L’istituzione delle “città di rifugio” viene ricordata più volte nella Torah e nella Bibbia: sei città dei Leviti vengono messi a disposizione per un omicida che volesse sfuggire alla “vendetta” da parte dei parenti della persona uccisa involontariamente (1): le città di rifugio sono una risposta concreta per combattere l’abitudine a risolvere i problemi con delle faide, per “fare giustizia” da soli. L’applicazione della giustizia è cosa troppo importante per lasciarla nelle mani di persone il cui cuore, come dice il testo, è stato infiammato.
In cosa consiste questa norma e quali sono i suoi aspetti fondamentali:
· L’omicida può cercare riparo in una “Città rifugio” e aspettare gli inviati del Tribunale;
· Il Tribunale lo manda a prelevare e lo sottopone a processo;
· Il Tribunale stabilisce che l’omicidio è stato volontario: la persona viene messa a morte;
· Il Tribunale decide che l’omicidio non è intenzionale: l’omicida viene condotto nella “Città rifugio” sotto controllo (per evitare che il vendicatore possa “farsi giustizia da solo”);
· Nella Città rifugio dovrà rimanere fino alla morte del Sommo sacerdote.
La domanda che si pongono tutti i commentatori è quale sia il motivo per cui la permanenza dell’omicida nella Città rifugio è collegata alla morte del Sommo sacerdote:
Rashi dà due spiegazioni: 1) l’omicida ha profanato la società e la terra, mentre il Sommo sacerdote ha la funzione di purificare la società e il mondo: la sua morte è una forma di espiazione; 2) il Pontefice non ha pregato abbastanza affinché un incidente del genere accadesse durante il suo sacerdozio.
Rashbam si tratta di una sorta di “grazia” che veniva data all’inizio di un nuovo Pontificato;
Sforno sostiene che la Provvidenza divina fa sì che la morte del Sommo Sacerdote accada in un momento in cui il reato commesso sarà stato espiato: la sua morte è uno strumento necessario per espiare le colpe del Mondo e della società. Sulla necessità di purificare il Mondo, la Torà afferma:
Non accetterete prezzo di riscatto che permetta all’omicida di fuggire dalla sua città di rifugio e di tornare ad abitare nel suo paese fino alla morte del sacerdote. Non contaminerete il paese dove sarete, perché il sangue contamina il paese; non si potrà fare per il paese alcuna espiazione del sangue che vi sarà stato sparso, se non mediante il sangue di chi l’avrà sparso. Non contaminerete dunque il paese che andate ad abitare e in mezzo al quale io dimorerò; perché io sono il Signore che dimoro in mezzo ai figli d’Israele».(Numeri 35: 32 – 34)
Anche se questo passo si riferisce all’omicida volontario, è chiaro che il sangue innocente, versato anche involontariamente, deve essere espiato: la funzione del Cohen durante il giorno di Kippur ha lo scopo di espirare anche quelle colpe di cui non siamo pienamente responsabili e consapevoli.
Il problema riguarda non solo Israele, ma tutta l’umanità. Il primo omicida involontario (ancora prima di Abramo l’ebreo) è stato Caino che non aveva la minima consapevolezza di ciò che stava facendo. Per questo il Signore lo manda in esilio e lui vaga finché alla fine costruirà una città nella terra di Nod, la terra del suo esilio. Secondo il Sefer Hakhinnùkh, l’esilio svolge una funzione sia sulla persona esiliata (in un certo senso, la sua è una specie di “morte civile”), sia sui parenti della persona uccisa che non vedono più l’omicida nella propria città.
Nella società moderna gli omicidi involontari sono molto frequenti e spesso sono solo una notizia sulla stampa o nei giornali radio e non lasciano nessuna traccia nella coscienza della società. Il modo con cui la Torà tratta l’omicidio involontario e la necessità che anche esso venga espiato insegna che dobbiamo stare attenti a non rimanere indifferenti di fronte al sangue umano versato involontariamente, perché questo atteggiamento è l’anticamera dell’assassinio.
E’ bene ricordare che lo spazio sacro (il Tempio o per riflesso l’esercitare una importante funzione religiosa) non può essere utilizzato per fuggire dopo un omicidio: Se un uomo fa progetti contro un proprio compagno per ucciderlo con inganno, allora lo potrai catturare per metterlo a morte (portandolo via) persino dal mio altare. (Esodo 21: 14).
Il processo e la pena vengono eseguiti in uno spazio neutro che potremmo definire “laico”: laico è lo spazio della Città rifugio in cui l’omicida ripara. Ma quali sono le caratteristiche che deve avere una Città rifugio per svolgere la funzione di espiazione e rieducazione richieste?
Una risposta a questa domanda dà la Mishnà (e poi il commento del Talmud) in Makot (10a)
La Mishnà (Makot cap. 2, 4) sottolinea che le sei città dovranno essere operative tutte insieme: le tre “Città Rifugio” scelte al di là del Giordano, non potevano accordare asilo prima che fossero state scelte anche le tre città nella terra di Canaan: questo conformemente al testo che suona: Sei città di rifugio saranno: tutte e sei dovevano avere nello stesso tempo il diritto di asilo.
Il Talmud commenta.
“Queste città non vengono scelte tra i piccoli villaggi né tra le grandi metropoli ma tra le città medie, vengono fondate soltanto in luoghi provvisti d’acqua e se manca l’acqua ve la si porta, vengono fondate soltanto là dove ci sono piazze per i mercati e dove si svolge una intensa circolazione, dove la circolazione diventa rara la si incrementa e se gli abitanti diminuiscono si fanno venire sacerdoti leviti e israeliti, non vi vengono vendute né armi né strumenti di insidie – è così secondo rav Nehemiah – ma i Maestri autorizzano; tutti sono comunque d’accordo a che non vi vengano installate trappole né stese corde affinché il vendicatore del sangue non vi si accosti.
Rav Yitzchak dice: qual è il verso su cui si fonda ciò? E’ Deuteronomio 4, 42: “Affinché rifugiandosi in una di queste città possa salvarsi la vita”. “Salvarsi la vita”: bisogna fare di tutto affinché egli possa (veramente) vivere. Abbiamo una Baraità (insegnamento esterno alla Mishnà): quando viene esiliato un discepolo (nelle Città rifugio), insieme a lui viene esiliato anche il suo maestro, perché è detto “affinché possa salvarsi la vita”. Bisogna fare di tutto affinché egli possa veramente vivere. Rabbi Zerà dice: “Da lì si deduce che non bisogna insegnare la Torah a un allievo non adatto”
Rabbi Yochanàn ha detto: quando viene esiliato un maestro, insieme a lui viene esiliata anche la sua scuola. Com’è possibile? Rabbi Yochanàn non ha detto: da dove sappiamo che le parole della Torah sono un rifugio, perché è detto (Deuteronomio 4, 43): era Beser nel deserto che Mosè scelse, e subito dopo (4, 44) Questa è la Torah che Mosè pose di fronte ai figli d’Israele. Non è un’obiezione! La Torah protegge mentre ci si occupa della Torah,, mentre la Torà non protegge mentre non ce ne si occupa.. E se vuoi, si può dire: le parole della Torah sono un rifugio solo contro l’angelo della morte; …….”
Nella pagina di Talmud che commenta questa mishnà troviamo una serie di insegnamenti fondamentali su cosa sia il vero rifugio e quale sia il modo migliore per “redimere” un omicida e far sì che egli viva.
Come deve essere una Città rifugio? Non un posto squallido, ma un posto normale dove ci siano mercati, ci siano persone normali, con un traffico intenso ecc. La stessa scelta di un città di Leviti è già un programma perché loro hanno il compito di “insegnare la Torà e le leggi a Giacobbe”.
Come si studia la Torà in una città rifugio? La Torà è il vero rifugio, ma non la si può studiare da soli: bisogna avere il proprio maestro vicino e potere studiare Torah con lui, anche perché, il paradosso è che i Maestri devono condividere sempre i risultati del proprio insegnamento e quindi essere redenti loro stessi.
E se è il Maestro a essere esiliato? Allora tutta la sua scuola deve accompagnarlo e insieme devono capire come mai il Maestro è stato esiliato e tutti insieme devono fare Teshuvà (pentimento): non possono “scaricare” le proprie responsabilità su nessuno. I Capi sono i primi a essere responsabili, anche se non ne sono sempre consapevoli. .
Ma qual è la città cui dobbiamo aspirare di andare per cercare un vero rifugio? Lo stesso brano di Makot ci dà una risposta:
Rabbi Yehoshua ben Levi dice: Cosa significa “I nostri piedi si arrestano sotto i tuoi portici, o Gerusalemme?. Che cos’è che ha fatto sì che i nostri piedi resistano al combattimento? Sono i portici di Gerusalemme sotto i quali ci si è occupati di Torà ….. Sicuramente un giorno nelle tue stanze vale più di mille altri (Salmo 84, 11). Preferisco un giorno nelle tue stanze a studiare Torà a mille olocausti che tuo figlio (Salomone) mi sacrificherà un giorno sull’altare.
Città rifugio – Gerusalemme: la città rifugio risponde alla domanda di una società che cerca che venga stabilita una Giustizia equa che sia garantista nel senso che garantisca veramente l’innocenza a chi spetta, senza rinvii, senza sconti per nessuno e in tempi certi.
La soluzione è che, simbolicamente, Gerusalemme diventi non per una dichiarazione nazionalistica, oltre che Città rifugio del popolo ebraico, ma come opportunità messa a disposizione dell’Umanità tutta, ciò che ha profetizzato Isaia (cap 2):
1 Parola che Isaia, figlio di Amots, visione, relativamente a Giuda e a Gerusalemme.
2 Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa dell’Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al disopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno ad esso.
3 Molti popoli vi accorreranno, e diranno: ‘Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno.
4 Egli giudicherà tra nazione e nazione e sarà l’arbitro fra molti popoli; essi delle loro spade fabbricheranno vomeri d’aratro, e delle loro lance, roncole; una nazione non leverà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra.
(1) Esodo 21: 12 – 24; Deuteronomio 4: 41 – 43; Deuter. 19: 1 – 13; Giosuè 20 e I Cronache 42, 52.