Virginia Gattegno ha scelto per andarsene il mese di Adar I, il mese in cui cade Purim katan, forse per dirci “Non siate tristi, io ho passato momenti terribili nei campi di sterminio, ma non solo sono ancora qua e ho formato una famiglia, ho avuto delle figlie e delle nipoti”. Io ho conosciuto Virginia negli anni in cui sono stato a Venezia e ho frequentato la Casa di Riposo soprattutto il Venerdì pomeriggio, quando andavo a parlare della Parashà settimanale e aiutavo le donne che vivevano ancora in Casa di Riposo ad accendere le candele di shabbat e a cantare per loro (e talvolta anche assieme a loro) Lechà dodì. Virginia accendeva e ascoltava, e talvolta interveniva con qualche domanda.
Ho imparato proprio in quelle occasioni quanto sia importante quanto diciamo e chiediamo (Salmo 71, 9): Al tashlikhèni le’et ziknà, kichlot kochì al ta’azvèni “: “Non mi rigettare nella stagione della vecchiaia, non mi abbandonare quando la mia forza è esausta”, La tendenza oggi è quello di isolare e abbandonare gli anziani, dimenticando quanto sia importante raccogliere l’eredità che ci lasciano e coinvolgerli nella vita comunitaria, affidando loro anche qualche incarico.
Virginia, oltre che madre con figli, è stata anche una poetessa. Ha scritto delle belle poesie che sono state più volte presentate e che hanno rappresentato per lei una vera sfida come scrive nella poesia “Alla sorgente”: non perdere il senso della vita e di ciò che si può fare anche quando sembra di essere al tramonto.
Proprio i lumi dello shabbath, accesi assieme a lei, sono stati l’occasione per una poesia. Scrive Virginia:
“Per chi o cosa splende
il mio lume dello shabbat?
Non per obbedire al comando di un Dio che non conosco:
oppure questo rito
celebrato per secoli
In qualche modo mi appartiene e lo sento giusto
bello e confortante.
Ma questo lume splende soprattutto per voi
Miei cari scomparsi nel buio di Auschwitz
Per voi fratelli miei Alberto e Michele
E per voi Marcella e Sara madri entrambe splenderà dopo di me
Se leggiamo le poesie di Virginia non possiamo capire e accettare quanto dichiarava Adorno nel 1949: «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», una dichiarazione che poi ha modificato, dicendo che intendeva forse dire che “è falso dire che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia: il dolore incessante ha tanto il diritto ad esprimersi quanto il martirizzato ad urlare. Invece non è falsa la questione, meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere, specialmente lo possa chi vi è sfuggito per caso, e di norma avrebbe dovuto essere liquidato…».
Virginia – deportata dall’isola di Rodi assieme a tutta la Comunità ebraica locale – tornata dal campo di sterminio ha invece dimostrato che trasmettere la vita e il suo valore è più importante e nessun uomo si deve sottrarre a questo dovere.
In tempi in cui la funzione e il valore della famiglia spesso sembra venire meno, scrive Virginia.
Shalom mamma, shalom papà
Non conosco parola più bella di
questa! Shalom a voi,
mamma e papà.
Adesso che sono vicina
a raggiungervi mi
accorgo che nulla ha
potuto distruggere
quella sostanza umana
che ci rendeva famiglia!
Non avere rinunciato a fare una famiglia, a volere trasmettere ancora la vita, questo il messaggio più bello e l’eredità più importante che ci ha lasciato Virginia, che il suo ricordo sia di benedizione.
Scialom Bahbout