo senso, anche questa è una forma di Hashavat Avedà. Due metà di un’anima che si erano smarrite nei meandri del mondo e che Hashem riporta l’una all’altra. Restituire un oggetto smarrito diventa simbolo dell’incontro più importante della vita: ritrovare la propria anima gemella. Ma il livello più alto è ancora un altro. A volte non perdiamo un oggetto, non perdiamo un ricordo, non perdiamo una persona: perdiamo noi stessi. Ci smarriamo nella corsa della vita, dimentichiamo chi siamo, quale missione abbiamo. Hashavat Avedà diventa allora il dovere di restituire a ciascuno la propria identità.
I Chachamim ci insegnano che ogni anima, prima di nascere, conosce già tutta la Torà. Ma entrando in questo mondo si dimentica, e si passa la vita a “ritrovare” ciò che già si aveva. Tutta l’esistenza è una grande Hashavat Avedà: il lungo cammino per riportare alla luce la nostra verità nascosta. Non a caso la parola Hashavà contiene la radice di Teshuvà, ritorno. Restituire ciò che è perduto significa in realtà ritornare: ritornare a sé stessi, ritornare a Dio, ritornare alla nostra origine. Ed è proprio questo il lavoro di Elul: recuperare le parti di noi stessi che abbiamo dimenticato, restituirci la scintilla che avevamo smarrito, riportare la nostra anima verso la sua casa. E forse è questa la lezione più profonda: ogni chiave che ritroviamo, ogni oggetto che riportiamo, ogni memoria che riaffiora, ci ricorda che la vita è un continuo ritrovarsi. Hashavat avedà non è solo un dovere legale, è la voce che ci sussurra che nulla è davvero perduto, che tutto può essere ritrovato.
E così, in questo mese di Elul, camminiamo per le strade del mondo con lo sguardo attento di chi cerca. Perché anche quando crediamo di esserci smarriti, anche quando ci sembra di aver perso tutto, in realtà siamo solo in attesa che “Qualcuno” ci prenda per mano e ci riporti a casa. E così possiamo aggiungere un altro livello ancora più profondo. In realtà, se così si può dire, la nostra vera anima gemella è Hakadosh Baruch Hu stesso. Lo rivelano le iniziali del mese di Elul: “Ani le-dodì ve-dodì li” – “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me”. Questo è il tempo del ricongiungimento, non solo con parti perdute di noi stessi, non solo con la nostra metà terrena, ma con la nostra Anima Gemella eterna, con Hashem. In Elul ci prepariamo a ritrovare quel legame profondo che ci definisce, il vincolo d’amore tra l’anima d’Israele e il suo Creatore.
Lechà Dodì Likrat Kallà- Vieni mio diletto incontro alla sposa
Shabbat Shalom Umevorach