La Rassegna Mensile di Israel, vol. 54. no. 3 (September-December 1988): 565-572
Riccardo Di Segni
* Conversazione tenuta a Roma il 15 Marzo 1989 in un incontro organizzato dall’Azione cattolica romana e dal Gruppo romano del Movimento ecclesiale di impegno culturale, al termine di un ciclo sulla lettera di San Paolo ai Romani. Al testo della conversazione, lievemente riadattato, sono state aggiunte alcune note esplicative. Sono grato all’amico rev.do P.R Fumagalli per alcune segnalazioni bibliografiche preliminari e per le osservazioni che ha fatto successivamente al testo dattiloscritto.
Una rilettura della lettera di San Paolo ai Romani è un’occasione molto utile per valutare, alla luce di questa fonte, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del problema ebraico nel corso dei secoli, e in particolare nell’ultimo quarto di secolo, a partire dalle storiche dichiarazioni del Concilio Vaticano II.
La lettera ai Romani ha segnato il cammino della Chiesa nei suoi momenti più importanti e ne ha guidato le scelte più sofferte; e anche il problema ebraico – che nella lettera viene trattato in particolare nei capitoli 9- 11 – ne è stato radicalmente improntato. Il riferimento a questo testo continua ad essere costante e preminente in tutta la serie dei documenti prodotti dalla Chiesa Cattolica, dalla Dichiarazione Nostra Aetate n. 4 del 28 Ottobre 1965, alla abbondante serie di note, suggerimenti e autorevoli discorsi ufficiali.
Tutti questi documenti hanno attestato il radicale mutamento di posizioni della Chiesa nei confronti del popolo ebraico. La Chiesa ha condannato l’antisemitismo, ha riconosciuto l’ebraicità delle proprie radici e ha promosso un dialogo tra gli appartenenti alle due religioni.
Nonostante la faticosa evoluzione di queste tesi, la Chiesa ha lasciato irrisolte alcune questioni fondamentali del suo rapporto con il popolo d’Israele. Sono questioni che già l’apostolo Paolo aveva posto nella sua lettera. Ora, se si approfondisce lo studio dei recenti documenti cattolici con la attenta verifica delle numerose citazioni paoline che essi contengono, si possono comprendere pienamente i termini del rapporto tuttora difficile e contraddittorio con l’ebraismo, e la complessa realtà teologica che si nasconde dietro alle dichiarazioni che appaiono tiepide o insufficienti a chiarire i problemi.
In questa prospettiva, dalla lettura di Paolo emergono due rilievi essenziali: 1. La costante ambiguità di Paolo nei confronti del problema ebraico; 2. L’enorme difficoltà interpretativa di tutti i brani che affrontano il problema.
1 – Il dato della ambiguità, o se si preferisce, della ambivalenza o della duplicità, risalta come elemento permanente del rapporto di Paolo con le sue origini. Di fronte alla realtà del rifiuto che la maggioranza degli ebrei oppose alla fede in Gesù, Paolo da una parte assunse un atteggiamento duro verso questo rifiuto, dall’altra non volle emettere una sentenza negativa definitiva nei confronti degli ebrei. Ne derivò una analisi complessa e sofferta del problema ebraico in cui coesistono costantemente elementi positivi e negativi.
Soffermiamoci su alcuni esempi, che sono tra i più ricorrenti nella attuale produzione della Chiesa.
- Il verso più citato è il 28 del capitolo 11, dove si dice che «per quanto concerne l’elezione “gli ebrei” sono amati per via dei loro padri; perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento». Il brano viene citato per dimostrare la irrevocabilità dell’elezione di Israele, i cui figli «rimangono ancora carissimi a Dio» (Nostra Aetate). Ma bisogna tener presente che immediatamente prima, nel primo emistichio dello stesso verso, Paolo aveva detto: «Per quanto concerne l’Evangelo essi sono nemici, per via di voi»[1]. La stessa Nostra Aetate vi si riferisce esplicitamente in nota, ma nel testo parla genericamente di opposizione ebraica alla diffusione del vangelo. Gli ebrei sono dunque amati, ma anche nemici. La predicazione ufficiale attuale continua a ripetere la citazione, privilegiando l’elemento dell’amore. Ma riportata alla realtà del resto è una citazione rischiosa, perché l’amore è un’eredità del passato, una conseguenza del merito dei padri, mentre l’inimicizia, che sta nel rifiuto del vangelo, è un dato attuale.
- È molto frequente il riferimento all’immagine del capitolo 11, vv. 17-24, che parla dell’ulivo selvatico innestato nella radice santa di Israele. Il cristiano gentile non si deve insuperbire contro i rami ebraici, perché «non sei tu che porti la radice ma la radice che porta te» (v. 18). L’elemento decisamente positivo di questa immagine è il privilegio delle radici ebraiche della Chiesa; un dato che viene oggi sottolineato con vigore. Ma accanto a questo non si può ignorare che la stessa immagine considera gli ebrei che non hanno accettato Gesù come rami che sono stati tagliati dall’albero, e al cui posto sono stati inseriti i Gentili credenti.
«Allora tu dirai: Sono stati troncati dei rami perché io fossi innestato. Bene: sono stati troncati per la loro incredulità e tu sussisti per la fede» (vv. 19-20)
Ciò che suona come valutazione positiva della antica storia e fede d’Israele, diventa allo stesso tempo la denuncia della infecondità attuale di quella parte di Israele (sempreché alla luce di questa immagine sia ancora lecito chiamarlo con questo nome) che ha rifiutato di riconoscere Gesù. Un apparente elogio di Israele contiene in realtà la teoria della fine della sua storia religiosa.
Un tema importante del pensiero paolino è quello della chiamata divina, che sceglie chi vuole; e in particolare Dio opera selezioni nell’ambito della progenie di Abramo; «non tutti i discendenti da Israele sono Israele» (9:6). Paolo cita l’esempio della matriarca Rebecca, che ebbe due gemelli:
«prima che fossero nati e che avessero fatto alcun che di bene o di male, affinché rimanesse fermo il proponimento dell’elezione di Dio, che dipende non dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama, le fu detto: Il maggiore servirà al minore secondo che è scritto: Ho amato Giacobbe ma ho odiato Esaù» (9:11-13).
Il caso biblico dei due fratelli Esaù e Giacobbe diventa nella concezione paolina l’esempio di una elezione rifiutata. Non è più sufficiente essere nati ebrei per conservare l’elezione; la promessa divina è irreversibile, ma Dio continua a scegliere anche nel popolo eletto e ora, nel caso specifico, privilegia solo chi ha fede in Gesù. Alla luce di queste tesi si provi a rileggere la ormai famosa espressione papale, usata nel discorso nella Sinagoga di Roma del 13 Aprile 1986, che ha definito gli ebrei «i nostri fratelli maggiori»[2].
Sempre a proposito dell’elezione di Israele, è essenziale verificarne la reale consistenza alla luce del detto paolino, che attribuisce ai suoi fratelli «l’adozione e la gloria e i patti e la legislazione e il culto e le promesse» (9:4). Tutti questi elementi hanno una ulteriore e più precisa valutazione nel pensiero di Paolo. In particolare:
– la legislazione: è la traduzione di nomos, un termine che Paolo usa in varie accezioni, per rendere i diversi termini ebraici che indicano leggi e precetti, o più genericamente la Torà, che letteralmente è «insegnamento». In questo caso nomos assume evidentemente un significato riduttivo. Ora sono ben noti i rapporti di Paolo con la legge, e che comportano queste conclusioni:
la legge non è peccato, anzi è santa; ma porta il peccato («senza la legge il peccato è morto» 7:8);
l’osservanza della legge non porta alla salvezza;
con la venuta di Cristo la legge è stata abolita (cfr. anche Galati 5).
- il culto: Paolo scriveva poco prima della distruzione di Gerusalemme, che avrebbe messo fine al culto del Santuari. Successivamente l’autore della lettera agli Ebrei avrebbe sostenuto che i sacrifici e il sacerdozio sono stati ormai sostituiti da Gesù (Ebrei 9).
- i patti: nella stessa chiave di lettura Cristo è mediatore di un nuovo patto (ibid. v. 15)
- le promesse: tutta l’interpretazione delle promesse bibliche converge quasi a senso unico nella redenzione messianica attraverso Cristo.
In sostanza l’elezione d’Israele con i suoi privilegi consiste in beni il cui significato storico e religioso si è esaurito con la venuta di Gesù; dopo di lui non sembra aver quindi alcun valore né contenuto autonomo, agli occhi di Paolo.
La risposta di Israele è radicalmente opposta; un’elezione senza impegno, senza Torà, non ha senso. Ad esempio, nella liturgia viene costantemente ripetuto:
«che ci ha prescelto tra tutti i popoli e ci ha dato la Sua Torà» (benedizione prima della lettura della Torà);
«che ci ha prescelto tra ogni popolo… e santificato con i suoi precetti» (qiddush festivo).
La Torà è la strada verso il sacro, e le sue leggi moltiplicano i meriti; «Rabbi Chananià ben ‘Aqashià diceva: Il Signore, Benedetto Egli sia, volle dar meriti a Israele, e pertanto abbondò con loro con la Torà e i precetti» (Mishnà, fine Makkoth).
Le promesse della Bibbia sono molteplici, e non a senso unico. Molte riguardano la condizione storica di Israele, come la raccolta delle diaspore e la ricostruzione delle rovine della terra d’Israele. Abbondano nel Pentateuco e nei Profeti, e sono costantemente ricordate nelle preghiere quotidiane ebraiche[3]. In questa generazione siamo testimoni della loro realizzazione. Il mondo cattolico non riesce ancora ad esprimersi senza imbarazzo su questi punti. La rovina di Gerusalemme fu interpretata dai primi cristiani come una punizione per la morte di Cristo. Oggi la sua ricostruzione ebraica viene presentata ufficialmente come un fatto puramente politico, a segno della incapacità cristiana a misurarsi con il problema delle «promesse».
- Le difficoltà interpretative. Le dottrine di Paolo sono fondamentali nel pensiero della Chiesa, ma sono oggetto di una incessante discussione interpretativa, che ha le sue origini nella complessità del pensiero paolino. Sul problema ebraico queste incertezze testuali hanno dato luogo a diverse letture, ispirando atteggiamenti ora di radicale opposizione (come il marcionismo), ora di apertura. Si tratta di vedere se passando attraverso Paolo sia ancora possibile un atteggiamento rispettoso dell’autonomia e della vitalità dell’ebraismo.
Un nodo essenziale è quello della conversione degli ebrei. Il problema trova oggi un riferimento essenziale in Rom. 11:26, dove è detto che «tutto Israele sarà salvato». Vi sono due possibilità di lettura: la prima è che Israele prima della fine dei tempi si convertirà al Vangelo e alla fede in Cristo; la seconda è che esista una via ebraica autonoma e straordinaria alla salvezza, che non passa attraverso Cristo.
Ammettere questa seconda strada significa dare un senso alla diversità di Israele e un valore alla sua autonoma identità religiosa. Significa ammettere che non si attende la sua conversione e che quindi devono essere condannati non solo i tentativi violenti di imposizione, ma anche ogni atteggiamento di «testimonianza» morbida ma pur sempre finalizzata.
È una rivoluzione nel pensiero della Chiesa; qualcuno vi si è avvicinato, ad esempio sostenendo che il principio per cui «non vi è salvezza fuori dalla Chiesa» non deve essere necessariamente riferito alla realtà quotidiana di questo mondo, ma ha senso vero solo in una prospettiva escatologica[4]; altri invece hanno iniziato a esprimerla con chiarezza[5]. Sono posizioni autorevoli e importanti perché dimostrano come anche nel rispetto della propria tradizione, che dà un significato sacro alle parole di Paolo, sia possibile una nuova lettura rispettosa dell’altrui differenza; purtroppo oggi queste posizioni sono decisamente minoritarie. Ben altro peso hanno le dichiarazioni del cardinale Ratzinger, per cui il dialogo deve muovere verso la verità, e la verità è Cristo, che è il «cuore stesso dell’ebraismo»[6].
Le conclusioni che emergono da questa analisi si possono così sintetizzare:
- Vi sono dei pesanti atteggiamenti cattolici nei confronti del popolo di Israele che hanno il loro fondamento proprio nella teologia di Paolo; sono posizioni inaccettabili da parte ebraica, perché non sono solo l’espressione di una normale e inevitabile differenza dottrinale, ma perché sono portatori di un atteggiamento di superiorità e di sfida, e di svalutazione dell’interlocutore, cui si nega una vera pari dignità religiosa:
- La forma e la sostanza aggressiva e offensiva di alcuni concetti, evidente anche nella più benevola delle letture, come l’interpretazione del rifiuto ebraico di Gesù in termini di «cecità», «sordità», e «indurimento». Il rifiuto rientra in un piano divino positivo, ma è sempre un rifiuto, e chi lo opera è in grave difetto. L’indurimento è una metafora biblica, che ha la sua più completa espressione nel racconto del Faraone che nei primi capitoli dell’esodo rifiuta la libertà a Israele[7].
- La svalutazione del ruolo religioso autonomo d’Israele – immaginato come ramo reciso dalla pianta sacra -; in particolare la svalutazione della Torà, come esperienza sacra e positiva, che per gli ebrei è segno dell’elezione e guida irrinunciabile alla sacralità e alla salvezza; la concezione della gloria di Israele come vanto di un passato ormai remoto, esauritosi nell’annuncio.
- La necessità della conversione, che l’interlocutore ebreo avverte come un attentato alla sua identità e sacralità e che inficia il senso di qualsiasi scambio.
- La valutazione a senso unico delle «promesse», che comporta l’incomprensione della realtà storica attuale del popolo ebraico.
2 – II mondo cattolico che si presenta oggi al popolo d’Israele chiedendo il dialogo non ha risolto alcuno di questi nodi fondamentali in modo esauriente. Nei documenti più importanti, il silenzio, o la apparentemente scarsa considerazione ufficiale delle fonti paoline negative potrebbero far pensare a un mutamento di indirizzo. Ma molti altri segnali, che emergono da atti e dichiarazioni[8], sembrano piuttosto indicare che su questi temi vi è stato solo un timidissimo progresso; e che il silenzio deriva più dall’imbarazzo per l’uso di immagini negative, che dal loro sostanziale superamento. Altro che «incidenti di percorso»; è un percorso ancora non definito, e ancorato a concezioni immutate. Il dato conclusivo che se ne ricava è che la Chiesa ha fatto notevoli progressi nel rispetto verso gli ebrei in quanto persone, ma non nei confronti dell’ebraismo.
Il problema del rispetto dell’ebraismo non interessa solo gli ebrei. È questione fondamentale dell’identità cristiana. Vi sono molti modi per affermare la propria identità. Il peggiore è quello di affermare la propria positività in contrasto con l’altrui negatività, dipingendo a tinte fosche il mondo che si presume antagonista o concorrenziale. È quanto ha fatto fin dai primi secoli il cristianesimo nei confronti dell’ebraismo, e che continua a fare persino oggi. È la critica a questo antigiudaismo, che si dirige non alle persone ma alla religione, che dovrebbe costituire una sfida per la riscoperta cristiana della propria identità. Parafrasando un famoso detto, si potrebbe dire che «l’antigiudaismo è la malattia infantile del cristianesimo». I tempi sono maturi per un decisivo cambio di rotta anche in questa direzione. È solo facendo chiarezza che un vero dialogo potrà svilupparsi e dare benefici risultati.
Riccardo Di Segni
[1] Per questa e successive citazioni uso la traduzione di G. Luzzi. «Per via di voi» è forse meno corretto di «per vostro vantaggio». Si noti come tra le varianti possibili di traduzione, quella «interconfessionale in lingua corrente», intitolata Parola del Signore, Elle Di Ci 1976, dice: «Gli ebrei, per la posizione che hanno preso di fronte al messaggio del vangelo, sono nemici di Dio». Un buon esempio di come l’uso della «lingua corrente» possa diventare un buon pretesto per giustificare un inutile ed eccessivo zelo oppositorio.
[2] In un successivo intervento (31 Dicembre 1986) il Papa ha dato forse un migliore inquadramento all’espressione, parlando di «fratelli maggiore nella fede di Abramo». Questo tipo di interpretazione data alle parole di Giovanni Paolo II nella Sinagoga di Roma (tra i primi a scrivere in questo senso è stato il rabbino M.E. Artom) ha sollevato non poche obiezioni di legittimità, e anche reazioni risentite. Ma va tenuto presente che l’intero discorso è in realtà un accurato documento teologico e politico, carico di sfumature e di precisi richiami; basti pensare, tra l’altro, all’omissione del verso che parla dei «figli di Aaron», cioè del sacerdozio ebraico, nella citazione dal libro dei Salmi (118:1-4) che chiude il discorso; un’omissione perfettamente coerente con la tradizione polemica della Chiesa che considera finito questo sacerdozio (cfr. Ebrei 7:11-28). Un conto è l’aspetto formale del documento, e un altro è la realtà dei problemi teologici contrapposti e irrisolti, e che si nascondono appena nelle ripetute allusioni del testo.
Può essere che queste interpretazioni ebraiche siano un segno di «ipersensibilità», e sarebbe bello se i dubbi ebraici fossero veramente ingiustificati; ma la tradizione cristiana del passato è stata talmente carica di ostilità antiebraica aperta o malcelata, che l’uso delle immagini simboliche, anche con le migliori intenzioni, non può essere accettato se non è accompagnato dalla massima chiarezza. Ma questa necessaria chiarezza purtroppo ancora manca. Un esempio analogo, che insiste proprio e ancora più direttamente sulla stessa equivoca situazione simbolica, è nell’immagine biblica che pochi mesi prima della visita del Papa in Sinagoga, nell’ottobre 1985, il cardinale Willebrands aveva proposto per rappresentare la riconciliazione tra ebraismo e cristianesimo: l’incontro di Esaù e Giacobbe in Genesi 33:3-4 (Nostra Aetate: The Fundamental Starting Point for Jewish-Christian Relations, pubblicato in Fifteen Years of Catholic-Jewish Dialogue, Roma 1988, pp. 270- 275). Anche se ispirata dalle migliori intenzioni, la scelta di questa similitudine biblica non è accettabile dagli ebrei se prima non si chiarisce chi è Esaù e chi Giacobbe.
[3] Cfr. ad es. Deut. 30:4, Neh. 1:9, Is. 11:12, 44:26, 54:7, 56:8, Ger. 29:14, 31:10, 32:37, 33:10, Ez. 11:17, 16:37, 20:34, 36, 39:27, ecc. Per la liturgia basti pensare alla preghiera quotidiana della Amidà e alle sue varianti festive, alle benedizioni nuziali, alla benedizione dopo i pasti («e ricostruisci Gerusalemme città santa presto ai nostri giorni, benedetto Tu o Signore che ricostruisce con la Sua misericordia Gerusalemme, Amen»).
[4] Cfr. Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, 80- logna 1984, pp. 108-109, citato in P.F. FUMAGALLI, Ebrei e cristiani: dal disprezzo all’amore per i “Fratelli maggiori”, «Ambrosius» 62, 1986, pp. 316-329.
[5] Cfr. F. MUSSNER, Il popolo della promessa, Roma 1982, pp. 63 ss.
[6] Intervista a II Sabato, 24 Ottobre 1987.
[7] Anche teologi avanzati come Mussner (cit.) non sono capaci di liberarsene. Come ognuno dei termini usati dal cristianesimo per definire gli ebrei, anche questo ha la sua storia applicativa, e una quotidianità di impiego attuale, fuori dal contesto strettamente teologico. Un esempio recente in chiave politica è in Gianni Baget Bozzo, «Il cuore duro d’Israele», la Repubblica 21 dicembre 1988, p. 8. Prova evidente di come nei riguardi della realtà storica attuale di Israele, il mondo cristiano esprima una posizione contraddittoria; da un lato, ufficialmente, rifiuta qualsiasi riconoscimento teologico; dall’altro non può fare a meno di applicare, nell’analisi quotidiana degli avvenimenti, le peggiori categorie e i pregiudizi inveterati trasmessi dalla sua tradizione religiosa.
[8] Cfr. le analisi di E. J. FISHER, «The evolution of a tradition», e di G. Wigoder, «A Jewish Reaction to the “Notes”», in Fifteen Years, cit., rispettivamente alle pp. 239-254 e 255-269; il mio articolo La costanza dell’ambiguità in «Alef-Dac» n. 35, 1987, pp. 6-8, con particolare riferimento alla beatificazione di E. Stein; l’intervista cit. in nota 6 e le reazioni che ha provocato.