“Ascolta figlio mio l’ammonizione di tuo padre e non abbandonare l’insegnamento di tua madre” (Pr. 1, 8). Per quanto la tradizione affidi al padre il compito di tramandare l’insegnamento dei Maestri ai propri figli, è altrettanto vero che almeno nei primi anni di vita del fanciullo è soprattutto la madre ad occuparsi attivamente dell’educazione ebraica dei bambini. Questo breve commento al brano Èshet Chàil è stato scritto per augurare alla piccola Carol Leà di diventare un giorno madre di Israele e di saper impartire il giusto insegnamento ai propri figli e di saper loro infondere il vero amore e rispetto per la Torà.
Un augurio particolare ai cari amici Victor e Paula Halwani che con la nascita della loro bambina hanno finalmente adempiuto alla mitzvà del perù urevù (procreazione) che è la prima mitzvà della Torà. A loro adesso spetta il compito di mettere in pratica l’ultima delle mitzvòt che ordina ad ogni ebreo di scrivere un sèfer Torà. Vogliano essi scrivere nel cuore di tutti i loro figli i vari insegnamenti della Torà scritta e della Torà orale e possa così regnare per sempre l’armonia nelle loro famiglie. Amèn, ken yehì ratzòn.
Prefazione
Il brano Èshet Chàil è comunemente interpretato come un elogio alla “donna di valore” che dedica tutta se stessa al benessere spirituale e materiale della famiglia e perciò è uso ormai comune cantare i versetti che lo compongono prima di iniziare il pasto sabbatico come ringraziamento a colei che avendo preparato il necessario per lo Shabbàt permette a tutta la famiglia di godere del riposo e della santità della festa.
In realtà vi è tra i Maestri anche chi interpreta Èshet Chàil come un inno alla sapienza o alla perfezione della Torà o alla spiritualità della Shekhinà viste qui come una donna virtuosa che risveglia nell’ebreo un sentimento di amore e di rispetto che si rafforza durante ogni Shabbàt.
Nel breve lavoro che presentiamo sul brano in questione riporteremo entrambi le posizioni sostenute dai Chakhamìm curandoci, quando ve ne sarà bisogno, di correlare le parole dei Maestri con dei brevi commenti per rendere più semplice al lettore la comprensione e il valore dei loro insegnamenti.
Struttura del brano
L’Èshet Chàil, che conclude il libro biblico dei Proverbi, è un componimento poetico le cui lettere iniziali dei singoli versi danno origine all’alfabeto ebraico. Già Rabbì Davìd Kimkhì (1160-1235) nel suo commento agli Agiografi (Salmi 111, 1) scriveva:
“Ogni inno composto in forma alfabetica – per la sua importanza e le gloriose parole in esso espresse – è scritto così per ispirazione divina”.
Per i Maestri le lettere dell’alfabeto hanno sempre assunto un importanza particolare poiché con esse fu scritta la Torà ed è grazie alla Torà che il mondo vive (Jer. 33, 25). Molti inni liturgici medioevali e parti della Tefillà giornaliera contengono degli acrostici e la tradizione kabbalistica, con il Séfer Yetzirà, ci ha tramandato che al centro dell’opera della creazione del mondo figurano le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Come prima considerazione si potrebbe dunque affermare che attraverso la lode e il ringraziamento che con l’Èshet Chàil si esprime alla donna per la sua dedizione verso il marito e i figli, si viene a rafforzare quel rispetto tra i coniugi che è fondamentale per poter vivere una vita basata sull’osservanza della Torà (che come abbiamo visto è simboleggiata dall’acrostico) all’interno del nucleo famigliare dal quale dipende tutto il “mondo” spirituale dell’ebreo.
Letto in questo modo il nostro brano diviene da un lato un dovuto atto di riconoscenza verso la consorte e dall’altro la prefigurazione della donna ideale che si impegna per il bene della sua casa (vv. 11-18) e per il bene della società (v. 19). Le sue azioni e i suoi preziosi consigli divengono così fondamentali e ragione d’orgoglio per il marito e i figli che si sentono istintivamente portati a lodarla in pubblico per la sua sagacia e per l’opera delle sue mani che non conoscono l’ozio (vv. 20-29). Di fronte a tali virtù anche la bellezza fisica perde la sua importanza e non è più la vera cagione di amore e desiderio (vv. 30-31).
Il Midràsh ai Proverbi identifica questa donna nella moglie di Rabbì Meìr, da secoli divenuta esempio di saggezza, di sagacia e di attaccamento a Dio per tutte le donne d’Israele. Leggiamo il Midràsh:
“Un sabato pomeriggio i due figli di Rabbì Meìr morirono mentre egli sedeva nella scuola e spiegava la Scrittura. Che cosa fece allora la madre? Li mise sul letto e li coprì con un lenzuolo.
La sera, quando Rabbì Meìr andò a casa, volle sapere dove erano i due figli. La moglie gli disse: “Sono andati alla scuola”. Ma Rabbì Meìr disse: “Alla scuola mi sono guardato attorno e non li ho trovati”.
La moglie gli porse il calice di vino per la preghiera serale del sabato (havdalà). Egli recitò la preghiera. Poi tornò a chiedere dei figli. “Dove sono i miei figli?” chiese. “Sono andati in qualche posto”, rispose la moglie, “e torneranno certamente presto.”
Poi gli portò la cena.
Dopo mangiato, essa disse: “Rabbì, posso porti un quesito di legge religiosa?” – “Chiedi, figliola, chiedi” rispose Rabbì Meìr. Essa raccontò: “Poco tempo fa venne qui un uomo e mi diede in custodia un tesoro. Ora è tornato a prendere il tesoro lasciato in custodia. Devo rendergli il tesoro o no?”
“Ma figliola”, replicò indignato Rabbì Meìr, “che domanda! Se una persona si è incaricata di custodire qualcosa per qualcuno, deve naturalmente renderlo quando è richiesto”. Allora la donna disse: “Si, hai ragione. Anche senza il tuo parere, io avrei restituito il tesoro che avevo in custodia”.
Poi prese il marito per mano e lo condusse di sopra in camera da letto, dove giacevano i figli morti. Essa alzò il lenzuolo con cui aveva coperto le salme e Rabbì Meìr vide i suoi due figli morti.
Rabbì Meìr pianse e gridò: “Figli miei, Figli miei! Maestri miei, maestri miei! figli miei perché si sono comportati onestamente; maestri miei perché mi hanno illuminato con il loro studio della Torà.” Allora la moglie disse: “Rabbì, non mi hai detto tu stesso che si deve restituire al proprietario un tesoro ricevuto in custodia? Il proprietario è venuto e ha ripreso il suo tesoro.”
Allora Rabbì Meìr citò le parole di Giobbe (1, 21): ‘Il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore!’ In tale modo ella lo consolò ed egli trovò pace al suo dolore. per queste donne fu scritto: “Una donna di valore chi può trovarla?”. (Midràsh ai Proverbi cap. 31).
La struttura di Èshet Chàil ha però indotto alcuni commentatori moderni a leggere il brano come la descrizione di una donna virtuosa dal giorno del suo matrimonio al giorno della sua morte (D. Rozin). All’inizio (vv. 11-22), ella si presenta come una donna giovane ed attiva che ama apparire bella ed elegantemente vestita con abiti di “bisso e porpora”, ma poi (vv. 23-27) la sua vita appare in declino. Il marito, ormai in età avanzata, siede ora tra “gli anziani del Paese” e lei stessa, forte della sua esperienza costruita con anni di fatica e di lavoro, non ha più paura di ciò che il futuro le può riservare e si permette di dare buoni consigli di vita. Le sue forze cominciano ormai a vacillare e ora può solo sovrintendere “all’andamento” di quella casa che aveva sempre gestito con amore e che viene ora curata da altre donne più giovani e fisicamente più forti di lei.
L’ultima parte di Èshet Chàil (vv. 28-31) ci appare come un elegia funebre recitata davanti alla bara della donna ormai morta e pronta per essere sepolta. I figli “si alzano” dalla terra sulla quale si erano seduti affranti dal dolore ed assieme al vecchio padre iniziano a parlare di quanto ella ha fatto durante la sua vita. Colei che un tempo appariva balla d’animo e d’aspetto vive ora nella mente di quanti le sono stati vicini e la hanno amata, e solo chi lascia di se un buon ricordo nel mondo terreno può dirsi veramente immortale, come insegnavano i Maestri: “I giusti anche nel momento della loro morte sono considerati vivi”.
È forse a questa chiave di lettura che si deve l’usanza di recitare i primi e gli ultimi versetti del Èshet Chàil durante i sette giorni di lutto che seguono la sepoltura di una donna.
Èshet Chàil nel commento tradizionale
In precedenza abbiamo parlato di Èshet Chàil come inno alla donna poiché questa è l’impressione che si ricava dalla semplice lettura del brano. Sulla base di tale considerazione cercheremo ora di esaminare in modo più approfondito ogni singolo versetto attraverso le spiegazioni dei commentatori tradizionali del Tanàch.
“Una donna di valore chi può trovarla? Il suo prezzo va molto al di là di quello delle sue perle” (Pr. 31, 10)
Per quanto la Torà permetta la poligamia (Deut. 21, 15), l’ideale per ogni uomo è sicuramente quello di avere un unica moglie con la quale mettere in pratica il precetto della procreazione ed allevare assieme a lei i figli sulla strada della Torà (Salmi 128, 1). Ne consegue che l’uomo dovrebbe prestare somma attenzione prima di formare una famiglia con una donna che potrebbe rivelarsi a lui non adatta al punto da essere costretto poi a cercare una nuova compagna. Ma l’amore e l’attrazione fisica che porta due esseri umani ad unirsi, non sempre permette loro di valutare con attenzione l’effettiva utilità del loro rapporto così i Maestri del Midràsh ritengono talmente ardua la buona riuscita di un matrimonio da considerare veramente felici solo quelle unioni tra un uomo ed una donna che Dio stesso, dall’alto del cielo, ha fatto tra loro incontrare. Leggiamo il Midràsh:
Una signora romana chiese a Rabbì Yosé ben Chalaftà: “In quanti giorni Dio ha creato il mondo?”. Egli rispose: “In sei giorni, poiché così si legge: ’In sei giorni il signore fece il cielo e la terra.’” (Esodo 31, 17).
“E da allora che cosa ha fatto ?” “Egli unisce le coppie e conclude i matrimoni. Egli stabilisce chi deve sposare la figlia del tale.”
“Beh” rispose la signora. “Questo posso farlo anch’io. Io ho molti servi e serve, e posso con tutta facilità appaiarli.” Ma Rabbì Yosé disse: “Tu puoi trovare facile questo. Ma per Dio è arduo quanto aprire le acque del mare dei Giunchi.”
Rabbì Yosé se ne andò ed essa mise in due file una di fronte all’altra mille servi e mille serve. Poi ordinò: “Il tale sposi la tale e il tal altro sposi la tal altra!”
Tutto questo doveva avvenire nella stessa notte. Il mattino seguente i servi e le serve accoppiati in tal modo vennero dalla signora uno con la testa rotta, l’altro con un occhio pesto, il terzo con una gamba a pezzi. Uno disse: “Io non posso sopportare questa donna!” Un’altra disse: “Io non posso soffrire quest’uomo.”
Allora la signora romana mandò a chiamare Rabbì Yosé ben Chalaftà e gli disse: “La tua Torà ha sicuramente ragione, e quanto tu hai raccontato è proprio vero!”
Ma Rabbì Yosé disse: “Te l’ho già detto. Tu puoi credere facile combinare dei matrimoni. Ma per Dio è difficile quanto la spartizione del mare dei Giunchi.” (Gen. Rabbà 68, 4)
Rabbì Itzchàk Aramà nel suo libro di commento alla Torà “Akedàt Itzchàk” (Genesi, porta 22) proprio sulla base del Midràsh ritiene che le parole iniziali di Èshet Chàil: “Una donna di valore chi può trovarla?”, intendano sottolineare che un’accurata ricerca ed una somma attenzione, se non vi è anche l’aiuto di Dio, non bastano per trovare la vera compagna di tutta la vita, per cui è più facile entrare in possesso di “perle” di immenso valore che formare con le proprie forze la base ideale per una famiglia ebraica. In questo primo versetto dunque, il Re Salomone sprona colui che è felice per il rapporto d’amore e di profondo rispetto che si è instaurato all’interno della sua casa a ringraziare innanzi tutto il Signore per avergli fatto incontrare la donna ideale.
“Può fidarsi di essa il cuore di suo marito e non gli manca il guadagno” (Pr. 31, 11)
Tra le due parti del versetto sembra non esservi alcun legame. Rabbì Yechièl Hillèl Altshùler, ritiene che si tratti qui di una donna che non si occupa solamente dei problemi spirituali della famiglia, ma anche di quelli materiali.
Quando l’uomo non è in famiglia potrà comunque fidarsi di lei. Ella avrà cura di tutto ciò che è in casa e in qualunque posto egli si trovi non mancherà di concludere i suoi affari poiché non avrà paura e non si affretterà a tornare per il timore di perdere ciò che è in suo possesso.
Questo commento, anche se in forme leggermente diverse, si riscontra anche presso altri commentatori del Tanàkh (Malbìm e Paltiél Birenbaum). Per Rashì, invece, l’inizio del versetto fa riferimento alla fiducia che il marito prova per la moglie per tutto ciò che ella fa, e solo la sua parte finale parla dell’amore con il quale la donna cura ciò che lo sposo ha conquistato con il duro lavoro.
“Essa gli fa solo bene e non male per tutti i giorni della sua vita” (Pr. 31, 12)
Tutti i commentatori si soffermano sull’apparente inutile precisazione: “e non male” che, sebbene omessa, non avrebbe cambiato il senso del Testo. Il Malbìm, nel suo commento al Tanàkh affermava:
“Spesso le donne ricompensano i loro mariti con delle cattiverie e anche il loro bene si tramuta poi in male… Ma ella lo ricompensa solo con azioni benevoli che non cambiano mai nel corso della vita.”
Difficile comprendere a quale tipo di donna si fa riferimento in questo commento. Nella parte che per brevità di spazio si è dovuta omettere, il Malbìm cita ad esempio il caso di una sposa che ripensando in età adulta al tempo da lei perduto in gioventù ripaga il consorte con delle cattive azioni.
A volte una moglie che abbandona la casa materna e paterna per formare una propria famiglia non riesce ad accettare la realtà di doversi ora occupare di tutta una serie di problemi che vanno dall’accudimento dei figli a quello del marito e di tutte le altre manifestazioni della vita familiare. Spesso questa nuova realtà viene da lei vissuta come un fatto traumatico che non sempre viene superato ed ella tende a colpevolizzare il suo compagno che le può apparire come il vero colpevole della propria mutata esistenza. Ma la donna di cui si parla nel Èshet Chàil non ha nulla di cui dolersi, ella ha accettato con piacere e con felicità il ruolo di madre e di moglie perciò il rancore e la vendetta non fanno mai parte dei suoi sentimenti.
Leggermente diverso da quello del Malbìm è il commento di Rabbì Yechièl Hillèl Altshùler. Leggiamo le sue parole:
“Durante tutta la sua vita, ella ricambia il bene che il marito le fa con atti di amore, ma il male che egli le causa ella non lo ricambia”.
L’uomo, più della donna, ha il dovere di lavorare per sostenere finanziariamente la propria famiglia, ma non sempre egli riesce ad adempiere a tale compito e la grande responsabilità può renderlo nervoso e portarlo a sfogare il proprio nervosismo con la sua compagna. Ella, comunque, lo capisce e lo perdona dimostrando una grande sensibilità ai problemi del marito che, al contrario, sembra averne ben poca.
Ma con lo Shabbàt, quando i problemi del lavoro lasciano lo spazio alla gioia e ai ripensamenti, l’uomo è pronto a riconoscere la pazienza avuta dalla moglie e per ciò le esprime tutto il suo ringraziamento.
“Essa cerca lana e lino e lavora con la diligenza delle sue mani” (Pr. 31, 13)
Leggiamo anche questa volta il commento di Rabbì Yechièl Hillèl Altshùler:
“Lei stessa cerca la lana e il lino per tesserli, sebbene questo non sia il suo compito”. Tra i compiti che la tradizione ebraica attribuisce alla donna, vi è quello di tessere per i figli e per il marito degli abiti di lana ma non è tenuta a procurarsi da sola tale materiale. Nel nostro versetto la moglie ci appare particolarmente solerte; ella non solo si procura personalmente la lana ma ricerca e lavora “con diligenza” (“con gioia”, secondo Avrahàm Ibn Ezrà e Paltièl Birenbaum) anche il lino, sebbene, per l’estrema difficoltà che si incontra nel cercare di trasformare tale fibra tessile, non sia obbligata dalla halakhà a questo tipo di lavoro” (commento di Késef Tzarùf).
Secondo altri commentatori (Tokhechòt Chayìm) il verbo “cercare” presente nel versetto va interpretato nel senso di “ispezionare”. La donna così, non solo lavora più del dovuto ma sta bene attenta a non contravvenire al precetto di non mescolare tra loro la lana ed il lino.
“Essa è simile ad una nave commerciale che porta da lontano il suo pane” (Pr. 31, 14)
La donna viene ora paragonata ad una nave commerciale che porta dai posti più lontani le cose più belle e pregiate così come ella è disposta a recarsi nei posti più lontani per procurare alla sua famiglia tutto il bene possibile (E. S. Artom). Per Rabbì Yechièl Hillèl Altshùler questo versetto può essere interpretato come la conclusione di quello precedente. Ancora una volta la moglie non attende che il marito faccia il suo dovere, ma lei stessa si impegna a portare a casa ciò che ritiene necessario.
“Essa si alza quando è ancora notte e dà il cibo alla sua famiglia e le disposizioni alle sue ancelle” (Pr. 31, 15)
La traduzione del versetto riportata è fedele alla traduzione aramaica del “Targùm Yonatàn”. Secondo Avrahàm Ibn Ezrà, invece, Il termine ebraico chok (disposizione), va tradotto anch’esso come “cibo”, poiché con questo senso esso compare a volte nella Scrittura (Gen. 47, 22). La donna, dunque, fedele all’insegnamento della Torà che impone l’obbligo di rispettare e di procurare l’alimento necessario ai servi, si sveglia prima dei domestici per preparare loro il vitto.
“Pensa ad un campo e lo acquista, con il frutto del lavoro delle sue mani pianta una vigna” (Pr. 31, 16)
Pur impegnata giorno e notte per il bene della sua casa, la donna non sogna una vita più rilassata e ad acquistare gioielli o abiti costosi bensì, quando il lavoro le concede del tempo per riflettere, considera la possibilità di comperare campi o vigne per migliorare la condizione economica della famiglia.
Ella, però, ci appare sempre estremamente lucida e razionale e non pensa mai ad acquistare cose che potrebbero rivelarsi troppo costose per le sue possibilità.
“Cinge con forza i suoi lombi e usa con vigore le sue braccia” (Pr. 31, 17)
Nel versetto 16 la donna ci si presenta abile non solo nel lavoro, ma anche nel campo degli affari. Lo stesso marito si affida al suo acume per la compravendita di beni immobili ed è ancora a lei che si chiede il modo migliore per far fruttare ciò che si è comperato. A volte per effettuare l’acquisto c’è bisogno di un prestito in denaro che dovrà essere restituito alla data stabilita dalle parti in causa e, in caso contrario, la Torà permette a colui che ha concesso il prestito di appropriarsi dei vestiti del renitente (Es. 22, 25).
Ma non è questo il caso della donna. Ella, pur prendendo delle somme in prestito, restituisce con correttezza tutta la cifra nel momento e nel modo convenuto, per cui può indossare i suoi vestiti e cingere con forza i suoi lombi poiché nessuno oserà appropriarsi dei suoi abiti (Me’àm Lo’èz).
“Si accorge che da buoni risultati il suo commercio, la sua lampada non si spegne di notte” (Pr. 31, 18)
La donna si accorge che il suo operato nel campo del commercio dà buoni risultati, ma ella non può trascurare la famiglia per il lavoro perciò di notte deve occuparsi di quanto il marito e i figli hanno bisogno.
Per altri commentatori il ner, la lampada, simboleggia qui la luce delle mitzvòt, secondo il versetto dei Proverbi: Ki ner mitzvà vetorà or. In tale caso il versetto vuole insegnare che la donna, nonostante il lavoro, non trascura lo studio e l’osservanza della Torà che è il suo vero aiuto in questo mondo che spesso i maestri del Midràsh hanno paragonato ad una buia notte.
Essa manda le sue mani verso il fuso e le sue palme afferrano il telaio. (Pr. 31, 19)
Secondo alcuni, questo è il lavoro che ella svolge di notte alla luce della lampada per preparare i vestiti e le coperte per la sua famiglia e per i poveri. Da notare l’espressione usata nel versetto: “manda le sue mani”; le mani sembrano qui staccate dal resto del corpo, come se si muovessero da sole, senza comando. Ella è talmente abituata a questo tipo di lavoro che tutto le risulta spontaneo, naturale.
Essa tende la sua mano al povero e manda le sue mani verso il misero. (Pr. 31, 20)
Al povero ella tende “la sua mano” (singolare) e al misero “le sue mani” (plurale). Il misero (eviòn), è in una condizione peggiore di quella del povero (’anì), egli non ha assolutamente nulla perciò ha diritto ad un aiuto maggiore (Midràsh Sifrì su Deut. 15, 7). La donna qui si presenta attenta e solerte anche nel adempimento delle mitzvòt nei confronti dei suoi simili.
Da notare che secondo la halakhà non è possibile accettare della tzedakà da una donna a meno che ella non possieda molto denaro (Shulchàn ’Arùkh, Y. D. 248 a e Talmùd Bavlì, B. K. 119 a). La donna che nei versi precedenti ci è stata presentata come una grande lavoratrice, è ora diventata ricca ed il suo primo pensiero va ai poveri ed ai miseri che adesso lei stessa può aiutare (Me’àm Lo’èz).
Non ha timore della neve la sua famiglia, perché tutta la sua famiglia veste lana scarlatta. (Pr. 31, 21)
Avrahàm Kahanà e Rabbì Davìd Kimkhì leggono il vocabolo shanìm (scarlatta) come shenàim (doppi). In questo modo il versetto assume un senso ben preciso; nonostante la donna sia pronta a donare i vestiti della famiglia ai poveri ed ai miseri, il marito ed i figli non hanno di che temere poiché ella si curerà di portare loro indumenti pesanti per l’inverno.
Secondo altri commentatori il versetto farebbe notare che la donna non si cura solamente di procurare ai propri parenti dei vestiti per difenderli dal freddo, ma cerca di farlo tessendo abiti colorati ed eleganti per permettere loro di vestire sempre con onore e decoro (Rashì).
Si fa tappeti, il suo vestito è di bisso e di porpora. (Pr. 31, 22)
Queste parole sembrano ribadire nuovamente le capacità creative e la solerzia della donna. Alcuni commentatori ritengono che il versetto intenda paragonare la “Èshet Chàil” con la donna di cattivi costumi di cui si parla in Proverbi 7,15, che si loda di fronte agli uomini per la sua capacità nel tessere tappeti e vestiti con lo scopo di attirare a se un grande numero di amanti. Qui, invece, la donna fa dei tappeti per se stessa e per la sua casa ed ama apparire sempre bella ed elegante per piacere al marito al quale è sempre fedele.
Suo marito è ben noto alle porte della città, quando siede insieme con gli anziani del Paese. (Pr. 31, 23)
Nella Torà, gli anziani sono sempre sinonimo di sapienza e di saggezza. È probabile che anche nel nostro versetto gli anziani possano essere identificati con i Maestri e con i giudici che siedono nel tribunale rabbinico posto tradizionalmente “alle porte” della città. La donna che si occupa con abilità dell’economia della casa e che non fa mancare nulla al marito, permette al proprio consorte di passare gran parte del suo tempo a studiare e ad insegnare a tal punto da acquistare grande fama ed autorevolezza tra gli stessi Chakhamìm (Malbìm).
Secondo altri, invece, il versetto vuole ancora una volta sottolineare l’amore con il quale la moglie si occupa del marito, sempre curato ed elegante e per questo ben noto agli abitanti della città che ne parlano con ammirazione e forse con una punta di invidia (Rashì).
Fa un telo e lo vende ed una cintura dà al commerciante. (31, 24)
Essa veste forza e decoro e se la ride dei giorni futuri. (Pr. 31, 25)
Questi due versetti, secondo il Malbìm vanno commentati assieme poiché uno è la diretta conseguenza dell’altro:
“Il telo che ella ha fatto e che ora vende, e così la cintura che aveva tessuto per dare al commerciante, hanno lo scopo di procurare il denaro da distribuire ai poveri. Questo “telo” rappresenta dunque la forza e il decoro con cui ella si veste nei giorni che seguiranno e che le darà la forza di ridere nei “giorni futuri” poiché la mitzvà sarà per lei il vestito spirituale con il quale si vestirà fino al momento in cui svestirà il suo abito materiale (cioè il suo corpo nel momento della morte)”.
Già abbiamo avuto modo di dire che l’ultima parte di Èshet Chàil viene generalmente interpretata come la descrizione degli anni finali della vita della donna. Ella ora non può più lavorare nel campo o nella sua casa poiché le sue forze non le consentono più di compiere lavori pesanti ma nonostante ciò ella riesce con abilità a procurarsi il denaro per adempiere alla mitzvà della tzedakà che, come dice il Malbìm, le darà la sicurezza di vivere con serenità gli ultimi anni della sua vita, circondata dall’amore a dal rispetto dei suoi cari e di coloro che sono stati da lei aiutati.
Rashì, invece, interpreta alla lettera la parte finale del versetto 25 per cui il sorriso sulle labbra della donna si troverebbe solo nell’ultimo giorno della sua vita ossia nel momento della morte. Sarà dunque una morte felice la sua, consapevole di lasciare un buon ricordo nel mondo terreno e di essersi guadagnata un posto d’onore tra i giusti del mondo futuro. Forse anche a questa fonte fa riferimento l’insegnamento dei Maestri: “Se (il moribondo) muore sorridendo, è per lui un buon segno ma se muore piangendo è un cattivo segno” (T.B. Ketubbòt 23 b).
Apre la sua bocca con saggezza ed insegnamento di bontà vi è sulla sua lingua. (Pr. 31, 26)
La saggezza non nasce se non dalla pratica e dall’esperienza per cui la donna “apre la sua bocca con saggezza” ma solo dopo aver trascorso una vita di azione e di osservanza rispettosa delle leggi della Torà.
I commentatori si sono interrogati sul giusto senso della chokhmà (saggezza) di cui si parla nel versetto. Secondo alcuni la donna dimostra saggezza nel parlare con calma e mai con arroganza sicura della giustizia dei suoi insegnamenti. A volte anche i messaggi più importanti possono non essere recepiti se comunicati in modo violento. Da notare che secondo un insegnamento del Maharàl di Praga le parole di Hillèl venivano più ascoltate di quelle di Shammài non per la loro maggiore importanza ma per il modo con cui venivano riferite.
Diverso il commento fornito dal Malbìm:
“…Apre la sua bocca con saggezza ossia seguendo i principi della saggezza nel considerare il bene e il male”.
Questa prima parte del versetto, dunque, tratterebbe più che altro del modo in cui la donna affronta i temi sociali o, in altre parole, delle mitzvòt ben adàm lachaverò. La seconda parte del versetto, invece, almeno secondo il Malbìm, parlerebbe in senso più generale delle capacità della donna nello studio della Torà. Leggiamo tale commento che accenna almeno nella sua prima parte ad una tradizione kabbalista:
“…La lingua accenna al discernimento …ella raggiunge con intelligenza i segreti più reconditi della Torà e questo è da noi chiamato toràt chèsed (insegnamento di bontà) poiché il chèsed racchiude tutto ciò che di profondo scaturisce dal senso semplice delle parole della Torà…“
Controlla l’andamento della sua casa e non mangia il pane dell’ozio. (Pr. 31, 27)
È questa l’ultima frase che narra della vita della donna, dopo di ciò il testo inizia a parlare del suo ricordo nel pensiero dei figli e del vecchio marito. Il testo così ribadisce quello che è stato il tema conduttore di tutto l’Èshet Chàil, l’importanza del lavoro, il rifiuto dell’ozio e l’importanza della casa e della famiglia per quella che fin dal principio è stata definita “una donna di valore”.
Alcuni commentatori si sono comunque spinti oltre trovando commenti ben più profondi al versetto in questione. Vi è così chi ritiene che la “casa” di cui qui si parla altro non sarebbe che il posto che ognuno conquista nel mondo dell’aldilà grazie a quanto fatto nel mondo terreno (Me’àm Lo’èz). La donna fino all’ultimo istante della sua vita pensa alla sua futura esistenza e non si basa su quanto già svolto durante tutta la sua lunga ed operosa vita. Il suo è un vivo insegnamento a non adagiarsi ed uno sprono ad agire fino all’ultimo istante della vita.
Bello e profondo l’insegnamento del Malbìm secondo il quale la donna fino all’ultimo controlla l’andamento della sua casa nell’osservanza della Torà curandosi di lasciare almeno una traccia della propria personalità e del proprio attaccamento allo studio e all’osservanza delle mitzvòt in tutti i componenti della sua famiglia.
I suoi figli si alzano e la dichiarano felice, suo marito la elogia. (Pr. 31, 28)
Inizia ora l’elegia funebre dei parenti stretti della donna. Ella, fino all’ultimo, aveva proclamato il valore del lavoro ed i figli, subito dopo la sua morte, si curano di mettere in pratica gli insegnamenti impartiti dalla madre. I commentatori (Me’àm Lo’èz) sottolineano infatti che essi non rimangono abbattuti ma “si alzano” dalla terra pronti ad agire dopo un breve hespèd, elegia funebre. Da notare che già al principio del libro di Giosué (Gios.. 1, 2) il verbo kum (alzarsi) viene usato per esortare il popolo ebraico a non abbattersi dopo la morte di Mosé e a passare in fretta il Giordano per entrare in terra d’Israele.
Secondo altri commentatori il verbo kum deve essere inteso in senso figurato; anche se i figli riusciranno a ricoprire eminenti incarichi nell’ambito della società innalzandosi al di sopra degli altri per importanza non potranno comunque dimenticare mai l’opera della loro madre, anche se morta da molto tempo.
Il Malbìm a sua volta fa notare che a lodare la donna sono solo il marito ed i figli, gli unici cioè ad essere a conoscenza di quanto ella aveva fatto quand’era ancora in vita, quasi a voler sottolineare la modestia della donna che pur operando per il bene dei poveri e dei bisognosi si curava, come vuole la tradizione ebraica (Rambàm – Hilkhòt Matanòt ’Anyìm, cap. 7), a non rendere manifesto il proprio comportamento.
Molte sono le donne che si sono dimostrate di valore, ma tu sei superiore a tutte. (Pr. 31, 29)
Menzogna è la grazia e vanità è la bellezza, la donna temente di Dio è quella che è degna di esser elogiata. (Pr. 31, 30)
Anche in questo caso, secondo il Malbìm, i due versetti vanno commentati assieme. Molte donne dimostrano dedizione verso il marito ed i figli ma la donna di cui si parla nel Èshèt Chàil dimostra tutto il suo valore per aver posto il timore di Dio come base per se stessa e per tutta la sua famiglia.
Molti sono i commenti che i nostri Maestri ci hanno tramandato attorno a quest’ultimo versetto; noi ne riporteremo solo una piccola parte.
Secondo il “Késef Tzarùf” il Testo non intende affatto sminuire il valore della bellezza femminile ma semplicemente ribadire il valore e l’importanza del timore di Dio. La bellezza e la grazia sono un dono che la donna ha ricevuto fin dalla sua nascita ma il timore di Dio è una sua personale conquista poiché, come insegnavano i Maestri del Talmùd: “Tutto è nelle mani di Dio tranne che il timore di Dio”.
Secondo il Me’àm Lo’èz il duro lavoro domestico può con facilità rovinare in parte la bellezza e la grazia delle donne e perciò molte tra loro si rifiutano di fare i duri lavori domestici e ne affinano il compito a domestici o aiutanti. La donna di cui parla il nostro brano, invece, non si cura del pericolo di guastare il proprio aspetto fisico ma solo di pensare al bene materiale e spirituale della propria famiglia
Ancora secondo il Me’àm Lo’èz la grazia è menzognera e la bellezza vanità poiché esse svaniscono con la vecchiaia. Ciò non avviene invece con il timore di Dio che semmai si rafforza sempre di più con la saggezza e l’esperienza.
Fatele onore in base al frutto delle sue mani e sia elogiata presso le porte della città per le sue azioni. (Pr. 31, 31)
Ibn Ezrà ritiene che queste siano le parole finali che il padre rivolge ai figli per esortarli a lodare la madre per ciò che essa ha fatto. Sono essi, dunque, il “frutto delle sue mani” poiché a lei devono la loro educazione ed il loro amore e timore di Dio. Il padre, dunque, ammette di fronte alla tomba della moglie che è soprattutto a lei che la famiglia deve il proprio attaccamento alla Torà e alle mitzvòt.
Qualche commentatore (Malbìm, ’Etz Yosèf), con una traduzione più letterale da quella qui fornita, traduce le parole viallelùa bashe’arìm ma’asèa con: “la lodano presso le porte della città le sue azioni”.
È questa la logica conclusione del brano: di fronte agli uomini forse le parole possono servire per lodare o per narrare le gesta di un loro simile, ma di fronte a Dio queste non contano nulla poiché solo le azioni che l’uomo compie in questo mondo gli potranno permettere la giusta ricompensa nel mondo futuro.
Èshet Chàil nel Midràsh
Come si è visto nel precedente paragrafo il brano Èshet Chàil prefigura la donna ideale che dedica la sua vita al lavoro e all’osservanza della Torà. Il commento dei Maestri del Midràsh si spinge però oltre e vede nel brano in questione un accenno alla vita e alle qualità di tutte le più importanti donne della Scrittura, famose sia per la loro saggezza che per le loro capacità profetiche, che hanno spesso permesso la salvezza del popolo ebraico durante la sua lunga e travagliata storia.
In questo paragrafo riporteremo gli esempi di figure femminili di cui parla l’Èshet Chàil seguendo l’ordine dei versetti che lo compongono.
“Può fidarsi di essa il cuore di suo marito e non gli manca il guadagno”
Questo versetto accenna a Sara, la moglie del patriarca Abramo, che con il suo aiuto permise al marito di accumulare grandi ricchezze, com’è detto: “…Grazie a lei beneficò Abramo che ricevette bestiame ovino e bovino, asini, schiave, asine e cammelli” (Gen.12, 16).
“Essa gli fa solo bene e non male per tutti i giorni della sua vita”
È quanto fece Rivkà che, secondo il Midràsh, sostituì degnamente la figura di Sarà riportando la serenità nella vita del marito Isacco, disperato dopo la morte della madre.
“Essa cerca lana e lino e lavora con la diligenza delle sue mani”
Il versetto accenna a Leà, prima moglie del patriarca Giacobbe, che con lo stesso impegno con cui una donna ricerca la lana ed il lino per tessere dei vestiti, cercava di conquistare l’amore del marito ogni giorno della sua vita (commento al Midràsh di Maarì Cohèn).
“Essa è simile ad una nave commerciale che porta da lontano il suo pane”
Il versetto parla di Rachèl, seconda moglie di Giacobbe, che grazie alla sua modestia al dolore e alla vergogna per la sua sterilità che ella cercava di vincere con la tefillà si meritò di avere come figlio Yosèf, che come una nave piena di cibo che raggiunge anche i posti più lontani riuscì a salvare la sua famiglia e l’intero Egitto dalla carestia.
“Essa si alza quando è ancora notte e dà il cibo alla sua famiglia e le disposizioni alle sue ancelle”
Si parla qui di Bàtia, la figlia del faraone che ordinò alle sue ancelle di salvare Mosè dalle acque del Nilo e di nutrirlo.
“Pensa ad un campo e lo acquista, con il frutto del lavoro delle sue mani pianta una vigna”
È quanto ha fatto Yokhevèd dalla quale nacque Mosè che i Maestri reputano importante come la totalità del popolo ebraico, paragonato nella Bibbia ad una vigna, com’é detto: “poiché la casa d’Israele è come una vigna” (Isaia 5, 7).
“Cinge con forza i suoi lombi e usa con vigore le sue braccia”
Questo versetto mette in risalto la forza di volontà della donna che non si ferma di fronte ad alcuna difficoltà, perciò i Maestri ritengono si voglia qui accennare al personaggio di Miriàm, che anche nei momenti più duri della schiavitù egiziana fu l’unica ad avere fede nella profezia secondo la quale Mosè avrebbe un giorno salvato il suo popolo (vedi T.B. Sotà 13 a).
“Si accorge che da buoni risultati il suo commercio, la sua lampada non si spegne di notte”
Qui è accennata la preghiera di Chanà, madre del profeta Shemuèl, che pregando per vincere la sua sterilità fece voto di consacrare a Dio l’eventuale figlio che sarebbe da lei nato. Il “commercio” di cui si parla nel versetto è appunto il voto proposto dalla donna.
“Essa manda le sue mani verso il fuso e le sue palme afferrano il telaio”
Il versetto allude a quanto seppe fare Ya’èl, moglie del kenita Chèver, che uccise Siserà, capitano dell’esercito di Yavìn, re di Canaan e nemico d’Israele, conficcando con le proprie mani nella tempia dell’uomo un lungo chiodo mentre questi dormiva (Giudici 4, 21).
“Essa tende la sua mano al povero e manda le sue mani verso il misero”
Si allude qui a quanto narrato in I Re cap. 17 riguardo ad una vedova di Tzarefàt che nutrì il profeta Eliàhu in tempo di carestia quando egli, affamato, si rifugiò presso di lei per ordine divino.
“Non ha timore della neve la sua famiglia, perché tutta la sua famiglia veste lana scarlatta”
Il Midràsh si sofferma soprattutto su quanto scritto alla fine del versetto trovando un accenno con ciò che è raccontato in Giosué cap. 2 su Rachàv, che dopo aver nascosto gli esploratori ebrei mandati dal successore di Mosè lega alla propria finestra un filo di lana scarlatta come segno, per permettere al popolo ebraico di riconoscere la sua casa e di non colpirla durante la lotta per la conquista della città.
“Si fa tappeti, il suo vestito è di bisso e di porpora”
Si parla qui di Bat Shèva, madre del re Salomone, che passava intere giornate a tessere vestiti di bisso e di porpora.
“Suo marito è ben noto alle porte della città, quando siede insieme con gli anziani del Paese”
Il marito di cui qui si parla è il re Davide e dunque la donna in questione è Michàl che lo salvò dalle mani di Saul quando questi lo voleva uccidere.
“Fa un telo e lo vende ed una cintura dà al commerciante”
La “cintura”, alla quale gli uomini usavano attaccare la propria spada, è divenuta nella tradizione ebraica simbolo di forza e di potenza (un tempo, quando le benedizioni mattutine venivano recitate da ognuno nella propria abitazione prima di recarsi al Bet hakenèset, la formula “Benedetto Tu o Signore Dio nostro Re del mondo che cinge Israele con forza” doveva essere detta mentre ci si accingeva a legare la cintura al vestito). Il versetto perciò fa riferimento alla madre di Sansone, il forte giudice che salvò il popolo ebraico dall’oppressione dei filistei.
“Essa veste forza e decoro e se la ride dei giorni futuri”
Il versetto allude a Elishèva figlia di Aminadàv e sorella di Aharòn che in un solo giorno ebbe il merito e la gioia di vedere nominati il proprio marito come Cohèn, i due figli come aiutanti del padre per il lavoro nel tabernacolo ed il proprio cognato come capo di tutto il popolo.
“Apre la sua bocca con saggezza ed insegnamento di bontà vi è sulla sua lingua”
Si parla qui di Seràch figlia di Ashèr che come narrato in II Samuele cap. 20 salvò gli abitanti di Avèl Bet Ma’achà, oggi nota con il nome Tell Abìl, a 20 km a nord del lago Chùle, convincendo con saggezza il generale Yoàv a non attaccare la città.
“Controlla l’andamento della sua casa e non mangia il pane dell’ozio”
Il Midràsh in questo caso fa affidamento ad un episodio che non è narrato nella Bibbia e che trova la sua fonte in una tradizione orale. La donna in questione è la moglie di ’Ovadià che salvò la sua casa convincendo i figli a non adorare gli idoli, usanza assai diffusa tra i giovani di quel tempo.
“I suoi figli si alzano e la dichiarano felice, suo marito la elogia”
Si allude alla donna sciunamita che ebbe il merito di nutrire il profeta Eliseo che in segno di riconoscenza riportò in vita il figlio della donna, morto a causa di una improvvisa malattia. Per ciò la donna è degna di ricevere il ringraziamento del marito e dei figli.
“Molte sono le donne che si sono dimostrate di valore, ma tu sei superiore a tutte.
Menzogna è la grazia e vanità è la bellezza, la donna temente di Dio è quella che è degna di esser elogiata.
Fatele onore in base al frutto delle sue mani e sia elogiata presso le porte della città per le sue azioni”
Secondo il Midràsh gli ultimi tre versetti di Èshet Chàil alludono tutti alla figura di Ruth, che per sua scelta si convertì all’ebraismo accettando senza riserve il giogo dell’osservanza delle mitzvòt (per questo è detto “Tu sei superiore a tutte”) lasciando le comodità e le agiatezze che le offriva la propria famiglia paterna, ritenendo che tutto ciò fosse vano e menzognero. Per questo ella merita lode ed onore, e di aver dato inizio alla stirpe davidica dalla quale presto arriverà il Messia. Amèn.
Èshet Chàil nell’allegoria
Come abbiamo già avuto modo di dire vi è tra i Maestri chi interpreta “Èshet Chàil” come un inno alla Torà o alla spiritualità divina viste qui come una donna virtuosa. Tale commento non dovrebbe comunque stupire se si pensa che l’intero libro del Cantico dei Cantici, anch’esso cantato alla vigilia dello Shabbàt dagli ebrei di rito sefardita e interamente dedicato al dialogo tra due innamorati, deve la propria canonicità al fatto che la sua interpretazione allegorica (l’amore di Dio per Israele, l’amore di Israele per Dio) fu generalmente accettata fin dai tempi dei Tannaiti (Mishnà Yadàyim 3, 5).
Nulla di strano perciò che alcuni commentatori si siano soffermati più sull’aspetto simbolico del Èshet Chàil che sul senso letterale del Testo notando in esso quel desiderio di unione con Dio e con la Torà che ha caratterizzato e continua a caratterizzare l’esistenza del popolo ebraico.
Il Midràsh Mishlé, dunque, apre il suo commento al brano in questione partendo proprio da una visione allegorica del testo:
“Una donna di valore chi può trovarla? Il suo prezzo va ben al di là di quello delle sue perle” (Pr. 1, 1).
“Una donna di valore chi può trovarla?” Ciò si riferisce alla Torà. “Il suo prezzo va ben al di là delle sue perle”. Poiché essa era nel luogo più nascosto (il cielo) e Mosé ha avuto il merito di farla scendere verso Israele.
Il Midràsh esprime qui la concezione secondo la quale la provenienza divina della Torà negherebbe all’uomo la reale possibilità di raggiungere l’essenza della parola di Dio. Egli la potrà studiare approfonditamente, ma il senso ultimo della Scrittura non potrà mai essere trovato dall’essere umano che per sua natura è troppo legato alla materia per potersi innalzare al punto da coglierne i segreti. Le “perle” di cui parla il versetto simboleggiano qui le parole della Torà che hanno un “prezzo” ossia un valore ben più elevato di quello a cui l’uomo può pensare. Ma nonostante ciò, dal momento in cui per mezzo di Mosè la Torà scese nel mondo terreno ad ogni ebreo è dato il compito di occuparsi della Sua comprensione con fervore e sentimento per cercare di comprendere quanto più è possibile il valore degli insegnamenti divini racchiusi in Essa.
Tutte le qualità della “donna di valore” devono perciò essere attribuite alla Torà, che è così fonte di sicurezza e di ricchezza spirituale e materiale (v. 11) sicché, anche l’uomo più bisognoso può trovare in essa il vero aiuto per tutti i giorni della sua vita (vv. 12-21).
Ma per l’ebreo la Torà è anche fonte d’orgoglio e tutti i popoli vorrebbero possederla (v. 21), studiare i Suoi insegnamenti e conoscere la Sua saggezza (v. 24).
La filosofia, l’arte e la scienza sono importanti e cariche di valori, ma possono essere menzognere, perciò nulla può raggiungere la spiritualità della Torà, che esprimendo il pensiero del Creatore diviene fonte di verità inconfutabile (vv. 29-30).
Per questo ogni ebreo ha il dovere di decantarne le lodi per tutti e di metterla in pratica per tutti i giorni della sua vita.
Conclusione
Concludiamo questo breve lavoro con una piccola storia ascoltata anni fa dal rabbino Yehudà Zegdùn.
“La guerra era ormai finita ed una madre cercava disperatamente il proprio bimbo che, ancora in fasce, fu affidato anni prima ad una vicina di casa per salvarlo dalle mani dei tedeschi. Ma il bambino da tempo era stato portato ad un convento assieme ad altri piccoli trovatelli e nessuno era ormai più in grado di riconoscere un bimbo ebreo tra i tanti piccoli orfani che la guerra aveva causato. La donna, così, chiese di essere portata di fronte alla camera dove dormivano i piccoli e con tutta la fede e la speranza che le erano rimaste iniziò a recitare lo Shemà’ Israèl.
Fu allora che dal gruppo dei bambini si udì una voce che urlò sempre più forte: “Mamma,mamma!” Il figlio aveva riconosciuto la voce della madre e lo Shemà’ Israèl che ella recitava ogni sera vicino al suo lettino”.
Reuvèn Roberto Colombo – 11 Giugno 1994
Possano la voce e le parole di Torà della piccola Carol Leà Halwani aiutare i dispersi del nostro popolo a tornare sulla strada della Torà. Amèn, ken yehì ratzòn.