Maurizio Molinari
La nuova moda ha prodotto un giro d’affari che arriva ormai a 200 miliardi di dollari. «Gli americani comprano questi alimenti perché sono sinonimo di purezza»
Hot dog «Hebrew National» nel Dolphin Stadium del Super Bowl, corsi sulla macellazione rituale per i futuri agricoltori all’Università del Mississippi, bevande Gatorade autorizzate dal rabbinato e un mercato di prodotti da 200 miliardi di dollari: il cibo kosher dilaga nei supermercati e nelle case degli americani grazie al fatto che a consumarlo sono soprattutto i non-ebrei, ritenendolo ancora più salutare di quello organico.
A descrivere l’entità della nuova moda alimentare sono i numeri. Se in America le vendite di cibo annuali sommano a 500 miliardi di dollari la quota di prodotti confezionati secondo le norme alimentari ebraiche (kosher significa «permesso») vanno da un terzo alla metà, con un considerevole balzo in avanti rispetto a quanto avveniva nel 1993 quando le vendite si fermavano a 32 miliardi. Se a ciò si aggiunge che gli ebrei compongono meno del 2 per cento dei 300 milioni di americani, e che in maggioranza non mangiano kosher, si arriva al boom di acquisti da parte dei non ebrei che, secondo Sue Fishkoff autrice del nuovo «Kosher Nation», scoprirono questo tipo di cibo grazie a uno spot tv del 1972 nel quale si vedeva lo Zio Sam divorare un «Hebrew National» hot dog – di manzo e non di maiale – mentre una voce sullo sfondo diceva «Rispondiamo ad un’Autorità superiore, fidatevi di noi, siamo kosher». Nell’America di Nixon attraversata da proteste e sfiducia fu un messaggio che funzionò per sdoganare un tipo di prodotti fino ad allora con una clientela soprattutto ebraica.
Ma il vero salto di qualità nella grande distribuzione è avvenuto negli ultimi dieci anni a seguito del dilagante timore su contaminazione di cibi, allergie e ingredienti che ha trasformato il «kosher food» in un prodotto sicuro perché arriva in vendita dopo una miriade di minuziosi controlli. L’indagine condotta dal centro di ricerche «Mintel» attesta che «solo il 15 per cento» degli acquirenti sono spinti da «motivi religiosi», mentre per il resto, come spiega Larry Finkel della società di analisi di mercato «Packaged Facts», «il motivo dell’acquisto è la sicurezza alimentare e il timore dei consumatori perché kosher è sinonimo di purezza». E ciò si spiega con il fatto che le leggi alimentari ebraiche includono l’estrazione di tutto il sangue dalle carne, il divieto di mischiare carne e latte, la proibizione totale dei frutti di mare, l’assenza di maiale e lo scrupoloso controllo di ogni tipo di grassi offrendo ai consumatori una garanzia di qualità superiore anche ai cibi organici.
Uno studio della Cornell University attesta che circa il 40 per cento di tutti i cibi in circolazione sono kosher e ciò spiega la scelta delle maggiori catene di supermercati – Wal-Mart, Costco e Trade Joe’s – di offrire questi prodotti sugli scaffali, mentre a New York il popolare servizio di consegne a domicilio FreshDirect afferma che nel 2009 ben il 30 per cento degli acquisti sono stati kosher. Le conseguenze sono a pioggia: si moltiplicano i produttori che vogliono kosherizzare i cibi come anche i rabbini e i controllori specializzati nell’eseguire le verifiche. E all’ateneo del Mississippi i docenti di «scienza del pollame» hanno iniziato a insegnare ai futuri agricoltori le tecniche della macellazione rituale, ebraica e islamica. La tendenza di massa ha resistito anche allo scandalo di Agriprocessors, il maggiore centro di trattamento di carne kosher in America, che nel 2008 è stato chiuso perché impiegava lavoratori clandestini. La decisione di molti clienti di boicottarne i prodotti è stata infatti seguita da un aumento di offerta dei concorrenti.