Nel cuore della Parashà di Kedoshim troviamo uno dei versi più complessi della Torà: “Ama il tuo prossimo come te stesso”; Due giganti come Rabbi Akiva e Hillel ne fanno il fondamento di tutta la Torà e dell’etica ebraica, tutto il resto è commento. La Chassidut ci fornisce un modo di leggere questa frase che complica il senso più semplice: “Reachà -tuo prossimo- “può essere letto anche come “Raachà -il tuo male-” (Zot Hatorà Parashat Kedoshim); quindi, dovremmo amare anche il male? Come faccio ad apprezzare un “prossimo” scorretto? E soprattutto come è possibile amare gli altri come se stessi se non amiamo noi stessi? Ovviamente l’argomento è molto lungo ed esula l’intenzione di essere esaustivo in questo breve scritto, ma qualche spunto di riflessione possiamo attivarlo. La vita ci dona momenti di dolcezza e momenti di difficoltà.
Istintivamente amiamo ciò che è bello e piacevole, mentre rifuggiamo il dolore e il male. Eppure la Torà ci sfida ad un amore più coraggioso: amare anche ciò che di “negativo” accade, accoglierlo con fede, come parte del piano di D-o. Dunque, la Torà non ci comanda soltanto di amare il prossimo quando è buono, ma anche quando è malvagio (addirittura si deve aiutarlo); non solo di amare ciò che nella vita ci piace, ma anche il “male” che ci accade; non solo di amare le nostre qualità, ma anche le nostre ombre, i nostri difetti. Forse si cela una vena masochistica in ciò? Ovviamente no. Ogni evento, anche il più difficile, è una lettera, un messaggio, da parte di Hashem. Negli eventi della vita nulla è casuale. Anche ciò che ci fa soffrire contiene una scintilla di bene, preziosa, ma profondamente nascosta agli occhi.
Per quel che riguarda le persone, anche il più lontano, ha dentro di sé una scintilla di Divinità. Possiamo odiare il peccato, ma mai il peccatore. Dobbiamo credere nel potenziale di Teshuvà di ogni anima. Amare qualcuno non per ciò che è, ma per ciò che può diventare. Per quel che riguarda noi stessi, Amare “il nostro male” significa accettare la responsabilità delle nostre fragilità e lavorare con amore per trasformarle, I maestri chassidici insegnano che le cadute sono necessarie per elevarci, discesa e salita sono la stessa cosa, dipende da quale lato decidi di vederla, esse sono speculari così come in fisica così spiritualmente.
Non possiamo amare gli altri, se non impariamo prima ad amare noi stessi. A completare, o complicare il tutto, ci ricordano i chachamim, che “Ra’acha” – cioè il male che viene da te – indica che molto spesso ciò che ci ferisce o ci mette alla prova è uno specchio delle nostre stesse ombre. Il Baal Shem Tov e Rabbì Nachman dicevano che ciò che vediamo di negativo negli altri, è spesso un riflesso di ciò che dobbiamo correggere in noi, chissà se Freud studiò proprio questo nei suoi studi ebraici. Infine, alcuni commentatori leggono “Re’acha” come Hashem, il tuo “Amico” (Shir HaShirim 5:16). Troppo spesso amiamo noi stessi più di Dio. Ma se Lo amassimo almeno quanto amiamo noi stessi, metteremmo la Sua volontà prima del nostro ego.
Ve’ahavta lere’acha kamocha ci insegna ad amare tutto: il prossimo, il male che viviamo, le nostre cadute, e perfino Dio – con lo stesso slancio con cui amiamo noi stessi. Perché da ogni frammento d’ombra, con molta Emunà, può rinascere una luce ancora più grande.
Shabbat Shalom