UNA DEBOLEZZA PER LA PALESTINA – L’EDITORIALE DI ÉLISABETH LÉVY
Mi ero promessa di parlare d’altro. Non che la moda antisemita che si diffonde, con i suoi vecchi abiti riverniciati, negli ambienti progressisti dell’Occidente non mi ispiri spavento, dolore e soprattutto una rabbia enorme contro tutti i tartufi che da decenni ripetono «mai più», tanto feroci con gli antisemiti di ieri quanto ciechi o compiacenti con quelli di oggi. Dall’Europa all’Australia, l’odio contro gli ebrei, nascosto dietro la detestazione dello Stato ebraico, non si limita più ad aggredire i portatori di kippah o di stelle di Davide: si adopera per escluderli dallo spazio pubblico. Turisti israeliani vengono cacciati dai ristoranti, bambini respinti da un centro vacanze, un cantante invitato a non esibirsi in un festival. Alcuni idioti arrivano perfino ad abbattere gli alberi piantati in memoria di Ilan Halimi – che non aveva nulla a che vedere con Gaza. Senza dubbio si trattava di alberi sionisti. E non si creda che gli adepti del Judenrein si nascondano: al contrario, si vantano di purificare l’atmosfera. Nulla di sorprendente quindi se, come riassume Georges Bensoussan, il popolo-genocidio ha sostituito il popolo-deicida. Contro i genocidari, tutto è permesso, no?
Eppure, per quanto cupo sia questo quadro, nella vita non ci sono solo gli ebrei e gli antisemiti. Molti ebrei, presi dal loro stesso male, dimenticano che milioni di loro connazionali, che non vivono al ritmo di Tel Aviv e di Gaza, hanno molte altre ragioni per disperare della Francia. E loro non hanno Israele. Solo che non c’è modo di sfuggire alla giudeo-ossessione, magnificamente decifrata da Guillaume Erner [1]. Non solo a causa della litania di aggressioni perpetrate in nome dell’amore per i bambini di Gaza, ma perché la questione ebraica è ormai al centro di scontri diplomatici e di litigi politici. È a chi sarà il miglior amico degli ebrei – «i sefarditi», risponde una vecchia barzelletta. La piazza ebraica francese applaude Netanyahu quando accusa Emmanuel Macron di «alimentare il fuoco antisemita» ed esalta Trump che, tramite l’ambasciatore, rimprovera al presidente francese di combatterlo troppo debolmente. La piazza ebraica sbaglia. Prima di tutto, questo atteggiamento vittimistico mira meno ad aiutare gli ebrei che a dar fastidio a Macron. Poi, nessun francese dovrebbe rallegrarsi di vedere il proprio paese umiliato da queste cattive maniere. Infine, accettare di mettersi sotto protezione straniera significa giocare la carta della denazionalizzazione, che è da sempre quella degli antisemiti. Certo, molti ebrei pensano alla partenza, se non per sé stessi, almeno per i propri figli. Nell’attesa, però, sono cittadini francesi.
Emmanuel Macron è forse un cattivo dirigente, ma è il nostro. Sta a noi – noi francesi – chiedergli conto. Che ci lascino litigare in pace, i motivi non mancano. Dal 7 ottobre, il presidente ha commesso diverse gravi colpe: la sua assenza alla manifestazione del novembre 2023, ispirata dal grande filosofo Yacine Belattar che gli fece notare che la sua presenza avrebbe innervosito le banlieue; il suo costernante balbettio sulla storia che deciderà, quando gli si chiede se bisogna parlare di genocidio; e infine il suo annuncio intempestivo del riconoscimento incondizionato dello Stato palestinese, che è, lo voglia o no, una vittoria per Hamas e per gli islamisti di tutto il mondo. Macron ha il diritto di pensare, come milioni di israeliani, che la politica di Netanyahu conduca al disastro. Per una volta, avremmo voluto che lo facesse contemporaneamente: se crede di dover denunciare la «fuga in avanti omicida e illegale» di Israele a Gaza, dovrebbe anche stigmatizzare l’influenza nociva e vergognosa dell’islamismo in Francia. Molti, pur notando che i francesi non lo ascoltano più, gli rimproverano anche di essere troppo silenzioso, come se la sua parola avesse un potere performativo. In realtà, anche se il presidente avesse partecipato alla manifestazione e avesse respinto l’accusa di genocidio, questo non avrebbe cambiato granché.
Se Emmanuel Macron è colpevole, non è di compiacenza, ma di impotenza. Non è lui che alimenta il fuoco antiebraico. Non più, in ogni caso, di tutti coloro che, da decenni, rifiutando di chiamare il male col suo nome, hanno favorito l’arrivo di milioni di persone provenienti da paesi dove l’odio verso gli ebrei è una norma. Anche ipotizzando che solo il 10% di questi nuovi arrivati porti con sé i propri cattivi sentimenti, fanno comunque un bel po’ di antisemiti accolti a braccia aperte. E non migliorerà con l’arrivo dei gazawi, ormai tutti eleggibili allo status di rifugiato grazie alla Corte nazionale per il diritto d’asilo. Sapendo cosa imparano a scuola, ci si può aspettare lo sbarco di amabili ammiratori di Hitler, come la graziosa studentessa di Sciences-Po Lille, di cui ci si chiede perché sia stata presa la briga di espellerla, se è poi per far venire i suoi cloni. Non sono i militanti che celebrano la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah né i festivalieri che applaudono il gruppo irlandese Kneecap, sostenitore di Hezbollah, a sentirsi sempre più indesiderati in Francia, ma i titolari di passaporti israeliani, i portatori di nomi ebraici, i fedeli delle sinagoghe. Quando tanti sguardi dicono loro «Vietato agli ebrei», ci si aspetta che la Repubblica affigga alle sue frontiere un avviso che proclami che la Francia è vietata agli antisemiti.
[1] Guillaume Erner, Judéobsessions, Flammarion, 2025
Traduzione R.M. Grazie!