Per concessione dell’editore, pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Sergio Romano al volume Propaganda nazista per il mondo arabo di Jeffrey Herf (Edizioni dell’Altana; in libreria nei prossimi giorni).
Sergio Romano
Dopo l’avvento di Hitler al potere la strategia arabomusulmana della Germania acquista nuova dimensione e una più radicale coerenza. Mentre ricerca lo scontro e, se necessario, la rottura, il Terzo Reich si prepara a diffondere il verbo nazista là dove la sua propaganda può servire a conquistare alleati e a imbarazzare nemici. Esiste tuttavia una difficoltà. Come predicare agli arabi e ai musulmani una ideologia che teorizza la superiorità della razza ariana e, di conseguenza, la loro inferiorità razziale?
La Turchia e l’Egitto chiesero chiarimenti, i persiani sostennero di non essere meno ariani dei tedeschi. E il ministero degli Esteri del Terzo Reich cercò acrobaticamente di conciliare il credo ideologico del regime con le esigenze della propaganda.
Fortunatamente per la Germania entrò in scena, a questo punto, il Gran Mufti di Gerusalemme. Amin el-Husseini era nazionalista, detestava gli ebrei ed era convinto che la dichiarazione di Balfour, con cui la Gran Bretagna aveva promesso al movimento sionista un focolare palestinese, fosse responsabile di tutti i mali che affliggevano la popolazione araba della Palestina. Chiunque fosse nemico degli inglesi, quindi, sarebbe stato il suo amico. E chiunque fosse nemico degli ebrei sarebbe stato il più prezioso dei suoi alleati. Per meglio convincere i suoi interlocutori tedeschi sostenne che il fascismo, il nazismo, le ideologie antidemocratiche e naturalmente l’antisemitismo corrispondevano alle tradizioni e alle esigenze politico-sociali del mondo arabo. Le sue aperture verso la Germania ebbero l’effetto di convincere Berlino che la componente antisemita dell’ideologia nazista avrebbe aperto al Terzo Reich le porte del Medio Oriente.
Fu questa la ragione per cui la Germania decise di mettere in campo, per la costruzione di una macchina di propaganda, il grande capitale degli studi orientalisti che aveva accumulato nei decenni precedenti: un patrimonio più cospicuo di quello dell’Italia dove gli studi arabi erano stati coltivati soltanto in un numero limitato di università e istituti culturali. Il risultato, da allora alla fine del conflitto, fu una massa considerevole di trasmissioni radiofoniche e di libelli in cui dominava la tesi secondo cui fra nazismo e islamismo esistevano straordinarie affinità elettive. Le trasmissioni e i proclami di Berlino sono infarciti di riferimenti al Corano intesi a dimostrare che l’antisemitismo è un tratto distintivo della religione islamica, una specie di sesto pilastro dell’Islam.
Per qualche anno, sino al 1942, la macchina della propaganda tedesca dovette tenere conto dell’esistenza di una fondamentale differenza tra gli scopi di guerra del Reich e quelli dell’Italia. Mentre i tedeschi erano disposti a promettere che avrebbero sostenuto, dopo la fine della guerra, l’indipendenza di tutte le nazioni arabe, l’Italia concepiva il proprio ruolo nel Mediterraneo come quello di un impero coloniale. Ma non appena il peso dell’alleato italiano, nel corso del conflitto, divenne meno rilevante, la propaganda di Berlino non esitò a sposare la causa della rinascita nazionale degli arabi e a esprimere persino una sorta di rammarico per la loro sconfitta in Spagna alla fine del XV secolo. Il punto più alto di questo connubio fu la creazione di una legione di SS bosniache che portavano, insieme alle mostrine del corpo di appartenenza, il fez rosso (come nei corpi musulmani dell’Impero austro-ungarico), decorato da una scimitarra.
Esistono fotografie in cui Amin el-Husseini tiene a battesimo la Legione e passa in rassegna le sue reclute. Lo stesso Husseini creò un «Istituto per l’Imam», destinato ad addestrare i religiosi che avrebbero servito come cappellani militari, e il comandante tedesco della divisione – scrive Herf – riferì che militari e civili, in Bosnia, avevano cominciato «a vedere nel nostro Führer la missione di un secondo profeta». Fu persino necessario decidere se fosse opportuno individuare in Hitler il Mahdi, giunto in terra «per aiutare i fedeli a fare trionfare la giustizia». Ma venne ritenuto più opportuno promuoverlo al rango di Gesù (in arabo Isa) «di cui il Corano predice il ritorno come un cavaliere \ che sconfigge i giganti e il re dei giudei, che apparirà alla fine del mondo».
Herf avverte il lettore che l’ignoranza dell’arabo non gli ha permesso di condurre la sua ricerca sui testi utilizzati dalla propaganda tedesca nella lingua di coloro a cui erano indirizzati. Ma ha fatto uno straordinario lavoro di scavo e ha riportato alla luce una grande messe di materiale inedito di grande interesse e importanza. Ne trae la convinzione che fra nazismo e fondamentalismo esista un evidente legame e che l’atteggiamento dei musulmani verso lo Stato d’Israele sia stretto parente di quello che ispirò alla Germania il genocidio ebraico della Seconda guerra. È una tesi simile a quella dell’islamofascismo, sostenuta da alcuni studiosi americani negli scorsi anni. A me sembra piuttosto che l’alleanza fra il Mufti di Gerusalemme e il Terzo Reich fosse costruita su una duplice bugia e su reciproche convenienze. I nazionalisti musulmani mentivano quando sostenevano che l’ideologia nazista fosse compatibile con il Corano. E i tedeschi mentivano quando sostenevano che l’ideologia nazista non considerasse gli arabi alla stregua di una razza inferiore. Esistono, anche fra le carte rinvenute da Herf, molte prove della scarsa considerazione in cui il Terzo Reich teneva gli arabi. Ma ciascuna delle due parti pensava di potere trarre dall’alleanza grandi vantaggi: la vittoria contro la Gran Bretagna per la Germania, l’indipendenza per i nazionalisti palestinesi, egiziani, siriani e iracheni. L’integralismo islamico, del resto, non aveva ancora l’importanza e le dimensioni che avrebbe assunto dopo il fallimento delle modernizzazioni occidentali negli Stati arabo-musulmani del secondo dopoguerra.
È certamente vero, come ricorda Herf, che l’antisemitismo tedesco ha finito per contaminare alcuni settori dell’opinione pubblica araba. Nasser si servì di un ex propagandista nazista per le campagne del ministero egiziano dell’Informazione e usò i Protocolli dei Savi di Sion per meglio screditare lo Stato d’Israele. A me sembra tuttavia che questo sia «antisemitismo di guerra» e appartenga alla categoria di quelle immagini del nemico che gli Stati costruiscono nei periodi di grande tensione per mobilitare la propria società e screditare l’avversario. Quanto più lungo è il conflitto e quanto più esasperati sono gli animi, tanto più il nemico viene rappresentato come l’incarnazione del male assoluto. Accadde in ambedue i campi durante la Grande guerra, la Seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Una ragione di più per sperare che finisca, con la soluzione della questione palestinese, una feroce guerra di propaganda destinata ad avvelenare ulteriormente gli animi di due popoli destinati a convivere.
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