Jonathan Pacifici – www.torah.it
“Ed osserverete i Miei decreti ed i miei statuti che farà l’uomo questi e vivrà in essi, Io Sono il Signore” (Levitico XVIII, 5)
“e vivrà in essi: nel mondo futuro; che se dovessi dire in questo mondo, ecco che alla fine lui muore. Io sono il Signore: fedele nel pagare il premio.”
La Torà, è cosa nota, è particolarmente restia a trattare quanto avviene dopo la morte. Le stesse regole della sepoltura e del lutto hanno pochissime fonti nelle Scritture. Il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita, mette questo fatto in relazione con l’uscita dall’Egitto. Dicono infatti i Saggi che nel trarre Israele dall’Egitto, paese perennemente immerso nell’idea della morte e nella preparazione a questa, Iddio si ripropone di dare ad Israele una Torà di vita.
La vitalità della Torà ed il suo occuparsi degli aspetti più pratici della vita umana sono proprio in contrapposizione all’ossessione della morte che c’era in Egitto. È notevole in questo senso il fatto che il nostro verso fonte, che sancisce la centralità della vita umana, si trovi appena dopo l’invito a non emulare le azioni degli egiziani.
La vita, la vitalità, scaturisce proprio dall’uscita dall’Egitto ed a sottolinearlo i nostri Saggi ci hanno insegnato che la redenzione è avvenuta negli ultimi diciotto (ghematria 18 = chaj, vita) minuti, oltrepassati i quali non saremmo più stati redenti. Si tratta dei diciotto minuti che indicano il concetto di zerizut, solerzia, nelle mizvot. Entro quei diciotto minuti acqua e farina, Torà e materialità, possono convivere. Non solo: sono la mazzà shemurà, sulla quale si recita la benedizione. Oltre i diciotto minuti diviene tutto chamez, lievita tutto l’impasto nella lentezza dell’oblio d’Egitto. Usciamo dall’Egitto proprio quando impariamo a confrontarci con il concetto stesso del valore della vita, simbolizzato dai diciotto minuti della mazzà.
Con la mazzà noi conquistiamo la consapevolezza del tempo e ne diveniamo gestori. Di più, noi trasformiamo un lechem oni, un pane [del] povero, in un pane sheonim alav devarim, sul quale si danno delle risposte. C’è un legame fortissimo tra il tempo e la parola. Nel creare l’uomo Iddio soffia in lui il Suo Spirito vitale e l’uomo diviene nefesh chajà, spirito vivente che Onkelos rende nella sua traduzione aramaica come ‘ruach memallelà’, spirito parlante. La radice profonda dell’anima Divina inspirata nell’uomo è la capacita verbale. Allo stesso tempo i Saggi ci dicono che l’anima ed il respiro sono connessi ed infatti leggono il verso dei Salmi ‘kol hanneshamà tehallel Yà’, ogni anima loderà il Signore, come ‘al kol neshimà veneshimà tehallel Yà’, per ogni respiro e respiro ti loderò oh Signore. L’anima parlante è vivente dunque non solo in quanto connessa alla Sorgente della Vita eterna il Santo Benedetto Egli Sia, ma lo è anche perché capace di lodare Iddio per ogni respiro, ogni attimo di questa vita. Quanto è profondo in questo senso l’uso di recitare l’Hallel mentre si impastano le azzime! Proprio mentre si prepara quel pane che ruota attorno ai diciotto minuti della vita, noi scandiamo il tempo della nostra libertà con le lodi dell’Hallel.
Rashì, lo abbiamo visto all’inizio, sulla scia del Midrash Torat Coanim vuole che il “e vivrà in essi” del nostro verso si riferisca alla vita del mondo futuro. In effetti spiega Rabbì Moshè Chajm Luzzatto nell’introduzione al suo Messillat Yesharim, l’obbiettivo dell’esperienza umana è il mondo a venire nel quale riceveremo il premio per quanto fatto in questo mondo. Dunque la vita per eccellenza che scaturisce dall’osservanza delle mizvot è la vita eterna del mondo a venire. Ciò nonostante il Rebbe di Gur, lo Sfat Emet, ricorda che non c’è nessuna contraddizione nell’associare l’imperativo del “e vivrà in essi” tanto al mondo futuro che al mondo presente. Infatti è proprio attraverso le mizvot che noi attingiamo dalla spiritualità del mondo futuro in questo stesso mondo materiale. Ed infatti, prosegue lo Sfat Emet, così dicono i Saggi all’inizio del Perek Chelek del trattato di Sanedrhin: ‘Tutti Israel hanno parte al mondo futuro’; non avranno, hanno, al presente. Attraverso l’osservanza delle mizvot l’ebreo ha la possibilità di avere sin d’ora il proprio pezzo di mondo futuro. In questo senso, come è scritto nel trattato di Avot, il cui studio è sempre introdotto proprio da questa Mishnà di Sanedrhin, “il premio per una mizvà è la mizvà stessa”.
Il Chidushè HaRim, nonno dello Sfat Emet, interpreta il nostro verso dicendo che l’esecuzione delle mizvot – che farà l’uomo questi – costituisce la totalità della vita ebraica – e vivrà in essi. La vita è nell’osservanza delle mizvot giacché le mizvot abbracciano ogni aspetto della vita. Ogni atto umano, anche mangiare, bere e dormire può e deve essere trasformato in mizvà dalla nostra intenzione di rimanere perennemente al servizio del Signore. E così è da intendersi la mishnà nel trattato di Avot (VI,7) “Grande è la Torà che dà vita a colui che la applica tanto in questo mondo che nel mondo a venire”. Da qui prosegue il Chidushè HaRim dicendo che proprio per questo noi non dobbiamo osservare le mizvot in maniera apatica, ma anzi abbiamo l’imperativo di trarre la gioia della vita da queste come è detto “e vivrà in essi”.
L’esempio più classico di come ciò avvenga è lo Shabbat. Dice infatti lo Sfat Emet: che farà l’uomo questi – nei sei giorni della Creazione, e vivrà in essi – nello Shabbat, che è un anticipazione del Mondo Futuro e che comporta la Neshamà Yeterà, l’anima addizionale, che entra in ogni osservante dello Shabbat il venerdì sera.
Lo Shabbat, anticipazione del mondo futuro, è la dimostrazione di quanto l’osservanza delle mizovt nei loro scrupolosi particolari in questo mondo trasformi l’esperienza della vita terrena permeandola di una spiritualità che trascende questo mondo e ci innalza ogni settimana in quello che i Saggi chiamano un sessantesimo del mondo a venire. I Saggi ci hanno insegnato ‘Che non sono stati dati i Sabati ed i giorni Festivi ad Israel altro che perché si occupassero in essi delle parole della Torà’ e certamente lo studio che compiamo di Shabbat contribuisce a rendere più profonda l’anticipazione del mondo futuro. Ma di Shabbat, a differenza delle feste, ogni godimento materiale come cibo, sonno e sesso è mizvà ‘automaticamente’. Di Shabbat tutto il mondo entra in una dimensione temporale all’interno della quale è palesemente chiaro che ogni atto che compiamo si relaziona in qualche modo alle regole dello Shabbat, al suo spirito, e quindi alla Torà. È la dimostrazione di come si possa anticipare oggi la vita eterna attraverso la Torà Orale, la ‘vita eterna che ha piantato in mezzo a noi’. Lo Shabbat diviene quindi la discriminante dell’accettazione del criterio ebraico per la definizione stessa della vita. Colui che profana pubblicamente il Sabato ha rinunciato non solo all’anima supplementare dello Shabbat ma anche alla radice profonda dell’anima d’Israele, livello superiore dell’anima umana. Per questo motivo è considerato per molte questioni legali come un gentile e la sua testimonianza in tribunale non è valida.
L’identità che c’è tra Shabbat e vita può essere compresa solo affrontando il limite delle regole stesse dello Shabbat. I Saggi ci insegnano infatti nel trattato di Yomà (84b – 85a) che il pericolo di vita o persino il dubbio pericolo di vita respinge lo Shabbat. Ciò consente, anzi impone, di ‘trasgredire’ tutte le regole dello Shabbat per salvare una vita umana. E la Ghemarà cita una lapidaria Baraità che si trova nella Tosefta di Shabbat (16,12):
“Si riscalda dell’acqua per il malato di Shabbat sia per dargliela da bere, sia per [lavarlo con essa] sì da rafforzarlo. E non solo [quando è possibile che muoia] in questo Shabbat hanno detto, ma anche [quando è possibile che muoia] in un altro Shabbat. E non si dice : ‘Aspettiamo [fino a dopo Shabbat] che forse guarirà’, ma gliela si riscalda immediatamente giacché il pericolo dubbio respinge lo Shabbat… e non si fanno queste cose né per mezzo di gentili e né per mezzo di bambini ma anzi per mezzo di Ghedolè Israel…”
Secondo molti ‘Ghedolè Israel’ significa qui ebrei adulti. Il Maimonide legge però il termine come ad indicare i Saggi. Coloro che conoscono la halachà. Occuparsi di un malato in pericolo di vita, per quanto il pericolo non sia immediato non è una sospensione delle regole dello Shabbat che si fa a malincuore o si delega a non ebrei: è parte integrante dell’osservanza dello Shabbat. È ciò che le regole dello Shabbat prevedono per questo caso. Per questo spiega il Rambam, è preferibile che se ne occupi qualcuno che è conscio della halachà, perché altri potrebbero non capire la serietà della situazione ed occuparsi del malato in maniera inadeguata per limitare la profanazione del Sabato.
[Quanto detto fin qui è da intendersi a solo scopo divulgativo – per queste halachot rimandiamo il lettore allo Shulchan Aruch, O.C. 328,12 – Taz. 5 e Mishnà Berurà 34 e soprattutto alla autorità rabbinica locale.]
Da dove si impara però che il pericolo di vita, e persino il dubbio pericolo di vita respinge lo Shabbat? In Yomà 85a troviamo:
“Accadde che Rabbì Yshmael, Rabbì Akivà, Rabbì Elazar ben Azarià camminavano per strada e Levì l’organizzatore e Rabbì Yshmael figlio di Rabbì Elazar ben Azarià camminavano dietro di loro quando fu chiesta la domanda: da dove si impara che salvare una vita respinge lo Shabbat?”.
Secondo il Rashash la domanda venne fatta proprio agli ultimi due, i quali in quanto discepoli si guardarono dal rispondere alla presenza dei Maestri.
“Rispose Rabbì Yshmael e disse: ‘[la Torà dice in Esodo XXII,1] “Se in fragrante verrà colto il ladro [e viene colpito e muore, il padrone di casa non è reo]. Se in questo caso nel quale è in dubbio se [il ladro] venga [solo] a rubare o [anche] ad uccidere, ed il versare sangue rende impura la terra e provoca che la Presenza Divina si ritragga da Israele, [nonostante ciò il padrone di casa] può salvare la propria vita a costo di quella del ladro, a maggior ragione che il pericolo di vita respinge lo Shabbat.
Rispose Rabbì Akivà e disse: ‘[la Torà dice in Esodo XXI,14] “Quando un uomo agisca deliberatamente [per uccidere] il proprio compagno [criminalmente, persino da presso al mio Altare lo prederai per essere messo a morte]” [Il testo dice] “da presso” e non “da sopra”.”
La Ghemarà spiega il ragionamento di Rabbì Akivà.
“ha detto Rabbà bar bar Channà a nome di Rabbì Jochannan: Questo non è stato detto altro che per mettere a morte…”
Ossia nel caso in cui un Coen sia accusato di omicidio e stia eseguendo un offerta gli si lascia terminare l’offerta e poi lo si processa.
“…ma per far vivere persino da sopra il mio Altare”
Nel caso in cui il Coen possa testimoniare in un processo capitale a favore dell’imputato salvandolo così dalla pena, viene fatto scendere dall’Altare e viene interrotto il culto del Santuario.
“Ora se in questo caso è dubbio se la sua testimonianza sia sostanziale oppure no, e lo stesso culto sacerdotale [è così importante] da respingere lo Shabbat [e nonostante ciò viene interrotto], a maggior ragione per il pericolo di vita che respinge lo Shabbat.
Ha risposto Rabbì Elazar ben Azarià ed ha detto: Se la milà che è una delle duecentoquarantotto membra dell’uomo respinge lo Shabbat, il corpo intero a maggior ragione respinge lo Shabbat!”
La baraità riporta altre opinioni di Maestri che non erano presenti:
“Rabbì Yosè figlio di Rabbì Yeudà dice: [È scritto nella Torà in Esodo XXXI,13] “[Ma] i miei Sabati osserverete”. È possibile [che ciò si riferisca] a tutte le circostanze? Il testo insegna [introducendo il verso con la parola] “Ma” che specifica [che c’è la circostanza del salvataggio di una vita che respinge il Sabato].
Rabbì Jonathan ben Josef dice: [È scritto nella Torà in Esodo XXXI,14] “Santo esso (lo shabbat) è per voi”. Esso è dato nelle vostre mani e non voi nelle sue.
Rabbì Shimon ben Menasià dice: [È scritto nella Torà in Esodo XXXI, 16] “Ed osserveranno i figli d’Israle lo Shabbat”. Ha detto la Torà. ‘Viola per lui uno Shabbat cosicché egli ne osservi molti’
Ha detto Rabbì Yeudà a nome di Shmuel: Se fossi stato lì avrei detto che la mia fonte è migliore delle loro: è scritto (Levitico XVIII, 5) “e vivrà in essi” e non che muoia per essi.
Ravà spiega poi in cosa differisce la fonte di Shemuel rispetto alle altre. Tutte le altre fonti non reggono qualora ci sia solo il dubbio del pericolo di vita mentre il principio di Shemuel è un principio assoluto. Uno tra i più grandi poskim, decisori halachici moderni, Rav Moshè Fainstain z.l., spiega in Igrot Moshè (Yorè Deà II, 146) che il senso di e vivrà in essi è che in nessun caso le mizvot possono ridurre le possibilità di guarigione del malato. Tutto quanto si sarebbe fatto per lui di giorno feriale può e deve essere fatto di Shabbat. Anche nel caso di dubbio pericolo di vita.
Quanto detto fin qui non diminuisce di una virgola la sacralità dello Shabbat, anzi la equipara al salvataggio stesso della vita. Così come è chiaro che si salva la vita fisica del malato di Shabbat deve essere chiaro che colui che osserva lo Shabbat è veramente vivo spiritualmente. Il caso del malato, per il quale si ‘profana’ lo Shabbat è il caso limite che mette in luce quanto in realtà lo Shabbat sia un continuo salvare il concetto stesso di vita umana dando un senso a questa. In questo contesto possiamo capire quanto dice Rabbì Shimon ben Menasià che, citando il ‘Veshamerù’, ci fa riflettere sulla dimensione ‘futura’ dello Shabbat. ‘Viola per lui uno Shabbat cosicché egli ne osservi molti’. Egli non trova altra definizione per segnalare la grandezza del salvataggio di una vita umana che il dirci che in questo modo egli potrà osservare tanti altri Shabbatot. La potenzialità di un individuo è la sua osservanza, in potenza prima e poi in atto, dello Shabbat.
Così i Saggi ci hanno insegnato che la redenzione finale esiste già in potenza nello Shabbat proprio perché se tutto Israele osservasse due Shabbatot di seguito il Messia giungerebbe subito. La redenzione è già qui, negli Shabbatot che noi possiamo osservare.
Ci troviamo in questo Shabbat nella prima delle sette settimane che congiungono Pesach a Shavuot, la libertà fisica alla libertà spirituale ed alla ricezione della Torà. Sono sette settimane che iniziano dall’indomani del primo giorno di Pesach che la Torà chiama Shabbat. Si possono contare i gradini che ci avvicinano alla Torà solo partendo dallo Shabbat. Non c’è modo di aggirare questo pilastro dell’ebraismo. La scala che conduce al Sinai poggia sullo Shabbat.
Queste settimane sono un momento di forte riflessione e preparazione in vista della ricezione della Torà, sono settimane di rinnovamento nelle quali siamo tutti chiamati a migliorarci. Tanto è stato fatto negli ultimi anni nelle nostre comunità ed è evidente un forte miglioramento in tanti campi della vita ebraica. Ma non può e non deve finire qui. L’osservanza dello Shabbat è uno scalino irrinunciabile che dobbiamo saper affrontare.
L’invito per tutti noi è quello di rafforzarci nell’osservanza delle regole dello Shabbat nei loro particolari, portando in questo mondo un po’ di mondo futuro. Perché se il dubbio pericolo di vita respinge lo Shabbat, non c’è dubbio che l’osservanza scrupolosa dello Shabbat riempirà le nostre vite della gioia del mondo a venire.
Shabbat Shalom, Jonathan Pacifici