Secondo un’antica fonte halakhica italiana, lo Shibbolè ha-Lèqet, si chiama Shabbat ha-Gadòl lo Shabbat che precede tutti i Shalosh Regalim e non solo Pessach. C’è peraltro una differenza notevole fra lo Shabbat che precede Sukkot e gli altri. Non sempre Sukkot è preceduta da uno Shabbat: dipende dalla cadenza settimanale di Yom Kippur. Ciò rende questo Shabbat ha-Gadòl ancora più prezioso e speciale. A proposito di Yom Kippur, esiste nel Machazor (“formulario”) una formula di Widduy (“confessione”) molto più articolata di quelle che siamo abituati a recitare. Prima delle Selichot di Shachrit e Minchah è inserito un lungo brano, anch’esso di composizione assai antica (quello di Shachrit è attribuito al filosofo spagnolo medievale Bachyà Ibn Paqudà), che comprende una confessione ampliata. Due verbi hanno attratto la mia attenzione: ba’arti (=”sono stato ignorante”, come ish ba’ar lo yedà’ nel Salmo 92) e ra’iti rùach (si cfr. l’espressione ricorrente nel Qohelet: hevel u-r’ut rùach, “vanità e pascolo di vento”) che possiamo tradurre: “ho prodotto aria fritta”. Si tratta di capire come rimediare a queste due “trasgressioni” evitando di ricaderci nell’anno entrante.
All’inizio della Parashah odierna è scritto: Ya’arof ka-matar liqchì, tizzal ka-tal imratì: “si riversi come pioggia il mio insegnamento, stilli come rugiada il mio detto” (Devarim 32,2). Che rapporto c’è fra la Torah e la pioggia? I nostri Maestri insegnano che come la pioggia vivifica il suolo, così la Torah vivifica noi. Leggiamo questa Parashah alla vigilia della festa di Sukkot in cui prendiamo in mano gli Arba’ah Minim, le “quattro specie”. Spiega R. Bachyà (Ben Ashèr) nel suo commento alla Torah che queste specie sono state scelte proprio perché contengono in sé grande umidità e richiedono molta acqua. Si avvicinano ormai i mesi d’inverno e preghiamo per la pioggia, che è vita.
In ebraico la parola Lulav ha lo stesso valore numerico di Chayim (“vita”). Ma l’Or ha-Chayim dà anche un’altra spiegazione, basata sul fatto che la pioggia serve a far crescere i raccolti. E’ scritto nei Pirqè Avòt (3,17) im eyn qèmach eyn Torah, im eyn Torah eyn qèmach (“se non c’è farina non c’è Torah, ma se non c’è Torah non c’è farina”). Egli interpreta la Mishnah nel senso che da un lato il S.B. domanda all’uomo l’impegno a studiare Torah solo dopo avergli messo a disposizione i mezzi di sussistenza. La Torah stessa racconta che la Rivelazione sul Monte Sinai è avvenuta solo dopo che i nostri Padri ricevettero la manna nel deserto. D’altronde, finché l’uomo non si è impegnato a stillare dalla sua bocca gocce di studio il S.B. non si impegna a sua volta a fargli trovare la pioggia. Insomma, se non c’è Torah non c’è farina… Il versetto della Parashah ripete il medesimo concetto due volte usando una terminologia differente: ciò è tipico di quel fenomeno letterario biblico che si chiama parallelismo, ma può essere fonte di ulteriori spunti.
Se osserviamo meglio nella prima parte è usata la metafora della pioggia, mentre nella seconda l’immagine è la rugiada. Non sono esattamente la stessa cosa. La pioggia è la fonte e la base indispensabile per poter acquisire qualsiasi bene materiale, mentre la rugiada è solo il “commento”. Ma anche i due termini adoperati per indicare la Torah sono molto diversi fra loro. Nella prima parte, in corrispondenza del matàr (“pioggia”) è usato lèqach dal verbo prendere. Indica cioè quell’insegnamento che si consegna materialmente di mano in mano, ovvero la Torah scritta che H. ha dato in mano a Moshe sul Monte Sinai ed è il fondamento di tutto. Nella seconda parte, in corrispondenza del tal (“rugiada”) troviamo invece la parola imratì dal verbo dire. Si tratta della Torah orale che commenta e completa quella scritta. Un commento osserva che l’ordine dei concetti non è a sua volta casuale: come la terra necessita anzitutto di essere dissodata in vista della semina e solo la pioggia ha questa forza, deve arrivare per prima. Solo successivamente, una volta che il frumento è già spuntato, la rugiada con la sua dolcezza assolve meglio la funzione di irrigazione e mantenimento finché esso non è cresciuto del tutto. Con la stessa sequela deve essere parimenti strutturato lo studio della Torah. All’inizio ci si dedicherà soprattutto allo studio della Torah scritta, in modo da ammorbidire il nostro terreno interiore e così prepararlo alla ‘Avodat H. Una volta che la Torah comincia a crescere e svilupparsi nel nostro cuore si affronterà lo studio della Torah orale. Ma non è questa l’unica differenza fra pioggia e rugiada.
Il Talmud (Ta’anit 3b) dice per esempio che mentre la pioggia (almeno in Eretz Israel) sussiste solo nella stagione invernale ed è questo il periodo dell’anno in cui apporta i suoi benefici, la rugiada non si interrompe mai. Per questo i Maestri insegnano che la rugiada ha-kol semechim bo, “suscita sempre gioia” (Sifrè e Rashì al ns. v.). A proposito del succedersi delle stagioni in rapporto allo studio voglio riportare un insegnamento del Ben Ish Chay di Baghdad (anno II, P. Waetchannàn, introd.). Il Talmud (‘Eruvin 65a) afferma che la notte è fatta per… studiare. La tranquillità delle ore notturne, per chi sa approfittarne, è impagabile. Le stagioni avrebbero addirittura stipulato fra loro un patto in tal senso. Una leggenda ebraica sostiene che all’inizio dell’anno, quando comincia la stagione fredda, i giorni avrebbero deciso di prestare alcune ore alle notti, che d’inverno sono infatti più lunghe della media, in modo che avessimo più tempo da dedicare a quello studio che risulta senz’altro più agevole con il fresco. I prestiti vanno comunque restituiti e dunque nella seconda metà dell’anno, quando ritorna l’estate, ecco che le notti, ormai difficilmente fruibili specie nei paesi più caldi, riconoscono ai giorni le ore in sovrappiù. A questo punto, esiste una controversia fra gli stessi Chakhmè Baghdad su quale parte della notte sia più propizia allo studio. Il Ben Ish Chay (anno I, P. Wayishlach, 6) ritiene che ci si debba coricare presto la sera e alzarsi per studiare nell’ultima parte della notte che precede l’alba. Nell’arco delle 24 ore la nostra spiritualità forma una sorta di sinusoide: è in crescita da mezzanotte a mezzogiorno, rimane stabilmente alta da mezzogiorno fino a sera, dopodiché subisce un calo progressivo fino a mezzanotte. Ha dunque senso dedicare allo studio il tempo di crescita e non quello di calo: “il mattino ha l’oro in bocca” e così le ultime ore della notte che lo precedono immediatamente.
Un diverso approccio ha il Kaf ha-Chayim (comm. allo Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim 238), il quale parte dal presupposto che lo studio della Torah non serve solo a se stesso, ma è anche un modo per compensare i sacrifici che non siamo più in grado di compiere dopo la distruzione del Bet ha-Miqdash. Nella giornata del Bet ha-Miqdash la sera si bruciavano sull’altare le carni sacrificali del giorno e in corrispondenza di ciò è stata istituita la Tefillat ‘Arvit: ciò significa che in questo particolare ambito la notte segue il giorno, a differenza di quanto stabilito alla Creazione del Mondo. E’ logico dunque pensare che proprio le prime ore della notte siano utili per studiare ciò che non si è fatto in tempo a fare durante il giorno. Il Rav ‘Ovadyah Yossef (Yalqut Yossef I, 6) scrive che qualsiasi ora della notte è buona per studiare, purché si studi. Non è un caso che l’anno ebraico comincia all’approssimarsi dell’inverno. L’anno ebraico è un anno scolastico, finalizzato a favorire il nostro impegno nello studio della Torah. E’ pertanto strutturato in modo che nella prima parte di esso la notte sia più lunga del giorno. Rimane da augurare a noi stessi che il nuovo anno sia proficuo proprio nello studio della Torah, ciascuno secondo il proprio livello. A tale scopo ci è stato dato lo Shabbat, in cui la tensione spirituale fra notte e giorno si annulla (la Torah non scrive, infatti: “e fu sera e fu mattina, il giorno settimo”) ed è interamente propizio per lo studio. Quando Moshe e Aharon si rivolsero al Faraone affinché concedesse agli Ebrei schiavi un giorno di riposo settimanale si sentirono rispondere di no. We-al yish’ù be-divrè shàqer, “affinché non avessero il tempo di dedicarsi a menzogne” (Shemot 5,9). Tali le considerava il Faraone. Ma per noi la Torah è Torat Emèt, “Legge di verità”.
Le lettere che sommate danno il valore numerico del nuovo anno 5776 formano la parola tish’ù, “dedicatevi”. L’auspicio del nuovo anno è Tish’ù be-divrè emèt, dico io, che possiate e possiamo dedicarci in prima istanza alle parole della Torah, che sono verità e vita.